Ariella Reggio: Trieste e il teatro

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Ariella Reggio è un’attrice triestina, conosciuta in tutta Italia in ambito teatrale, radiofonico, televisivo e cinematografico. 

Lei ha frequentato il Piccolo Teatro di Milano. Cosa mi racconta di quell’esperienza?

Ariella Reggio a TriesteÈ stata un’esperienza unica! Giorgio Strehler avrebbe voluto che io facessi parte anche dello spettacolo “Arlecchino servitore di due padroni”, ma io ho rifiutato, perché in quel momento a Trieste si stava formando una compagnia stabile di dodici attori; al Teatro Stabile. Sembrava che dovesse durare nel tempo, invece alla fine ci hanno licenziati tutti; erano gli anni ’70.

Sicuramente ha conosciuto anche Spiro Dalla Porta Xydias

Sì, certamente. Spiro è una persona in gambissima: è un grande personaggio, un bravissimo attore e regista, montanaro, o meglio scalatore.

Com’è stato lavorare con Strehler?

È stata una cosa bellissima, faticosissima: non era un regista facile. Io ammiravo molto i suoi  spettacoli; bevevo le sue parole, e stavo lì ore e ore ad ascoltarlo. Insieme abbiamo fatto la “Santa Giovanna dei Macelli” di Bertolt Brecht; avevo un piccolissimo ruolo, e lui mi aveva fatto provare tantissimo, moltissime volte, soltanto per dire tre parole. Mi diceva che la mia parte era la più importante dello spettacolo; è stata una bellissima esperienza, davvero indimenticabile. Lui, come uomo, era un po’ vanesio; come regista però era molto poetico, intellettuale, eppure popolare. Si chiedeva sempre: “Ma il pubblico capisce quello che faccio?”  – questa era la domanda che si poneva continuamente. Spesso aveva dei guizzi davvero geniali.

Anche Strehler era triestino…

Sì, era triestino, però quando io l’ho incontrato viveva a Milano già da anni. Ha voluto essere sepolto a Trieste vicino alla sua mamma: i suoi genitori erano triestini. Il padre lavorava nell’ambito teatrale e la madre era una violinista. Ogni tanto sua mamma veniva a trovarlo a teatro a Milano e gli diceva: “Giorgetto non stancarte” e lui le rispondeva: “Mametta, ma dai, sta bona, che go de lavorar”. La sua pronuncia triestina era un po’ sbiadita perché viveva a Milano da tanti anni, ma con me, e con chiunque altro fosse triestino, parlava in dialetto.

Lei in gioventù era andata a lavorare a Londra. Cosa mi racconta di quel periodo?

Posso dire che ho fatto solo un’esperienza alla BBC. Facevo delle lezioni di italiano, molto pulite, molto elementari, del tipo: “The cat is on the table”. Non posso dire di aver lavorato in teatro; mi sarebbe piaciuto, anche perché adoro il teatro inglese e il modo di recitare degli attori inglesi. Loro recitano molto interiormente, ti danno suggestioni, mentre noi usiamo molto gesticolare, cambiare tono di voce; certo siamo italiani e quindi per noi questo è normale, non dobbiamo vergognarcene.  Gli inglesi hanno una scuola di teatro molto buona e sanno fare di tutto, di tutto, basta vedere Judi Dench o Maggie Smith che dal ruolo in Harry Potter passa a Shakespeare, a Noël Coward. Da noi appena in tempi recenti s’è cominciato ad apprezzare la commedia; ma per anni chi faceva commedia era considerato un piccolo attore. Molti attori comici italiani di una volta, inizialmente, erano stati snobbati dai critici, sono stati riscoperti solo dopo la loro morte.

Se avesse auto l’opportunità, negli anni Cinquanta e Sessanta, di fare un film, che regista e che attore avrebbe scelto?

