Fulvio Falzarano, attore di teatro e di cinema, ha avuto modo di lavorare con grandi registi quali Mario Monicelli, Armando Pugliese, Renato Sarti, Giorgio Pressburger e Marco Ferreri. Inoltre ha preso parte a programmi televisivi con Enzo Arbore, Francesco Paolantoni, Fabio De Luigi – per citarne alcuni. Nel 2010 ha recitato nel film “Benvenuti al Sud” e nel sequel, del 2012, “Benvenuti al Nord”, entrambi due successi.
I suoi primi esordi risalgono al teatro per i ragazzi. Quali sono i suo ricordi scenici?
La prima cosa che mi viene in mente è la folla di ragazzini urlanti; poi ho un ricordo particolare, legato ad uno spettacolo di Francesco Macedonio che ne aveva curato sia la direzione che il testo. Era una lavoro su una fiaba e lo abbiamo fatto all’istituto Rittmeyer per i cechi. Per la prima volta mi sono trovato davanti a questa strana dimensione del teatro per i ragazzi e in particolare per i ragazzi non vedenti. Erano i primi anni ’80.
È stata una sua scelta fare teatro o si è lasciato consigliare da qualcuno?
È successo abbastanza per caso: nel ’78-’79 ho cominciato a fare teatro, prima ancora di iniziare a fare il mimo e altre cose, come si usava fare in quegli anni, quando era possibile fare teatro di strada.
C’era, ed era una manifestazione stupenda, il Festival internazionale di Teatro Ragazzi, inventato da Ariella Reggio, Orazio Bobbio e Lidia Braico.
Ricordo che eravamo a Muggia a fare uno spettacolo di altissimo livello, per ragazzi, con un pubblico misto di ragazzi e adulti. Da lì ho cominciato a prendere una dimensione un po’ più teatrale, prettamente da palcoscenico: prima si studiavano i vari maestri da Grotowski a Marceau, Decroux…
Stanislavskij?
Il metodo di Stanislavskij, qua in Italia, non si potrebbe fare, non si potrebbe seguire come metodo, perché la sperimentazione, sull’arte dell’attore, è una cosa che sta diventando molto fuffa, fittizia. La gente molto brava studia, però dipende anche dalla competenza che ha, dal livello medio di lavoro che esiste in Italia tra il teatro, la fiction, il cinema. Forse oggi il cinema si impegna un po’ di più; è anche possibile individuare vari settori: il cinema per far divertire, il cinema di cassetta, e altri…
Forse perché il cinema è più seguito e quindi è facile dividerlo in settori, mentre, il teatro, purtroppo, non lo è così tanto…
Il teatro era già in crisi tempo fa, per un’ovvia ragione: l’avvento massiccio dei mezzi di comunicazione sempre più presenti e delle possibilità casalinghe e pigre di ritagliarsi il proprio spazio, che comporta la non condivisione; mentre andare al cinema o a teatro è una bella condivisione. La sala, il pubblico, hanno la stessa importanza di quello che avviene sullo schermo, sul palco. Allo stesso tempo, però, bisognerebbe trovare un linguaggio nuovo di ravvicinamento, per quanto riguarda le persone più giovani.
Però, per esempio, “Artemisia Gentileschi” è uno spettacolo che si presta ad avvicinare i giovani al teatro…
Farei spesso operazioni di questo tipo; infatti, a metà agosto, al Molo IV, farò uno spettacolo diretto da Lino Marazzo, che aveva firmato la regia di Artemisia. A questa pièce cercheremo di dare un aspetto quasi di performance, per staccarci un po’ da questa convenzione, da questo tipo di informazione che ormai viene data. Mi piacerebbe tenerla viva, in una maniera diversa, forse perché vengo dall’esperienza con Paolo Rossi…
Nello spettacolo con Paolo Rossi “Molière: la recita di Versailles”, com’è stato recitare basandosi su un canovaccio, e non su un copione vero e proprio?
