La Belle Époque va dal 1871 al 1914, ovvero il periodo dell’Imperialismo. La protagonista di questa fase storica è l’alta borghesia.
C’è un grande sviluppo tecnologico ed industriale che porta a dei progressi e a nuove invenzioni: l’acqua corrente nelle case, l’illuminazione elettrica (1879, Edison), i primi telefoni (1854, Meucci), i vaccini; nel 1913 abbiamo l’estensione della rete ferroviaria a livello mondiale e il trasporto marittimo punta alla costruzione di transatlantici sempre più potenti e grossi (come ad esempio il Titanic).
Tutto ciò porta ad una forte sensazione di ottimismo e lo stile di vita migliora. In poco tempo si respira un’atmosfera carica di energia, di voglia di vivere. La spensieratezza sembra essere alla base di questo periodo storico, che non a caso prende il nome di Belle Époque.
Lo svago è la chiave vincente per una vita felice: nasce il telegrafo (1895, Marconi), dalla cui evoluzione si arriverà poi alla radio, il cinematografo (1895, fratelli Lumière), l’automobile, lo sport di massa, il tempo libero, la prima macchina da scrivere della Olivetti; inoltre si ha il primo volo dei Fratelli Wright (1903) con il “Flyer”.
Agli inizi del Novecento sono tanti gli spettacoli di aviazione che vedono partecipe un consistente pubblico; nasce così l’evento mondano. Il giovane triestino Gianni Widmer – all’epoca dei fratelli Wright ha 11 anni – assiste a queste acrobazie nel cielo, ne resta affascinato, tanto da decidere di voler diventare un aviatore.
L’arte in senso lato acquisisce notevole rilevanza; la creatività e la dimensione ludica sembrano racchiudere in sé l’essenza della vita.
Con la Belle Epoque le grandi capitali europee rivivono, si aprono al mondo e tutto fa pensare a una nuova era, caratterizzata dalla pace e dal benessere – purtroppo durerà per poco.
Durante a questo frizzante e spumeggiante periodo c’è il boom dei giornali, i caffè come i teatri si riempiono di gente, si mettono in scena le esilaranti commedie di George Feydeau e le tragedie di Gabriele D’Annunzio, grandi nomi calcano le scene – Isidora Ducan, Anna Pawlowa, Eleonora Duse; nasce il cabaret, il can-can, l’operetta.
Mi soffermo su quest’ultima: l’operetta nasce nel 1856, in Francia, ma solo nel 1860 si fa conoscere, per poi arrivare in Austria. Il padre fondatore dell’operetta francese è l’ebreo tedesco Offenbach; mentre, per quanto riguarda l’Austria, troviamo Strauss figlio e, ai primi del Novecento, Franz Lehár.
Da Vienna l’operetta giunge infine in Italia – vanno ricordate le operette della coppia Carlo Lombardo-Virgilio Ranzato, quali “Il Paese dei Campanelli” e “Cin Ci La”.
L’operetta per noi triestini è da sempre stata presente nel cartellone della stagione teatrale, per non parlare del ben noto Festival dell’operetta che per anni ha accompagnato le calde estati.
Una delle operette di Strauss è il Pipistrello (1874); curioso è il fatto che l’architetto viennese Josef Hoffmann disegna gli interni, in perfetto stile secessionista, del Cabaret Fledermaus di Vienna, ovvero il Pipistrello, che viene inaugurato nel 1907. Forse Hoffmann si sarà ispirato all’operetta di Strauss?
In questo periodo si diffonde l’Art Nouveau (1880-1910), uno stile che abbraccia più campi: architettura, decorazioni per interni, gioielleria, mobilio, tessuti, illuminazione, utensili.
Una tappa significativa per l’evoluzione di questa corrente artistica è rappresentata dall‘Esposizione Universale di Parigi del 1900 – ricordiamo che in occasione dell’Expo del 1889, viene costruita la Tour Eiffel, simbolo di progresso e modernità. Prima della nascita dell’Art Nouveau troviamo l’Architettura del ferro: a metà dell’Ottocento c’è una svolta grazie allo sviluppo dell’industria, che permette di realizzare metalli a basso costo (ghisa e acciaio, leghe che derivano dal ferro); anche il vetro, per lo stesso motivo, viene utilizzato maggiormente.
L’Art Nouveau, il cui termine deriva dalla galleria-laboratorio del mercante d’arte tedesco Samuel Bing, aperta nel 1895 a Parigi, si diffonde a livello internazionale; non si basa più sull’ispirazione del passato, bensì sulle forme armoniose della natura. Tale stile acquisisce varie denominazioni, a seconda dei paesi in cui si sviluppa: Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania, Secession in Austria, Modern Style in Inghilterra, Stile Horta in Belgio, Modernismo in Spagna, Stile floreale o Liberty in Italia.
L’uomo deve essere circondato dalla bellezza, bellezza che va oltre il classico dipinto ottocentesco. L’uomo deve vivere in un’opera d’arte. Il mobilio diventa parte integrante della casa; cambia il modo di vestirsi, l’arredamento viene costruito seguendo l’architettura dell’edificio, i gioielli sembrano trasformare gli abiti in quadri in movimento.