Dal punto di vista teatrale posso dirti che mi sono trovata benissimo con il regista Francesco Macedonio, che è morto da poco ed è stato il mio maestro in assoluto. Poi ho avuto la fortuna di lavorare anche con Strehler. Mi sarebbe piaciuto lavorare con il regista Peter Brook; lo adoro, è davvero un grande! Ecco, con lui avrei sempre sognato di lavorare, ma purtroppo non mi è mai capitato. Al cinema? Beh… quand’ero giovane andavo al cinema a guardare i film americani come se fossero delle cose irraggiungibili; restavo affascinata dai vestiti. Gli anni Cinquanta erano subito dopo la Guerra, quindi non posso dirti che io guardassi i registi, piuttosto ero “innamorata” degli attori.

Chi le piaceva?

Mi piaceva molto James Stewart, ma anche Gary Cooper che faceva i Western, e Cary Grant perché era sempre ironico. Ha fatto “Arsenico e vecchi merletti”, un film bellissimo – e lui bravissimo. Mi piacevano molto i film gialli, quelli con Joan Fontaine, Charles Boyer: c’era un’ambiguità negli sguardi davvero intrigante.

“Angoscia” era con Charles Boyer e Ingrid Bergman.

Sì, con la Bergman, dove lui la fa impazzire; è un film bellissimo! Quello era il periodo dove nei film si approfondiva la psicoanalisi, come in “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock; lui era un grande! Ecco, mi sarebbe piaciuto lavorare con lui, anche se dicevano che era un terribilino con gli attori. O con Federico Fellini. Fellini difficilmente valorizzava gli attori, ma non ne aveva bisogno: poteva usare chiunque, tanto poi li trasformava. I suoi film con Giulietta Masina mi piacevano molto. Io ho cominciato a lavorare nel cinema soltanto in questi ultimi anni; prima facevo solo teatro.

Tra cinema e teatro, credo di aver capito che lei preferisca il teatro. Quando ha capito di essere portata per la recitazione?

Assolutamente sì, preferisco il teatro. Mi ero iscritta ad una scuola di recitazione quasi per gioco, ma poi mi ci sono appassionata. I miei insegnanti, come Ugo Amodeo, mi avevano subito dato un lavoro radiofonico alla Rai – radiotelevisione italiana: ho capito che se mi chiamavano a lavorare, evidentemente avevo del talento. Il piacere di recitare me l’ha dato il professore Mercanti del Liceo “Petrarca” di Trieste; lui insegnava lettere e amava declamare. In quegli anni seguivo molto le commedie alla radio – quella volta non c’era ancora la tv –  e immaginavo come potevano essere gli ambienti, le persone, di quel mondo impalpabile.

Che emozione ha provato l’anno scorso recitando nell’originale radiofonico “La nemica in giallo” di Gianni Gori, e utilizzando i vecchi metodi per riprodurre i suoni, che oggi sono registrati?

Mi sono trovata non solo bene, benissimo. Ho chiesto a Mario Mirasola e a Gianni Gori che sarebbe bellissimo farne un leggio, mettere qualcosa in scena, per mostrare come si lavorava una volta; quando io ho cominciato a lavorare in radio, si facevano i rumori con le mani. Ugo Amodeo aveva inventato una specie di armadio con una porta ed una finestra con delle tapparelle – lo si può vedere nella sede Rai di Trieste – che si utilizzava, durante le trasmissioni radiofoniche, per riprodurre i rumori della porta che sbatte, della finestra che si apre, e delle tapparelle che vengono tirate su. C’era anche un lavandino per riprodurre il rumore dell’acqua, delle onde; ora invece tutto è tecnologico, registrato.

E nella sede Rai c’è anche una scala fatta metà in legno e metà in marmo.

Sì, è vero! Poi c’erano le famose noci di cocco che si usavano per riprodurre il rumore dei zoccoli dei cavalli; anche queste inventate da Amodeo.

Era divertente…

Sì, beh, per noi era lavoro. Adesso è divertente, ma quella volta non immaginavamo che ci potesse essere qualcosa di diverso.

