Il galleggiante inizia ad affondare, ma subito riemerge.
Plop.
Dopo un attimo d’esitazione, riprende a dondolare. Inclina la sommità rossa ora in una direzione, ora in un’altra. Senza regola. Senza fretta. Oggi il mare è abbastanza tranquillo.
La lunga onda oceanica solleva lentamente la piccola imbarcazione per poi accompagnarla a valle e nuovamente farla salire. È un moto perenne, monotono, quasi noioso. Al punto che il naufrago ha smesso di percepirlo. Tutto ciò che vede è il lieve ondeggiare del galleggiante, che si piega, si raddrizza, per poi inchinarsi ancora.
Il galleggiante si immerge brevemente e ricompare con un saltino.
Plop.
Le dita stringono la lenza, il respiro resta sospeso, gli occhi divengono una fessura. Appoggiato da ore sul bordo del gommone, l’uomo è un fascio di nervi. E’ una molla pronta a scattare.
I viveri sono finiti e l’acqua scarseggia. Dopo molti giorni alla deriva nell’oceano, sa che la sua fortuna è agli sgoccioli. È sopravvissuto all’ammaraggio. Ha fatto solo in tempo a sganciare l’imbarcazione di salvataggio ed a salirci a bordo prima che tutto il resto si inabissasse.
Sui manuali, il tempo standard di recupero è di 15 ore. Il trasmettitore satellitare del gommone continua a funzionare. Anche il chip di posizione nella spalla è sicuramente attivo. Eppure sono trascorsi 10 giorni. Forse, il recupero di ciò che rimane dell’equipaggio è considerato antieconomico.
Così, continua a vagare sospinto dalle correnti, sfinito, indebolito dalla fame, arso dal sole implacabile, trascinato verso un arido destino. La sua imbarcazione è un puntino arancione sulla sconfinata distesa blu del mare. Invisibile dallo spazio, non rilevabile dai radar, ignorato dai satelliti. Un piccolo uomo acquattato sul fianco gonfiabile di un gommone alla deriva.
Il galleggiante scompare.
Ora! Con uno scatto improvviso, tira a sé entrambe le braccia inarcandosi all’indietro. Le lenza si tende, l’esca scatta nella bocca del pesce, la punta dell’amo ne fora la guancia. E’ ferrato! Gira freneticamente la sagola per avvicinare la preda, che guizza sulla superficie e subito si immerge. E tira per scappare.
L’uomo è in piedi, le ginocchia piantate contro il bordo, gli addominali contratti, il collo teso. Con le braccia in trazione asseconda i movimenti del pesce mentre, con le mani, ad ogni calo di tensione rotea la sagola e recupera un po’ di lenza. Un giro. Ogni muscolo, ogni nervo del suo corpo sono partecipi della caccia. Un altro giro. Tutti i suoi sensi sono tesi a percepire i movimenti della preda. La vede sott’acqua, oltre il riflesso del cielo. La sente. Ancora un giro. Ne sente i pensieri, ne prevede i movimenti, ne intuisce le intenzioni. Lui ora è il pesce. L’esaltazione cresce in lui, l’adrenalina gli dà nuovo vigore, gli occhi feroci brillano di gioia.
Plop.
La tensione cessa all’improvviso. Il galleggiante riemerge. Il pesce è fuggito.
Trascinato dalla corrente, il gommone continua a navigare calmo e silenzioso. Adesso, la sagola è riavvolta. Il naufrago se ne sta seduto sul fondo ed osserva il galleggiante nella propria mano. Poco oltre, la lenza è spezzata. L’amo è perduto. Il cibo è scappato. Affranto, si lascia cadere di schiena e rimane disteso fino a sera.
All’alba del dodicesimo giorno, avvista terra.
Le poche forze rimaste gli permettono uno scarso entusiasmo. Prende un remo, lo pianta sul fondo del gommone e ci si appoggia per alzarsi in ginocchio. Con una mano si fa ombra sugli occhi. Scruta a lungo l’orizzonte: non si è ingannato. Sorride. Con fatica, si sporge fuori bordo ed inizia a pagaiare.
Dopo alcune ore, gli sembra di essersi avvicinato sensibilmente ed incontra i primi rifiuti. Allunga un braccio verso l’acqua, afferra una bottiglia di plastica e la osserva con cura. “Se non si è allontanata dalla costa, vuole dire che la corrente mi è favorevole”, pensa. La rigetta tra i flutti e riprende a remare.