Gabriele D’Annunzio, l’esteta per eccellenza, l’uomo che ha esaltato la bellezza e l’arte, portandole a diventare dei valori supremi, sembra aver sposato questo nuovo modo di concepire il bello.
Non a caso Gabriele D’Annunzio è il primo a comparire sulla Terza Pagina – la pagina dei giornali quotidiani italiani dedicata alla cultura, che ormai non esiste più. Essa compare per la prima volta nel 1901, sul quotidiano “Il Giornale d’Italia”, diretto da Alberto Bergamini.
In quell’anno, a Roma, va in scena la tragedia “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio, con la grande Eleonora Duse. In quell’occasione, Il Giornale d’Italia dedica uno spazio all’opera d’annunziana.
Oltre il legame storico-politico di D’Annunzio con Trieste, ce ne uno anche artistico-culturale: il primo film a colori proiettato al Rossetti è “Cabiria”, di Gabriele D’Annunzio, nel 1914. Frequentando il teatro, Italo Svevo inizia a scrivere dei drammi teatrali, ma non li porta a termine.
A Trieste, se da una parte si respira la dolce aria viennese, la bella vita, lo svago, dall’altra si rafforza sempre di più la componente irredentista. Svevo spesso dichiara di essere un irredentista e presso l’hotel “De la Ville” si incontra con altri che la pensano come lui. E proprio in quell’albergo viene organizzato un banchetto in onore di Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse.
Trieste e l’architettura all’epoca della Belle Époque
La famiglia Bartoli commissiona all’architetto Max Fabiani – allievo di Otto Wagner, architetto della Secession, noto per la Casa di Maiolica a Vienna – il progetto per la realizzazione della loro casa, la Casa Bartoli (1905-1906), situata in piazza della Borsa.
L’influenza dell’insegnante viennese si manifesta esplicitamente nella Casa Bartoli di Max Fabiani. Il pianterreno è riservato ai negozi – aspetto funzionale dell’edificio – mentre dove c’è la veranda una volta c’era un ristorante ebraico. I quattro piani restanti sono destinati per l’uso abitativo.
Gli elementi della Belle Epoque che spiccano sono le decorazioni vegetali che danno un senso di pianta rampicante; la struttura è stretta ed alta (progresso e modernità); vi è l’inserimento del vetro e della ghisa.
Le foglie sono state realizzate in stucco, mentre la facciata è stata intonacata. La parte dei negozi è rivestita in marmo. Casa Bartoli è stata uno dei primi edifici a Trieste ad avere come struttura portante il cemento armato. La pianta è libera, e quindi la disposizione dei muri interni dei singoli appartamenti è diversa.
La porta di ingresso di questa casa è stata posizionata di fianco, questo per due ragioni: una estetica: per non rovinare l’equilibrio tra una vetrina e l’altra, ed evitando così di portare via spazio all’area commerciale; e una funzionale: di fianco la bora soffia di meno.
Tornando sulla Casa di Maiolica (1898-1899) di Wagner, troviamo che anche in questo caso il pianterreno è dedicato all’uso commerciale, mentre la parte superiore è residenziale.
La forma dell’edificio è più squadrata, le finestre sono ben allineate; tale composizione ricorda un po’ lo stile Neoclassico. La decorazione è innovativa: il materiale utilizzato è la maiolica – ceramica smaltata e verniciata. Anche qui le decorazioni floreali salgono lungo tutta la facciata dell’edificio.
Va ricordato anche il palazzo del Narodni Dom-Hotel Balkan (1902-1904) progettato sempre da Max Fabiani, che è stato bruciato nel 1920 dai fascisti.
Altri esempi ci architettura liberty a Trieste sono: Casa Basevi, realizzata dall’architetto Eugenio Geiringer nel 1903; l’ex Pescheria di Giorgio Polli, del 1913; la Stazione Ferroviaria di Trieste Campo Marzio, progettata dall’architetto Seeling; Casa Terni (via Dante) 1906, opera di Romeo Depaoli e il Palazzo Viviani-Giberti, 1907.
Dopo un breve excursus sull’architettura Liberty a Trieste, ci soffermiamo su due pittori che hanno portato questo stile floreale nelle loro opere: Argio Orell e Vito Timmel.
La costante delle pittura Argio Orell è una linea fluttuante, che definisce le forme morbide e spesso orientaleggianti dei suoi lavori. Il suo stile lo distingue dagli altri pittori triestini di allora, e si avvicina a quello dell’amico Vito Timmel.
“L’artista non deve e non può essere un bohémiens: dev’essere ed è un signore, il vero signore, poiché solo l’artista è un uomo ricco, nel più vasto senso della parola.” Timmel
Timmel e Orell presumibilmente si incontrano al Circolo Artistico – luogo dove gli artisti e gli intellettuali si riunivano per condividere i propri pensieri e svagarsi un po’. Il Circolo viene chiuso nel 1915 e riaperto nel 1919, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.