Com’è nata l’idea di fondare il Teatro Bobbio?

L’idea di fondare un teatro è stata di Orazio Bobbio; noi lavoravamo allo Stabile, ma lui aveva sempre questo pensiero di un teatro tutto suo. Aveva iniziato a recitare fin da giovanissimo, ancora prima di finire la scuola. Era andato al seguito di varie compagnie, tra cui anche il “Living Theatre”, i commedianti che montavano i tendoni nei posti dove si esibivano – erano una compagnia di girovaghi. Alla fine si sono fermati a Trieste, perché il pubblico era numerosissimo e lui si era avvicinato a questa compagnia facendo piccole parti; ma aveva sempre nella testa il desiderio di avere un proprio teatro.

Io ed altri attori, invece, eravamo scritturati al Teatro Stabile e facevamo le parti che ci venivano assegnate. Nel 1975 sono andata a lavorare a Genova al Teatro della Tosse – si chiama così perché è in Salita della Tosse –  dove c’erano vari attori, tra i quali Lele (Emanuele) Luzzati, Tonino Conte, che avevano deciso di fondare una compagnia. Ed io così ho potuto vedere la nascita di questo progetto, e ho pensato che in fondo forse Bobbio aveva ragione e potevamo anche noi tentare di fare qualcosa di analogo. Eravamo giovani e pieni di entusiasmo e ci siamo buttati in quest’avventura.

Non è stato facilissimo, perché, dopo aver realizzato uno spettacolo, bisogna anche venderlo. Per venderlo bisogna avere un ufficio, e quindi bisogna trovare lo spazio adatto, aprire delle linee telefoniche, sostenere dei costi. Oggi tutto è più semplice grazie ai computer, ai cellulari; i contatti sono più veloci.

Pensa che il teatro sia peggiorato o migliorato con il trascorrere degli anni?

Peggiorato, ma non come attori; anzi, ci sono dei giovani molto più bravi di quel che eravamo noi, perché ci sono più scuole, e poi possono andare a studiare anche all’estero, perfezionarsi. È peggiorato come sistema: la televisione ha portato ad un gusto veloce, di non approfondimento, e quindi si fa un teatro che non lascia nulla. Bisognerebbe ricominciare a studiare bene i testi; non solo le parole, anche l’ambiente, le emozioni. Nel teatro c’è tutto: anche la dimensione sociale, quella artistica, tutto in un unico spettacolo. Spero nelle generazioni future. Quando la televisione era arrivata a casa di noi italiani, mi ricordo che ci aveva un po’ sconvolto la testa: è sopravvenuto un gusto per il ‘tutto subito’, l’immediato, il superficiale. Oggi per un giovane fare l’attore di teatro, come mestiere, è difficile; soprattutto se non si ha un nome televisivo.

Boeing BoeingLei nel 1988 aveva fatto la miniserie televisiva “La coscienza di Zeno” con Johnny Dorelli e adesso recita nella commedia teatrale“Boeing Boeing” con suo figlio, Gianluca Guidi. Che emozione si prova ad aver recitato con due generazioni di una stessa famiglia?

Beh, sono due cose diverse. Quando avevo recitato con Dorelli, lui era molto giovane e lo ero anch’io. Non lo conoscevo tanto bene, con me era molto carino, gentile; è stata una conoscenza superficiale. Molti anni dopo lui era venuto a recitare alla “Contrada” (Teatro Bobbio) e così ci eravamo rivisti. Suo figlio Gianluca l’ho conosciuto attraverso sua madre, Lauretta Masiero. Con lei avevo fatto, sempre alla “Contrada”, “Le sorelle Materassi” (dal romanzo di Aldo Palazzeschi), insieme ad Isa Barzizza. Gianluca aveva le idee chiare su cosa gli sarebbe piaciuto fare fin da piccolo. Ora recito con Gianluca nella commedia “Boeing Boeing” [tratta dall’omonimo film con Tony Curtis e Jerry Lewis del 1965 nds] e sono capitata con lui per caso: il produttore Gianluca Ramazzotti, quello che fa la parte di Roberto l’amico di Bernardo (Gianluca Guidi), ci ha voluti insieme nello spettacolo.