In breve, i rifiuti iniziano ad addensarsi. Quando il sole è allo zenit, formano un tappeto quasi ininterrotto sulla superficie del mare ed egli avanza con sempre maggior fatica. Con la pala, ad ogni colpo, oltre all’acqua deve spostare masse di oggetti galleggianti. Lo sforzo aumenta mentre le forze si indeboliscono. Così, decide di fare una pausa.
Appoggiato al bordo gonfiabile, rimane a lungo a guardare la costa. E’ poco più alta del livello del mare e si estende a perdita d’occhio. Non si vedono alture in lontananza, né porti o città. “Ma dev’essere una nazione altamente civilizzata, a giudicare dal quantitativo di rifiuti che produce”, egli ragiona.
Non sa ancora dove si trovi. Al decollo dormiva e quando l’allarme aveva suonato era nella stiva. I piani di volo non gli competevano. Gli altri si erano inabissati con il carico e non gli potevano più essere d’aiuto. Così, ignora dov’è precipitato. Ma deve essere un oceano. Infatti, dodici giorni gli sembrano tanti per andare alla deriva senza avvistare la terraferma o incontrare anima viva.
La costa brilla sotto ai raggi roventi del sole equatoriale. Bianca ed abbacinante. Il naufrago sorride di nuovo. Solo la sabbia corallina è così candida. Già si immagina disteso su un’idrosdraio, mentre beve con una cannuccia da una noce di cocco.
E sulla riva ci saranno granchi e molluschi. E forse uova. Da ore gli uccelli marini lo hanno individuato e, a tratti, si abbassano su di lui garrendo per subito allontanarsi con un battito d’ali. Ma nessuno si posa alla sua portata. Conoscono l’uomo fin troppo bene.
Non resta che riprendere a remare.
Nel tardo pomeriggio, mancano un centinaio di metri. I più difficili. I rifiuti si sono raggrumati in blocchi e non riesce più a spostarli. Ci si aggrappa per giraci attorno col gommone, facendo attenzione a non lacerarlo. Molte immondizie sono smussate dal mare, ma alcune si rompono a schegge e potrebbero forare le camere d’aria.
La costa è nettamente visibile. Le forme ed i colori ora si distinguono con chiarezza. Il bianco della costa si alterna a vaste zone grigie ed è maculata di rosso, di rosa e di azzurro.
– Porca miseria! – esclama – sono naufragato a Baekeland. –
Nel XXII secolo d.C. la grande massa di rifiuti plastici galleggiante nell’oceano Pacifico iniziò a compattarsi, permettendo alle prime specie animali di insediarvisi stabilmente.
A metà del XXIII secolo iniziò la colonizzazione umana.
Nel 2312 la popolazione residente diede il nome di Baekeland all’isola galleggiante e si proclamò nazione autonoma.
Nel 2313, 2314 e 2319 venne bombardata dagli Stati Uniti d’America.
Rimane celebre la risposta del generale John Abdul Johnson al giornalista che gli chiese se agli attacchi missilistici sarebbero seguite delle operazioni a terra: “operazioni a terra?” rispose il militare “figliolo, non sia ridicolo: quale terra?”
Nel 2325 l’O.N.U. concesse a Baekeland lo status di osservatore permanente.
Disteso sulla riva sintetica, il naufrago ansima felice e soddisfatto. Non c’è alcuna noce di cocco da bere, ma ha raggiunto la costa.
Veste ancora i pantaloni della tuta isolante, la maglietta termica e le resistenti scarpe da magazziniere. La giacca della tuta è legata in vita “in spregio al protocollo di sicurezza”, sorride. Ma sulla spiaggia, come a bordo, fa troppo caldo.
Con uno sforzo sovrumano, si alza in piedi. La testa gli gira e deve chinarsi, appoggiando le mani sulle cosce. Strizza gli occhi, scuote la testa. Si passa la lingua secca sulle labbra screpolate. Respira lentamente un paio di volte e torna eretto. Una bambina, a pochi metri da lui, lo guarda incuriosita.
E’ una piccola creatura selvaggia, dai capelli castani e scarmigliati, pettinati dal vento marino. Gli occhi scuri, sgranati e attenti. La pelle bruciata dal sole. Sicuramente un’indigena. Di corporatura esile, con poca carne attaccata alle ossa. Difficile dirne l’età, forse una decina d’anni. Vestita con corti abiti corrosi dalla salsedine e stinti dal sole, lo continua ad osservare ed attende.
