Musica 101 – quarant’anni di “The Wall”

Il 30 novembre 1979 usciva l’undicesimo album dei Pink Floyd. “The Wall” è stato uno dei progetti più ambiziosi della carriera del gruppo inglese, pietra miliare della storia del rock e apice narrativo di Roger Waters, bassista e autore principale dei brani. Questo doppio disco è infatti la prima parte di un progetto tripartito ben più grande, che includeva poche date dal vivo (il cui video è oggi reperibile in rete sotto forma di bootleg) con una scenografia imponente e simbolicamente complessa, e un film diretto da Alan Parker con Bob Geldof come attore protagonista e Gerald Scarfe come ideatore delle psichedeliche parti animate. La complessità di questo progetto non può limitarsi alle poche righe che seguono, eppure questa ricorrenza merita un’attenzione speciale: cosa ci ha lasciato questo disco a quarant’anni dalla sua uscita?

La storia alla base di “The Wall” è farcita di depressione e alienazione. L’idea del “muro”, erroneamente attribuita al muro di Berlino, risale in realtà al tour del precedente lavoro “Animals”, più precisamente alla data del 6 luglio 1977 allo Stade Du Parc Olympique di Montréal in Canada: durante il concerto, la folla accende petardi che interrompono a più riprese l’esibizione dei Pink Floyd, irritando così Waters che, poco prima dell’inizio di “Pigs (Three Different Ones)”, sputò in faccia a un fan abbastanza irritante. L’episodio, noto come “spitting incident” (il cui audio è reperibile qui), causò forte risentimento in Waters che cominciò a immaginarsi una barriera fra palco e pubblico, a simbolo di una forte incapacità comunicativa data anche dell’ego smisurato della superstar “da stadio”. “The Wall” è di fatto un’analisi introspettiva di queste due facce dell’artista: da un lato, l’ego, la cui ammirazione del pubblico è paragonata a un culto “cieco”, estremo, totalitario (non a caso l’allegoria alla base di brani come “In The Flesh”, “Run Like Hell” e “Waiting For The Worms” è dichiaratamente ispirata alla dialettica e alle azioni nazi-fasciste); dall’altra parte c’è l’uomo fatto di paure, di ansie, che si nasconde “al di là del muro”, i cui mattoni sono costruiti da episodi traumatici. Nel caso di Pink, il protagonista, questi episodi sono la morte del padre in guerra (“Another Brick In The Wall Pt. 1”, “Goodbye Blue Sky”, “Vera” e “Bring The Boys Back Home”, che sono brani autobiografici, pocihé che il padre di Waters morì ad Anzio durante la seconda Guerra Mondiale), il soffocante amore materno (“The Thin Ice” e “Mother”), l’autoritaria figura dei professori e della scuola (“The Happiest Days Of Our Lives” e “Another Brick In The Wall Pt. 2”) e gli eccessi di droga e sesso, tipici dello stereotipo della rockstar (“Young Lust”, “One Of My Turns” e “Comfortably Numb”). Il grido disperato di questa crescente depressione appare in più occasioni durante il disco, il cui filo conduttore è di fatto l’incomunicabilità, l’incapacità di sapersi esprimere ed essere compresi (“Empty Spaces”, “Don’t Leave Me Now”, “Another Brick In The Wall Pt. 3”, “Goodbye Cruel World”, “Hey You”, “Is There Anybody Out There?”, “Nobody Home”, “The Show Must Go On” e “Stop”) che porta a una presa di coscienza dei propri problemi e alla risoluzione di questi ultimi (“The Trial” e “Outside The Wall”). Musicalmente, il disco è caratterizzato da temi ricorrenti, di cui il più importante è la linea vocale alla base di “Another Brick In The Wall” che appare in tutto il disco, ora palese, ora modulata, ora camuffata. Inoltre, è da notare la ciclicità del disco: se si ascolta “Outside The Wall”, ultimo brano dell’opera, si noterà la chiusura brusca, la cui continuazione appare sul primo brano del disco, “In The Flesh?”. Se si presta attenzione, si può notare anche un parlato che, seguendo la logica di cui sopra, recita: «so this is where / we came in» («dunque è da qui / che siamo entrati»).

A quarant’anni dalla sua uscita ci sono stati numerosi episodi storici che hanno dato nuova luce a quest’opera: la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il muro lungo il confine del Messico voluto da Donald Trump sono solo due degli esempi accostabili, che ampliano notevolmente le chiavi di lettura dell’opera, accostandovi tematiche quali “segregazione sociale”, “ghettizzazione” e “separazione” (gli ultimi tour di Waters, infatti, propongono anche interpretazioni di questo tipo). Tuttavia, “The Wall” rimane una forte critica alla società, al potere, al libero arbitrio e all’incapacità di guardare alla fragilità dell’uomo moderno. Personalmente, ritengo che la forza di tale opera sia quella di essere universalmente attuale, poiché riesce a parlare a tutti gli strati sociali con semplicità. Chi ci vede solo una metafora politica non ha compreso l’intera chiave di lettura che è tuttavia ben palese alle orecchie dell’ascoltatore: non avere muri significa essere in grado di comprendere a pieno le sfumature del vivere. Ed è proprio questa la vera sfida della vita.

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