È vero che non esiste un copione vero e proprio, però esiste una traccia che, una volta che cominci a rodare, è facilmente perseguibile: la puoi ritrovare sempre. Poi, con il pubblico, in una pièce così, se ci stai da subito, entri in un gioco, per cui è anche più facile…
È comunque una questione di allenamento…
Sì. È ovvio che le prime volte che lo avevamo fatto, cercavamo di seguire il più possibile il canovaccio, anche se era povero e scarno. All’inizio si capiva che uno stava ancora ingessato, ma poi, lo schema, gli permetteva, sera per sera, di poterci giocare su.
Passando ora a uno dei più grandi registi teatrali della storia del Novecento, Giorgio Strehler, cosa ne pensa di lui e del suo modo di lavorare?
Era immenso! Per quel poco che ho visto di Strehler – purtroppo solo due spettacoli dal vivo e il resto in video – penso che, come tutti i grandi, con uno stile tutto suo e una passione tutta sua, cercava il più possibile di entrare nella testa dell’autore; non per niente assomigliava a Karajan (sorride).
Una volta ho visto un video di una prova di Strehler con uno dei suoi attori preferiti. L’attore era un po’ in crisi perché doveva entrare in scena con un portamento specifico, che allo spettatore, in qualche modo, dovesse far immaginare tutto di quel personaggio, già dal suo ingresso. Strehler, vedendo l’attore in difficoltà, gli disse in triestino: “Pensa a ‘Cussì fan tute de Mozart’. Te la conossi?”. Strehler era pazzesco. Ed era anche un altro tempo.
Lei ha fatto più spettacoli con la regia di Giorgio Pressburger. Si notava l’influenza mitteleuropea nel suo modo di dirigere? Era diverso da Strehler o avevano dei punti in comune?
Penso che anche Strehler avesse un’anima in qualche modo legata a questo posto, all’Ungheria, all’Austria, a tutto quello che ne rappresentava, anche se poi se n’è andato a…
A Miliano, a fondare il Piccolo Teatro…
Esatto. Penso che Pressbuger abbia una certa scioltezza, sia un visionario, molto meno legato al testo di quanto lo sia stato Strehler. Ho visto degli spettacoli di Pressburger che, dal mio punto di vista, non offrivano grandi emozioni; ma ha affrontato anche Ginzburg, con uno spettacolo, “Il formaggio ai vermi”, che avevo fatto al Mittelfest, tanti anni fa.
Era la storia di un mugnaio. In Friuli, anni addietro, c’è stata una forte inquisizione e questo mugnaio è stato bruciato nella piazza di Montereale Valcellina, il suo paese. Era uno spettacolo bello, itinerante come lo aveva in testa lui. Pressburger è più figlio di una generazione sperimentale di quanto lo sia stato Strehler, che comunque, in maniera classica, è stato innovativo.
Adesso è un po’ difficile lavorare come si faceva una volta, taluni lo fanno, però in questo momento, almeno da quello che vedo e da quello che ho visto, c’è una forte tensione.
Ai giorni d’oggi, è importante più che mai, essere semplici e veri…
Sì, ritornando ad “Artemisia Gentileschi”, quello è stato uno spettacolo di una semplicità imbarazzante. Con Lino Marazzo abbiamo fatto un lavoro sulla parola, o meglio sulla sua veridicità, anche per quanto riguarda le battute. Era l’unico modo per rendere attuale quel tipo di testo. Ed è anche questo il problema odierno, infatti stiamo cercando di capire come affrontarlo nello spettacolo che faremo ad agosto, sui migranti triestini degli anni ’50. Bisogna capire come attualizzarlo, visto anche quello che sta succedendo in questi giorni…
Sì, è un tema delicato…
Non si può propinare teatralmente dei souvenir o delle cose iconografiche: non ha senso.
Ma nemmeno rivoluzionare troppo; bisognerebbe comunque mantenere un equilibrio. Va bene guardare verso il futuro, ma sempre con un occhio verso il passato, quindi non ambientare un fatto che è accaduto anni addietro, ad esempio, fra duemila anni…
No, certo che no. Comunque, l’ambientazione non c’entra, non ha più senso: il senso è nel linguaggio, che fa scattare un’attualità. Bisogna capire come rendere un testo, che narra di una vicenda così lontana, attuale, in modo che uno possa immaginare una vicenda di questo tipo ai giorni d’oggi, nella stanza del vicino di casa. E poi, se ci si può anche permettere di fare uno spettacolo di parola, in una sala teatrale grande, ci vuole una certa teatralità; però, sono convinto che, se c’è una presa di coscienza dell’attore, egli sa come trovare il suo spazio, su un palcoscenico immenso.