– Ciao. – L’uomo la saluta. – Mi chiamo Tarmondo e vengo dal mare. – Si presenta indicando l’oceano. Ma lei non sposta lo sguardo. – Cioè, non dal mare. Dal cielo. – Precisa ora indicando il cielo. – Prima sono precipitato, poi ho navigato per molti giorni. Non avere paura di me. –
Ma lei diffida. Anzi, quando lui ha detto di venire dal cielo, è arretrata di un passo.
– Ho fame. E sete. Non mangio da giorni. Il condensatore funziona che è uno schifo. Puoi indicarmi dove posso trovare cibo e acqua? Puoi accompagnarmi? –
– Si. – Lei risponde esitante, ma con voce da adulta.
Ciò detto, si muove rapida verso la costa, rallentando gli ultimi passi per tastare il terreno e controllare di non mettere il piede su detriti non consolidati. Raggiunto il limite, si accuccia, allontana alcuni rifiuti spingendoli con la gamba e libera uno spicchio di mare. Lancia uno sguardo allo straniero, che non si è mosso, e si lascia cadere in acqua. Pluf. Non solleva uno spruzzo.
Rapida, riemerge e risale agilmente sull’isola. Con la destra stacca una bottiglietta dal proprio fianco e tende entrambe le mani verso Tarmondo. In una l’acqua, nell’altra delle alghe marroni grondanti.
– Questo per bere. Bevi piano. – Dice appoggiando il contenitore al suolo. – Per mangiare, intanto questo. Non mangiarne di nuovo almeno fino al cambio di luna. E mastica bene. – Aggiunge mettendo il cibo accanto all’acqua e, poi, allontanandosi.
Il naufrago raccoglie subito l’invito e barcollando si avvicina al pasto. Si accuccia, poi si siede e, trattenendosi per non divorare tutto in un baleno, inizia a mangiare. L’acqua, a piccoli sorsi. Calda e dal sapore di plastica. Le alghe, crude e amare. Cerca di masticarle a lungo, anche se il bolo reagisce sgradevolmente con le otturazione dei molari. Solleva uno sguardo di ringraziamento verso la sua salvatrice, ma lei ora guarda altrove. Ha visto il gommone.
– Sei arrivato con quello? – Domanda guardando l’uomo di tralice. Lui inghiotte e risponde.
– Si. –
– È tuo? –
– Se mi porti in salvo, lo puoi tenere. –
Con due salti lei raggiunge l’imbarcazione, che ondeggia accanto alla riva. Ci salta dentro e, per prima cosa, l’annusa. Ne annusa ogni parte: lecca una piccola superficie, attende che il sole inizi a far evaporare la saliva e, ad occhi chiusi, col naso ne inspira i vapori. Lui continua a ruminare e la guarda divertito.
– Aiutami a tirarlo in secca. – Gli chiede infine.
La bambina è minuta e l’uomo è sfiancato. Tirare in secca il gommone è un’impresa che compiono impiegando tutte le loro forze. Per l’uomo, tutte le forze residue. Alla fine, si ritrova spossato, accasciato accanto al natante, con un braccio oltre al bordo gonfiabile, quasi ad abbracciarlo.
Ci ha vissuto dentro a lungo, assediato dall’oceano, minacciato dagli elementi. Sarà solo un oggetto, ma gli è grato. Lo ha trasportato e lo ha protetto. Lo ha nutrito con i pochi viveri di scorta. Lo ha dissetato. Lo ha fatto sopravvivere.
Ed ora, arenato sulla battigia, fuori dal suo elemento naturale, è lui a sembrare indifeso. Il sole lo surriscalda e l’acqua non lo raffredda. Le schegge nel suolo minacciano di bucarlo. E se arrivasse una tempesta?
– Pensi di lasciarlo qui? – Le chiede. – Perché se si alzasse un vento impetuoso, potrebbe sollevarlo in aria e portarlo lontano. –
È un attimo. Lui fa solo in tempo a tendere il braccio, spalancare il palmo della mano e gridare.
– No! –
Ma la bambina è un lampo. Con mossa fulminea ha estratto una lama e forato tutte le camere d’aria del gommone. Il grande corpo arancione si sgonfia lentamente mentre l’uomo, col volto solcato dalle lacrime, continua ad abbracciarlo.
Il sole inizia ad abbassarsi sull’orizzonte quando arrivano gli isolani. La bambina è andata a chiamarli ed il naufrago si è addormentato. Quando lo svegliano è confuso. Gli danno da bere, gli fanno mangiare una poltiglia verdastra. Lui ha un conato e sta per vomitare. Ma poi ne chiede ancora.
