All’interno di questa rubrica si era già parlato di educazione all’interno di performance di musica classica. Eppure, non si era parlato di un particolare aspetto: cosa accade quando ci si reca effettivamente a teatro? Capita spesso che, o per scarsa conoscenza dell’ambiente e delle sue convenzioni o per maleducazione, accadano episodi più o meno imbarazzanti. È il caso della persona che, per evitare di fare confusione scartando una caramella durante l’esibizione dei musicisti, decide di scartarla piano piano, facendo un rumore continuativo e piuttosto irrispettoso: il religioso silenzio del pubblico è una pratica convenzionale sinonimo di rispetto e “romperlo” significa essere, sostanzialmente, maleducati. La cosa divertente e strana, tuttavia, è che la questione del silenzio del pubblico è abbastanza relativa: la storia del melodramma, ad esempio, insegna che almeno fino a Wagner le consuetudini del pubblico fossero ben diverse, con i nobili che commerciavano o parlavano e la platea che giocava a dadi o mangiava o ballava. In altre parole, ciò che oggi siamo abituati ad ascoltare in una sala da concerto o a teatro era l’equivalente della nostra discoteca e, pertanto, il teatro rappresentava un luogo di svago e consumo della musica. In altre parole, ciò che oggi tendiamo a elevare e mitizzare era molto spesso l’equivalente di una banalissima canzone pop passata alla radio.
Questo aspetto, tuttavia, non è una cosa negativa: i costumi, il gusto e la società sono fattori che cambiano ed evolvono con il passare del tempo ed è una cosa assolutamente normale. Quello che non è normale è che oggi si insegna nelle scuole che le regole e le convenzioni che ruotano intorno all’esecuzione di questi repertori sono cose estremamente complicate ed elitarie. In realtà, per capire questa musica bisogna capire il pubblico cui questa musica era rivolta. Oggi abbiamo un proliferare delle cosiddette “esecuzioni filologiche”: attraverso studi in vari campi della storia della musica (composizione, estetica, liuteria, eccetera) si ricreano gli strumenti musicali per i quali è costruito un determinato repertorio con l’obbiettivo di presentare al pubblico l’esperienza di ascoltare quei brani «così come lo si ascoltava all’epoca in cui sono stati composti». Niente di più utopico, in realtà, dato che abbiamo perso l’orecchio del tempo: il fatto di pensare all’interno di un sistema tonale (basato sul concetto poetico di arsi e tesi, tensione e risoluzione) mediante temperamento equabile (dove l’ottava è divisa in dodici note qui distanti fra loro di un semitono) ha influito pesantemente sull’evoluzione del nostro ascoltare ed è praticamente e filologicamente impossibile essere precisi nella ricerca di un intero “sistema” musicale. Tuttavia, ci si può avvicinare attraverso questa pratica a repertori sconosciuti, con più curiosità ed entusiasmo. Perché allora non andare a ricercare in questo espediente anche il “pubblico filologico”?
L’educazione musicale, intesa come il comprendere il contesto entro cui esistono determinate convenzioni, deve essere coltivata anche mediante esperimenti o idee provocatorie. Si provi a immaginare cosa significasse se oggi, nel corso di un concerto pop, nessuno fra il pubblico fiatasse o facesse rumore. Viceversa, perché oggi a teatro non si mangia più, non si gioca più a dadi, non si commercia o si compiono atti osceni in luogo pubblico? Per questo motivo sarebbe utile, prima di recarsi a teatro, comprendere il linguaggio di cosa si andrà ad assistere. La stessa cosa, però, vale anche per chi è stato traviato da nozioni apprese come dogmi religiosi. Il pericolo è evidente: in entrambi i casi si rischia di accrescere quella discriminazione insensata che tali repertori hanno generato all’interno dello spettacolo dal vivo, facendo così cadere il nostro retaggio culturale nell’oblio.