A volte le opere o le operette tendono ad ambientarle in contesti odierni, che vanno contro al modo di dialogare di un tempo, e il prodotto finale non è un granché.
Bisogna essere intelligenti, per fare un’operazione di questo tipo. Una volta avevo visto una produzione televisiva che aveva messo in onda una “Bisbetica domata” nei giorni nostri. Lo spettacolo funzionava e non funzionava, perché ad un certo punto c’era un problema di traduzione nell’italiano: gli attori diventavano aulici, e qualche battuta di Shakespeare veniva fuori, però il ritmo e la preparazione degli attori erano l’elemento moderno, che si fa ascoltare, ovvero la parola viva, che era formidabile. Per cui, anche se si cambia l’ambientazione, essa non è necessaria: tutto sta nel linguaggio. Certo che se fisicamente non dai tempo a una cosa, devi costruirti un personaggio che abbia quella fisicità là: quando si girava in calzamaglia, non si camminava come adesso.
Come mai si è avvicinato alle opere e alle operette: un mondo diverso da quello del teatro di prosa?
È stato per via di Orazio Bobbio. Bobbio era molto generoso e gli piaceva che la gente giovane che lavorava per lui prendesse vie diverse, che si rodasse un po’. Il fatto di buttarti, con un’esperienza scarsissima, dentro ad un teatro enorme, con quaranta coristi, trenta comparse, la buca dell’orchestra piena, i cantanti, o ti fa sfondare e superare quella barriera là, e hai fatto centro, o è meglio lasciar perdere.
Io mica facevo le grandi parti: le mie erano particine piccolissime, però, piano piano, assorbendo e digerendo queste piccole esperienze, riesci a farle tue.
Pochi giorni fa, ripensavo alla bellissima esperienza che ho fatto alla fine degli anni ’80, al Teatro Zajc di Fiume, nella sezione dedicata al Dramma italiano. Mi aveva chiamato Boris Kobal per lo spettacolo “Casina” di Plauto, in cui lui aveva un’idea tutta sua di far recitare alcune parti in triestino.
Da lì è nato questo rapporto tra me e il teatro di Fiume, che è durato due anni e mezzo. L’ultimo spettacolo che abbiamo fatto è stato bellissimo; c’era anche Giulio Marini, un attore importante che adesso non c’è più, che lì era il primo attore.
All’epoca, la direzione della sezione Dramma italiano era affidata a Nino Mangano, un siciliano, vecchia maniera, come gli impresari di una volta, che amava tanto il teatro, mettendoci particolare amore nelle sue scelte. Questa piccola realtà mi ha dato la possibilità di lavorare in un teatro di duemila posti, sempre tutto esaurito, con delle parti consistenti, perché, non si può continuare a fare delle particine di due pagine per tutta la vita, e credere di fare veramente del teatro.
Per me questa è stata una grossa opportunità, ho anche sperimentato molto. Tanti attori lavorano, sperimentano, però la vecchia scuola che ti offre l’opportunità di poter recitare anche in ambienti così grossi, ti dà la possibilità di affinare le tue capacità sceniche, se hai talento, misura e orecchio. Il teatro è musica.
Com’è il suo rapporto con il Teatro Stabile Sloveno?
Da spettatore è un rapporto molto buono e anche da attore. Tanti anni fa avevo fatto un bellissimo spettacolo, firmato da Sabrina Morena, su Ellis Island; c’era anche Alessandro Mizzi. Il mio rapporto da spettatore è ottimo, perché vedo che loro hanno una marcia in più. Nel teatro dell’est c’è un rigore e un’essenzialità che si trovano già in questa città.