– Puoi camminare? –
– Non penso. Non ora. Potete trasportarmi con una barella? –
– Sei troppo grosso. Siamo solo in quattro e due devono portare il gommone. –
Tarmondo li guarda con maggior attenzione. Sono agili e gentili. Sbarbati, coi capelli corti, gli sguardi intelligenti e sinceri. Vestono in modo semplice, abiti sintetici dai colori pallidi. Indossano calzari in plastica, aderenti ai piedi, adatti per correre e nuotare. Non portano monili. Hanno corpi asciutti e muscolosi, modellati dall’acqua, temprati dal mare. Uno gli tiene puntato contro uno storditore ad ultrasuoni.
– Forse, se mi aiutaste ad alzarmi in piedi, potrei camminare appoggiandomi a voi. –
– Appoggiandoti a chi? – Sente ruggire alle sue spalle.
Crede d’averli offesi. Così, prova ad alzarsi da solo. E’ ancora con un ginocchio a terra, che ha quasi raggiunto la loro altezza. Sono minuti, osserva. Come la bambina. Forse, sono bambini anche loro. O forse è lei ad essere una ragazza. E mentre dubita della loro età, si sente svenire e crolla a terra stordito.
– Fatelo rotolare nel canotto – gli sembra di sentire in lontananza – e proviamo a traportarlo. –
Nel 2305 la grande isola fluttuante di spazzatura era abitata da indigeni di terza generazione.
Spinta dalle correnti, si arenò sul Kingman Reef, territorio annesso agli Stati Uniti nel 1922. Dopo 45 giorni di diffide formali a salpare, l’aliotorpediniere Guastonero raggiunse l’isola ed una delegazione di diplomatici ne discese per leggere questa dichiarazione: “Che sia conosciuto da tutte le genti. Oggi 29 agosto dell’anno del signore 2305 gli Stati Uniti d’America prendono possesso di quest’isola.” Poi partirono. Nessun indigeno era presente.
La Cina protestò formalmente.
Dopo 7 mesi le correnti cambiarono, l’isola si disincagliò e riprese a navigare.
Nel 2327 Baekeland, quale paese in via di sviluppo, partecipò alla Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici e pronunciò il discorso “La plastica è vita”, a favore della ripresa di utilizzo dei materiali polimerici da parte dei Paesi dell’annesso II.
Con un sussulto, Tarmondo riprende i sensi. Mani delicate gli sollevano il capo, lo fanno bere a piccoli sorsi e mangiare con parsimonia. Lentamente le idee gli si schiariscono. Si guarda attorno. E’ all’aperto, steso all’ombra di un telo opaco. La giacca è piegata e appoggiata al suolo, accanto alle scarpe. Una donna lo sorveglia e lo accudisce.
Poco distante, dei bambini ascoltano con attenzione un adulto parlare. Seguono i suoi segni sull’ololavagna e prendono appunti.
– Oggi è giorno di scuola. – Gli spiega l’isolana con un sorriso. – E questa sera è giorno di festa. – Aggiunge ancor più raggiante.
Lui risponde con un cenno del capo. Aiutato dalla donna, si alza e muove alcuni passi. Le gambe lo reggono, ma deve appoggiarsi ad un palo e riposare.
I bambini ora lo guardano tutti. Alcuni bisbigliano tra di loro, lo indicano e ridono. L’insegante li rimbrotta e molti smettono di fissarlo.
Sempre reggendosi, solleva lo sguardo sui dintorni. Il panorama continua uguale a perdita d’occhio: una distesa omogenea di plastica, che prosegue compatta in ogni direzione. Il colore dominante è il bianco, ma chiazze colorate interrompono incessantemente il candore del posto.
Incastonati nel terreno egli scorge alcuni pannelli solari. Inoltre, gli sembra di distinguere delle palme in lontananza.
I bambini si agitano di nuovo voltandosi all’unisono. Sta arrivando un gruppo di uomini, allertati dal suo risveglio. Tarmondo osserva quanto siano minuti e quanto sembrino giovani.
– Ben svegliato, uomo del mare. – Lo saluta un nuovo arrivato. – Sono contento di vederti alzato. Sei debole dalla permanenza nell’oceano, ma non hai bisogno di particolare cure mediche. Basta che ti riposi e che ti rifocilli. Se hai bisogno di qualcosa di particolare, non hai che da chiedere. –
– Quelle … – chiede con difficoltà, ancora frastornato ed intontito – quelle sono palme da cocco? –
Come reazione alla autoproclamazione di Baekeland quale nazione autonoma, gli Stati Uniti estesero all’isola le proprie leggi fiscali. Nel dicembre del 2312 inviarono un loro rappresentante per imporre il pagamento dei tributi. Entrato in contatto con gli isolani, venne eviscerato sul posto e cannibalizzato.
