Un nome per una scelta. Lunàdigas: le donne che scelgono di non avere figli. La prima testimonianza fu quella di Margherita Hack

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Rami secchi. Egoiste. Diverse. Cattive. Incomplete. Imperfette. Sbagliate. Strane. Segnate da dio.
Sono solo alcuni degli aggettivi coniati per identificare le donne che non hanno avuto figli, soprattutto quelle che non li hanno avuti per scelta. Non esiste un termine italiano per definirle senza un pregiudizio, una critica, una condanna etica. Così nel 1999, nasce Lunàdigas, un progetto reso associazione culturale per coinvolgere e accogliere senza sovrastrutture sociali tutte le voci, femminili per lo più, ma anche maschili, sensibili al tema della non maternità intesa come prole.
A creare il progetto sono Nicoletta Nesler e Marilisa Pigi, documentariste sarde che nel corso della loro vita si sono dedicate alla ricerca e alla sensibilizzazione di temi sociali come la disabilità e la sindrome di Down, dando voce alle testimonianze molto spesso lasciate in sordina. La caratteristica fondamentale che differenzia Lunàdigas, oltre al nome di cui paleremo a breve, è il coinvolgimento aperto ad ogni tipo di testimonianza: madri, non madri, donne che avrebbero voluto diventare madri e non hanno potuto, donne che avrebbero voluto dei figli ma non è accaduto, donne che hanno scelto di non avere dei figli e devono rispondere ogni giorno della loro scelta con delle giustificazioni. Strano? Per molti lo è, i più emancipati o forse solo i meno perbenisti, i meno spaventati. Per altri, invece, è normale ritenere una donna senza figli un caso da escludere.

Una delle domande più frequenti in Italia a cui, ancora ad oggi, sono sottoposte le donne senza figli è prima di tutto “Sei sposata?” e subito dopo “Avete figli?”  come una bomba spontanea, quasi fosse un’inevitabile condizione da accompagnare alla vita matrimoniale. Quando la risposta è “No, non li abbiamo”, i risultati di reazione di fronte ad una negazione lecita e non necessariamente argomentabile sono dei più svariati: smorfie di stupore, silenzio imbarazzante o l’incisivo proseguo di ulteriori domande che cercano il motivo di un “no”. Perché non li avete? È spesso la domanda più scomoda che un tempo, ricordo, mia madre mi insegnava a non porre mai per “questione di rispetto”, poiché per ragioni biologiche poteva accadere che una donna non potesse avere dei figli e ogni domanda l’avrebbe messa di conseguenza nell’imbarazzante situazione di dover spiegare dei processi intimi delicati e per molte, dolorosi. È per tutte così? O forse è proprio il tabù sull’argomento, il pregiudizio di qualcosa di “andato storto in quella femmina” che crea maggior sofferenza, inesprimibile? È inevitabile pensare che le donne senza figli per problemi riproduttivi soffrano della loro condizione di fronte alla quale si “dovrebbe” essere portati per una morale etica a porre delicatamente la domanda oppure a non porla proprio. In questo caso, quindi, l’assenza di prole provoca dolori sconvenienti da entrambe le parti, di chi cioè i figli non li ha e di chi ha scelto di imporre la domanda come ovvia.

Quando invece la risposta è “no” “perché?” “perché non li desidero”, la sensazione che immediatamente si crea nello scambio comunicativo è di forte imbarazzo dettato da un pregiudizio sociale fatto di sovrastrutture che prevedono un naturale susseguirsi della specie, come se fossimo tutte e tutti chiamate/i a volere e a dover intraprendere la stessa strada. Per le donne che non possono avere figli è stato coniato il termine di “sterili”, già di per sé umiliante e categorizzante in una dimensione che esclude a prescindere qualunque altra possibilità emotiva che la donna in questione può provare. Nel caso invece delle donne che scelgono di non avere bambini non è mai esistita una parola per definirle, quasi al contrario non appartenessero abbastanza ad una società che per costrutti storico-sociali si basa sull’idea di famiglia.

Oggi esiste Lunàdigas. Da dove viene questo nome?

Durante la loro ricerca assidua sul tema, attraverso conversazioni prima con amiche e conoscenti, poi con persone estranee, personaggi dello spettacolo, della scienza e dell’arte, Nicoletta e Marilisa si sono imbattute nella scultura dell’artista Monica Lugas: un seno bianco candido dentro una gabbia. Il nome dato all’opera d’arte era Lunadiga, termine utilizzato dai pastori sardi per identificare le pecore che non procreavano. Immediatamente, il termine in questione è diventato un simbolo di appartenenza per l’associazione dedicata alle donne che scelgono di non avere figli. In men che non si dica, la schiera femminile ha iniziato attivamente a partecipare al dibattito sul tema proposto dalle due documentariste, creando nel tempo un vero e proprio Archivio Vivo.  Per dare voce a tutte, Nicoletta e Marilisa, si sono impegnata nello sviluppo di un docufilm dal titolo “Lunàdigas, ovvero delle donne senza figli” che ha visto coinvolte voci femminili di fama nazionale come Veronica Pivetti, Margherita Hack, Lidia Menapace per citarne solo alcune, le quali hanno sottolineato aspetti differenti che le hanno portate alla scelta consapevole di non diventare madri biologicamente; per esempio, non sempre e soltanto il rapporto con la madre, il padre e i fratelli è necessariamente il leiv motive che scaglia delle crepe tanto da portare una donna alla scelta della non genitorialità, ma anche per una forte consapevolezza sentita da bambine di non desiderare appartenere a una dimensione di maternità socialmente precostituita. Il problema che tutte hanno riscontrato, e che per questo le accomuna, è stato lo stesso: un senso di isolamento e di disadattamento ricevuto dall’esterno; la necessità implicita di doversi giustificare per la propria scelta; la conseguenza ancora visibile di vedersi costrette a fare coming out come se la non maternità fosse una condizione da scarnificare e spiegare con fatica.