Sì, il teatro dell’est è diretto, non ha paura di osare…
Non solo quello: ha anche un “parco macchine” all’altezza, che va dai venticinque agli ottant’anni. Qui, invece, chi abbiamo?
Cosa ne pensa del teatro dialettale e quanto il dialetto ha influito poi nella sua carriera lavorativa?
Il dialetto è importantissimo, perché offre delle possibilità espressive, emozionali che, per renderle in italiano, devi essere molto bravo. Chiaramente se è il tuo dialetto, è molto più facile. Ho sentito tante persone parlare in dialetto in alcuni spettacoli e non avere i tempi, per cui, in quei casi, non ha influenza; per chi, invece, lo comprende molto bene, ha una coloritura diversa. Il dialetto è fondamentale; il teatro, in qualche modo, nasce dai dialetti, infatti, mettendo da parte la Commedia dell’Arte, la gente si esprimeva nel proprio volgo.
Il teatro al nord e il teatro al sud. Ci sono differenze, ad esempio nel modo di proporre lo spettacolo?
Ho visto degli spettacoli bellissimi al sud. Non credo che ci sia tanta distinzione tra nord e sud; credo che ci siano delle persone che lavorano seriamente ovunque. Certo che a Napoli o in Sicilia c’è una teatralità che tutti noi sappiamo, ma ci sono anche cose poco interessanti, come d’altronde capita ovunque. Ciò che è importante è la necessità di scrivere, di rappresentare; però regolerei pure il problema del teatro, selezionando drasticamente. Ho una certa affezione per la musica e quindi so riconoscere le note stonate, anche se vengono camuffate come originali.
Comicità di una volta e comicità di oggi?
La comicità italiana di una volta era eccezionale; quella di oggi, invece, è scaduta tantissimo, ma è anche comprensibile, perché la gente non ha nulla da dire; mentre, quella di alto livello, è una comicità se si vuole colta, ma che in questo momento ha del filo da torcere, perché la maggior parte della gente non pensa più…
Bisognerebbe fermarsi un attimo e mettere un po’ tutte le cose a posto, riflettere, soprattutto…
Un po’ sì. Che dire della comicità di una volta? C’erano dei mostri allucinanti! Era tutta un’altra cosa. Adesso non esiste quasi più una comicità che non sia comicità di parola, e quindi di per sé chiusa, limitata, ad una nazione e a volte addirittura ad una regione. Una volta esisteva Jacques Tati, non occorrevano tante parole.
Pensando ai grandi personaggi, che venivano ospitati dalla magnifica Rai di un tempo lontano, ad esempio a Mina che duettava con Totò, emerge che c’era una cultura dello spettacolo di una raffinatezza incredibile. Adesso più ti lasci andare, più esageri e più sei vero. Ognuno a casa può fare quello che vuole, però, quello che passa in televisione è importante.
Lo è soprattutto per i giovani che sono delle spugne capaci di assorbire ogni cosa, e poi i risultati si vedono.
Sì, è come quando uno lancia per primo una bomba: poi le schegge vanno avanti all’infinito…
Parlando della Rai di una volta, mi vengono in mente i varietà. Lei ha lavorato con Arbore in una sorta di varietà-gioco a premi…
Sì, quella è stata un’esperienza veramente allucinante, in senso positivo, estemporanea, successa per caso. Un giorno mi sono ritrovato in agenzia Arbore, Porcelli e, se non ricordo male, anche Arnaldo Santoro, curatore e autore del programma “Indietro tutta!”. Oltre a Santoro, nella trasmissione, come autori, c’erano anche Cerruti – ex uomo di Mina – Arbore stesso e Nino Frassica.
Ho chiesto al mio agente come mai non mi avesse avvertito, che Arbore fosse lì. Per fortuna, alla fine sono riuscito a fare il provino al volo.
Dopo due-tre mesi – era novembre – mentre stavo facendo uno spettacolo teatrale, mi hanno chiamato dicendomi che mi avevano affidato il ruolo del gonghista. Ho dovuto interrompere lo spettacolo che stavo facendo.