Nel 2313, 2314 e 2319 l’isola venne bombardata.
Le nubi di diossina sollevate dagli incendi raggiunsero sistematicamente le Hawaii e furono rilevate sulle coste della Florida, garantendo così un periodo di pace ad oggi inviolato.
Seduto accanto al capo villaggio, Tarmondo beve un altro sorso d’acqua dal guscio della noce di cocco, che gli hanno procurato come bicchiere. Ascolta con attenzione e pone domande con molta cautela. Ha capito che è un popolo fiero ed orgoglioso, generoso nell’accoglierlo, ma permaloso e suscettibile.
– Quella che voi chiamate guerra, non lo è stata. Semplicemente, siamo stati bombardati e abbiamo vinto. – Il capo taglia corto.
Il tramonto inizia ad infuocare le lunghe nuvole che striano il cielo. Rosse verso il sole, nere sull’altro lato. Oltre, il cielo è azzurro cobalto. Rari uccelli solcano l’aria lanciando striduli richiami. A oriente, il buio della notte già fa capolino rivelando le prime stelle.
L’intero villaggio è raccolto attorno a una gigantesca bolla luminosa. Non potendo accendere un falò, per evitare di intossicarsi, quando il tempo lo consente si radunano all’aperto attorno al globo. A volte proiettano un video o fanno della musica. O si sfidano in giochi di astuzia e di lama.
– La vita qui è magnifica ma dura. Breve ma intensa. Qual è l’aspettativa di vita per voi terricoli? 93 anni. Per noi la metà. Più o meno. Ma, nel tempo che ci è concesso, abbiamo tutto. Il mare ci dà tutto ciò che desideriamo. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
L’acqua potabile abbonda. Quando piove, ne accumuliamo tanta da farci il bagno. Quando non piove, ne desalinizziamo in quantità.
Il cibo lo peschiamo o lo stacchiamo dal fondo. Le alghe fresche ci forniscono vitamine e l’acido algico ci aiuta ad espellere i metalli pesanti. Alcune piante le coltiviamo. Incredibile, vero? Abbiamo poca terra, ma ce la facciamo bastare.
Certo, non cresciamo molto. Gli scienziati dicono che il calore del sole sprigiona dal suolo dei vapori che bloccano lo sviluppo. Ma il sole sa ben farsi perdonare. Infatti, ci dà l’energia elettrica. Abbiamo pannelli in quantità. Ce li dona la Cina. Roba dismessa ma funzionante. –
L’isolano fa una breve pausa. Poi, riprende a parlare in tono severo.
– Comunque, e soprattutto, per sopravvivere qui devi rispettare le tradizioni dell’isola e le regole del mare. Solo seguendo ciò che i nostri antenati hanno imparato e che ci hanno tramandato è possibile vivere e prosperare. Infatti, l’oceano è generoso ma spietato. Non perdona. Noi non gli manchiamo mai di rispetto. E lui ci premia offrendoci splendidi doni. – Il capo guarda a occidente la notte che avanza ed aggiunge. – Questa sera è festa. Iniziamo la cerimonia o non riusciremo a mangiare ad un’ora decente. Vieni, restami vicino. –
Seguito da Tarmondo, l’isolano raggiunge il centro del villaggio, ove sale su una specie di altare, accanto alla bolla luminosa. Volta le spalle la luce ed attende che il gommone arancione, oramai del tutto sgonfio, venga deposto ai suoi piedi. Quando tutti gli isolani gli si sono raccolti davanti, inizia a parlare.
– Fratelli, oggi abbiamo ricevuto più di quanto abbiamo dato. E ne siamo felici. E ne siamo grati. Ammirate il prezioso materiale che le onde hanno deposto sulle nostre rive. – Dice indicando ciò che resta del natante. – Godete del suo colore sgargiante, della sua resistenza, della sua non biodegradabilità. Ringraziamo il mare per questo dono di plastica. –
Poi, dopo un attimo di raccoglimento, indica Tarmondo ed aggiunge.
– E ringraziamo il mare anche per questo dono di carne. –
˜
Nel 1905 l’inventore Henricus Arthur Baekeland (1863 -1944) combinò il fenolo con la formaldeide ottenendo la prima materia plastica che, dal suo cognome, venne chiamata baekelite (bachelite). Egli è stato definito “il padre dell’industria della plastica”.
di Guendal