Nel 1910 viene realizzata a Palazzo Modello – allora sede del Circolo Artistico – la “Mostra delle caricature”. Timmel e Orell collaborano alla realizzazione delle vetrate, che danno su Piazza Grande. Questa è la prima collaborazione fra Orell e Timmel.
Entrambi gli artisti sperimenteranno non solo la pittura, ma anche la cartellonistica che spazia dai biglietti di auguri alla pubblicità commerciale (Modiano); inoltre sono conosciuti per le loro caricature. Va ricordato anche Marcello Dudovich che si dedicò principalmente alla grafica.
Le vite dei due artisti si intrecciano per più volte e presentano caratteristiche comuni:
Orell nasce nel 1884 a Trieste. Nel 1902 si trasferisce a Monaco di Baviera e dopo aver studiato la disciplina artistica e aver partecipato a varie esposizioni, nel 1903 ritorna nella sua città natale.
Timmel, invece, nasce a Vienna nel 1886. Si trasferisce a Trieste da piccolo per poi ritornare, dal 1905 al 1909, a Vienna dove frequenta la Kunstgewerbeschule, e scopre il simbolismo e lo stile della secessione. Nel 1910 ritorna a Trieste.
Dai lavori di Timmel emerge l‘influenza delle opere di Klimt, che il pittore viennese ha modo di vedere alla Biennale di Venezia del 1910.
Un chiaro esempio che mette in rilievo l’ispirazione klimtiana è “Salomé” di Timmel. Come nella Giuditta di Klimt (1901), anche qui la donna raffigurata è una femme fatale, ed è fiera della testa del Battista che giace ai suoi piedi – mentre nella Giuditta troviamo quella di Oloferne. Pure dal punto di vista pittorico e decorativo i due dipinti presentano delle similitudini.
Anche nel dipinto di Timmel “Arte Pure e arte impura” (1910), vi è un rimando al lavoro klimtiano. In questo sua opera, Timmel rappresenta una donna, “l’arte pure”, che si protegge all’ombra di un essere enorme, dalle mammelle del quale l’umanità succhia la scienza.
Nel Fregio di Beethoven di Klimt (Palazzo della Secessione di Vienna progettato da Wagner) c’è una parte dedicata alle forze ostili, dove troviamo le Gorgoni e le loro compagne comandate dal mostro Tifeo, che il Cavaliere deve superare per continuare il suo percorso. Il Cavaliere rappresenta l’Artista che, anche lui come la donna di Timmel, deve proteggersi dagli esseri malvagi, impedendo loro di distruggere la purezza.
Se da un lato Timmel si avvicina allo stile di Klimt, dall’altro Orell sposa quello cartonellistico di Toulouse Lautrec.
Ma la vita dei due artisti continua ad avere dei punti in comune: entrambi hanno il piacere di avere Eugenio Scomparini come insegnante: Argio Orell frequenta la scuola industriale – una sorta di Politecnico – presso la quale insegnano illustri artisti, tra i quali Scomparini, che lo porta ad una pittura più libera e moderna.
Timmel, invece, nel 1901 si iscrive alla scuola per Capi d’Arte di Trieste, nella sezione di pittura e decorazione, sotto la guida di Eugenio Scomparini – insegnante di disegno figurale.
A Radkersburg nel 1916 viene inviato il 97esimo reggimento, dove ci sono anche Orell e Timmel. Durante la permanenza in Austria – al confine con la Slovenia – vengono realizzati dai due pittori dei cartoni per le pareti dell’edificio dove c’è il 97esimo reggimento. Questi cartoni raffigurano Timmel, Orell, la moglie Anna e altri soldati. Di questo lavoro restano solo alcune vecchie foto.
In questo periodo s’accentua la malattia di cui Orell soffre, ovvero il lupus di origine tubercolare. Pian piano i rapporti con la moglie (nel 1916, prima di partire per la guerra, sposa Anna Hell de Helldenwerth dalla quale nel 1921 ha una figlia, Argianna, detta Chiara) si incrinano e la sua salute ne risente molto. Dopo un periodo di grandi successi cade in miseria. Nel 1935 viene ricoverato in ospedale fino al 1937, poi viene dimesso, ma viene nuovamente ricoverato in ospedale dove, nel 1942, muore in solitudine.
Timmel nel 1914 si sposa con Maria Ceresar, dopo pochi mesi nasce il loro figlio Paolo. La moglie di Timmel dopo quattro anni dalle nozze muore di tubercolosi. Nel febbraio del 1921 si sposa per la seconda volta con Giulia Tomè. Dopo un po’ le cose tra i due sposi non vanno bene, e Timmel inizia a bere. È l’aiuto di Anita Pittoni e l’amore per il figlio Paolo che gli danno la forza di tornare sulla scena artistica. Alla fine del 1943 viene ricoverato nel reparto neurologico dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni. Muore in ospedale nel 1949, anche lui in solitudine.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Testo tratto da una conferenza sulla Belle Époque da me tenuta a fine settembre.