Con la parte del gonghista guadagnavo e anche parecchio per l’epoca, e i primi tempi mi divertivo pure. La trasmissione ha avuto la fama che ha avuto; una fama fittizia, perché è una fama a cui non ero abituato: la fama senza far nulla, soltanto apparire in un contesto che di per sé è vincente, mi ha parecchio sballato. Da allora non ho più fatto tv, se non da attore, facendo quello che mi interessava.
Cosa mi dice del film “Le rose del deserto” di Monicelli e dello spettacolo teatrale “Arsenico e vecchi merletti” sempre con la regia di Monicelli? Il suo modo di lavorare era uguale sia a teatro che al cinema?
Sorprendentemente, Monicelli, in teatro, per come l’ho vissuto io, e anche al cinema, era uno che faceva il lavoro molto prima e, una volta sul set o in sala a dirigere con cognizione una pièce, diventava quasi un realizzatore, che aveva in mente di portare a compimento l’opera.
Se tu facevi le cose nel modo giusto, normalmente, non ti diceva nulla e non ti offriva tanti spunti. Tutto doveva partire da te.
Lui offriva un aspetto coerentemente da fabbrica: non c’era il tempo per baggianate, bisognava portare a compimento il lavoro. Trattava malissimo chi non riusciva ad entrare in questo gioco, specialmente al cinema, ma l’ho visto fare la stessa cosa anche a teatro. Non ti dava nulla, apparteneva alla tradizione antica.
Era distaccato, quindi?
Abbastanza, abbastanza, e anche molto cattivo sul set; poi, quando si finiva di lavorare, era una persona gentilissima, ma, sul set, se non capivi il suo gioco, entrava in una specie di trance pericolosissima.
Se lui non ti stimava non potevi capirlo, perché anche se lo capivi, ti trattava male comunque, pure se ti aveva scelto lui. Se, invece, ti stimava giocava in maniera pesante con te e rideva anche delle battute che tu facevi su di lui.
Cosa poteva dire poi una persona come Mario Monicelli, che ha lavorato con persone incredibili quali Sordi, Totò, Gassman, dove lui era la mente e loro il braccio. Doveva solo portare a compimento quello che aveva scritto l’amico.
E invece l’esperienza con Nanni Loy nel film televisivo “A che punto è la notte”?
Anche quell’esperienza è successa un po’ per caso. Mi era capitata subito dopo “Arsenico e vecchi merletti”: Gianfelice Imparato, che era in compagnia con noi, mi chiamò perché Nanni Loy voleva vedermi. Sono andato a casa sua; ero emozionatissimo.
Loy aveva preso Gianfelice Imparato per un ruolo; c’era anche un altro attore, che come Gianfelice, era di Castellammare di Stabia. Questo attore era molto grosso, grande e aveva la faccia molto simile alla mia. Siccome c’erano due ruoli per due gemelli, Gianfelice suggerì a Nanni Loy di chiamare me. Questa esperienza lavorativa mi ha dato la possibilità di conoscere Mastroianni.
È stata una specie di impasto tra il vecchio e il nuovo, con degli indiscutibili maestri: non si può discutere con l’arte, un conto è la manovalanza, che resiste come può, un conto sono gli artisti veri. E noi abbiamo bisogno di loro.
Com’era Mastroianni? Era simile a come lo si vedeva sulle scene?
Era magnifico! Il giorno prima di girare una scena con Mastroianni, non ho dormito per tutta la notte: ero emozionato. Questo accadeva nei primi anni ’90. Non ho chiuso occhio, anche perché, alle cinque, dovevano venirmi a prendere con la macchina, per portarmi fuori Roma, sul set. Quando sono arrivato, Mastroianni era già lì, con i pantaloni calati e il sedere un po’ fuori: la sua serva di scena gli stava facendo un’iniezione. Lui, senza problemi, mi ha dato la mano: “Piacere, sono Marcello”.
Poi mi ricordo che era tutto impegnato a parlare con i giornalisti, perché si era arrabbiato su una cosa. Sul set era favoloso, favoloso: ti sembrava di stare con tuo papà, tuo zio. Era una forza! Forse lo vedevo così, perché ero giovane e mi sono ritrovato un’icona del genere davanti.