Arriva un momento nella vita di moltissime donne in cui ci si sente chiamate alla presa in considerazione di una possibile maternità: Lunàdigas ha coinvolto sia persone con figli, sia persone senza figli per scelta, sia altre ancora che avrebbero desiderato diventare madri e non hanno potuto, in un dibattito a più voci fatto di esperienze personali dove la critica e il pregiudizio non sono coinvolti. La libertà, insomma, di poterne parlare in modo consapevole senza fardelli di colpevolezza o inadeguatezza nel sentirsi definire “rami secchi” o “fuori luogo”.

Ma da dove nasce questo conflitto comunicativo che, nel tempo, ha creato delle sovrastrutture solide e difficili da abbattere?

Nicoletta e Marilisa nel loro docufilm hanno scelto di partire dagli anni Cinquanta del Novecento come periodo storico che le ha viste nascere e, di conseguenza, vivere degli elementi dell’epoca a posteriori risultati fuorvianti. Uno di questi è stato il gioco dell’epoca che consisteva nel ritagliare dei vestiti di cartoncino colorato e assemblarli su un manichino di donna. I vestiti dell’epoca proposti dalla moda definivano chiaramente che tipo di donna avresti potuto essere, o forse dovuto. In un gioco straordinario di botta e risposta, le due documentariste hanno espresso una lunga lista di aggettivi provocatori che andavano a spezzare drasticamente l’immagine e l’idea della donna data dall’abito preconfezionato, prestabilito e consigliato dal sistema. Per fare tutto questo, Lunàdigas non si è appoggiata per scelta a nessuna istituzione, né ha richiesto l’appoggio di psicologi, antropologi o sociologi, diffidando molto dei cosiddetti “esperti”, i quali a loro volta si sono interessati volontariamente al loro progetto, coinvolgendole in conferenze universitarie e in studi che sono diventati oggetto di tesi di laurea. A definire ulteriormente la coerenza e la saldezza della loro opera di ricerca, è l’assenza di una sede fissa per l’associazione, volontariamente nomade nel suo percorso di indipendenza.

L’individualismo che il progetto pare possa aver sottolineato viene in realtà smentito nel momento in cui le molte voci prese in considerazione dialogano in un confronto visibilmente sincero da cui traspare la mancanza incisiva di un giudizio. Lunàdigas, infatti, non crea una categorizzazione di donne di un certo stampo, bensì ne accoglie tutte le sfaccettature come messaggio d’impronta chiara e netta: non esiste una dimensione giusta o sbagliata in qualunque scelta. Non esiste una dichiarazione netta di repulsione alla maternità. Non esiste una predisposizione politica facilmente categorizzabile come “femminista”, dal momento che entrambe le documentariste hanno partecipato attivamente al movimento dei diritti femminili negli anni Settanta, distaccandosene poi per costruirsi una personale e individuale forma di esistenza, sia dal punto di vista intimo che sociale.

Come da loro testimoniato, non è stata un’impresa facile da subito poiché molte donne che si aprivano a loro, si sottraevano alla testimonianza ufficiale attraverso una ripresa, sintomo questo di un tabù radicato. È stata l’astrofisica Margherita Hack la prima che si è tranquillamente esposta ad una testimonianza con la macchina da presa, dichiarando che né lei né suo marito avevano mai considerato la genitorialità come strada necessaria da percorrere. Lo stesso è valso per altre artiste che hanno dichiarato di non sentirsi meno “donne” o meno “materne” per non aver fatto dei figli, dal momento che nella loro vita avevano compiuto dimostrazioni di realtà sociali e individuali sufficientemente appaganti da non dover essere giustificati.

Ad arricchire esteticamente e culturalmente il docufilm Lunàdigas, è l’interpretazione di Monica Trettel tratta da Monologhi Impossibili, scritti da Carlo A. Borghi, un performer che accompagna il progetto da anni. Monologhi Impossibili narra voci di donne antiche come Lillith, vista come arpia dai capelli rossi, ma immortale nella sua individualità, psichedelica e sensuale senza aver però mai fatto del male a nessuno; Rosa Luxemburg, che profuma di rosa e di lotta di classe anche nei sui resti lanciati nella Senna una volta uccisa; Giovanna D’Arco, l’eretica strega e blasfema per aver combattuto al pari di un uomo ed arsa viva per questo; la Monaca di Monza, una non madre accettata dai canoni teologici, ma per sempre donna nel suo ventre; artiste come Dora Maar e Camille Claudel, vittime di un maestro d’arte e della comune etichetta di “pazze”, quando l’elettroschock era una prassi di routine per chi faceva “troppo” rumore con i propri sentimenti;  fino ad arrivare a Barbie, icona del femminile dal 1959, bella, indipendente, da vestire e rivestire, che non invecchia mai e non procrea. Tutte portatrici di storie personali diverse e complesse, ma accomunate dallo stesso finale: donne senza figli. O per meglio dire, togliendo ogni negazione, Lunàdigas.

Di seguito potrete trovare il link al sito internet dell’associazione (www.lunadigas.com) e i video tratti da Monologhi Impossibili.

 

Francesca Schillaci

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