Lo immagino! Credo che riuscire a cogliere qualcosa di un personaggio, come Mastroianni, che ha vissuto nell’epoca d’oro del cinema, della televisione e del teatro, faccia piacere…
Sì, perché loro stessi intuivano subito com’eri tu, e quindi, se eri bravo, si creava un rapporto veramente bello; nel caso di Mastroianni, lui si metteva alla pari con te, in un modo incredibile.
Ricordo che faceva un freddo pazzesco: l’inverno era appena iniziato, eravamo fuori Roma, all’alba, in campagna e lui sui controcampi dava gli occhi, che è una cosa che non fa nessuno, figuriamoci personaggi di questo portata. Mi ricordo che Nanni Loy diceva: “Marcello, fa freddo!” e lui: “No, devo dare gli occhi al ragazzo”. E lui stava là, faceva delle espressioni, dietro alla macchina da presa.
No, quello è proprio un altro mondo…
Adesso cosa possiamo dire? Facciamo quel che possiamo, tutti quanti, sperando di divertirci sempre o anche di emozionarci, perché divertirsi è pure quello. Sono tutte cose che ti riempiono…
Prima abbiamo citato la Rai di una volta; uno dei personaggi dei varietà di allora era Lelio Luttazzi. Cosa mi dice a riguardo?
Lelio Luttazzi ha portato Erroll Garner qua, negli anni coraggiosi, di altissima professionalità della Rai. Lui era molto sensibile. L’unica volta che l’ho conosciuto era a casa sua, in Piazza Unità. Si era creato un momento meraviglioso: tutti stavano parlando e Lelio ha iniziato a suonicchiare al pianoforte. E Massimo Ghini ha detto: “Zitti, zitti che il Maestro sta suonando” e subito Lelio si è bloccato: “No, no, se non parlè non sono” (se non parlate non suono n.d.r)
Luttazzi era uno vero, pieno d’inventiva, anche come paroliere. Pur provenendo da un posto come Trieste, che non è proprio l’ombelico del mondo, lui è riuscito a rendersi nazionale. Era un Maestro di grande talento, con un livello molto alto, come ce n’erano pochi. In quegli anni là, in Rai, suonava gente “mostruosa”.
A volte fa impressione pensare a tutto quello che c’è stato e a quello che invece c’è ora…
E sì, perché – come si diceva prima – tutto quello che si fa ora è come una bomba atomica: dopo le radiazioni vanno avanti per sempre. Bisogna stare attenti. E non basta apparire in tv per diventare famosi. Oggi, purtroppo, c’è un’arroganza di fondo.
Oggi, poi, manca il lavoro di squadra. Viviamo in un mondo che ci impone l’utilizzo dei social, dove tutti sono “amici”, però alla fine è solo apparenza: questi strumenti tendono a isolare le persone, piuttosto che unirle. Una volta, invece, si cercava di costruire qualcosa assieme, di operare assieme; il clima che si respirava era migliore e ciò lo si vedeva nel prodotto finale.
Come no, per forza. E poi è un sistema strano, il nostro. In quello del cinema – la televisione viaggia su altri binari – se non c’è una committenza forte, è normale che a far cinema siano sempre quei pochi, perché sono loro che creano il ricavo. A volte anche per il teatro si segue lo stesso meccanismo, ma, secondo me, uno spettacolo teatrale si vende per la sua bellezza. È vero che ci sono i nomi che richiamano, però uno spettacolo dovrebbe andare oltre a certi meccanismi; dovrebbe essere acquistabile e vendibile per il proprio valore. Certo, per fare questo un direttore artistico dovrebbe avere dei validi attori ed essere determinato.
Sogno nel cassetto?
Fare Mojito a Cuba (ride). Sogni nel cassetto? Continuare a fare teatro, finché vivrò. È una cosa che va un po’ fuori dallo spazio e dal tempo, però mi riempie tanto di energia, specialmente quando faccio delle belle cose. E poi che stiano bene i miei amici e mia mamma (sorride).
Ringrazio l’attore Fulvio Falzarano per la piacevole chiacchierata.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.