Le piace cucinare?

No, anche perché non sono tanto brava e quindi non ho la pazienza di dedicarmi tanto alla cucina. Ma mi piace molto mangiare.

Qual è il suo piatto preferito?

Preferisco i piatti semplici. Mi piace  soprattutto il pesce, tutto quello che è fatto con le verdure e non mangio tanta carne. Tanti mi dicono che ho uno stomaco di ferro, anche i colleghi: alle fettine di tacchino io preferisco il ‘gulasch’.  So cucinare per sopravvivere, ma se avessi tanti ospiti probabilmente non saprei da che parte iniziare. Da ragazza ho avuto la fortuna di avere sia la mamma che una tata, che cucinavano benissimo, e quindi sono stata abituata bene. Mia sorella invece è bravissima. Anche questo è un talento!

C’è qualche luogo di Trieste che l’affascina?

Trieste mi piace molto; peccato sia una città poco incline al turismo, eppure ce ne sarebbero di cose belle da vedere e da far vedere. Mi piace molto il Carso anche se è brullo; mi piacciono il mare e l’aria che si respira, persino quando il tempo è brutto.

Nell’arco della sua carriera, ha incontrato delle persone famose che le sono rimaste impresse?

Ho incontrato molti attori, tanti. Quando lavoravo allo Stabile ho conosciuto Nino Pavese, sua figlia Paila, Gian Maria Volonté e tantissimi altri. Poi anche quando facevo le operette ho avuto modo di conoscere attori importanti. È stata un’esperienza meravigliosa: la lirica è un altro tipo di teatro; molto bello.

Cosa mi racconta di Volonté?

Volonté l’ho conosciuto poco. Era giovane, simpatico, semplice, forse un po’ trasandato; non saltava all’occhio, invece era un genio. Quando l’ho incontrato era qui a Trieste per uno spettacolo teatrale, ma non volevano pagarlo come lui voleva e quindi stava per mollare tutto. Aveva collaborato con la radio: allora gli attori teatrali, quasi sempre, passavano dal teatro alla radio.

A Trieste c’è sempre stato un continuo via vai di attori…

Molti attori amano questa città e qualcuno ha persino comprato casa a Trieste. Forse si sentono più tranquilli, lontani dal caos dei grandi centri.

Trieste è una città legata al teatro eppure non sono tanti i giovani che lo frequentano …

Infatti è vero e non riesco a capire il perché. Ho notato che anche i ragazzi che fanno teatro non vengono poi a vedere gli spettacoli, e questo è molto strano. Forse lo vedono come un passatempo e non riescono a capirne l’importanza; però c’è da dire che a volte alcuni spettacoli sono noiosi … e se a un giovane capita di assistere ad uno di questi si scoraggia e non torna più.

Lei che ha lavorato con Woody Allen, nel film “To Rome with Love”, cosa mi racconta di lui?

È stata un’esperienza meravigliosa, mi piacerebbe ripeterla, ma è quasi impossibile. Ho fatto un provino in inglese e insperabilmente Woody Allen mi ha scelta per fare una particina. Con me è stato carino, gentile; eravamo tutti contenti di lavorare con lui. Si lavorava senza stress, nessuno gridava e c’era un’atmosfera molto calma. Quando era soddisfatto del mio lavoro mi diceva: “Very good, very good!”. Sul set ho conosciuto anche Penelope Cruz; veramente una persona meravigliosa, semplice, gentile, una ragazza comune, lontana da ogni sorta di divismo.

Lei è davvero un’attrice molto brava e nella commedia “Boeing Boeing” il suo personaggio è molto divertente; tutto lo spettacolo lo è.

Sì, è davvero uno spettacolo molto carino. Spero che in futuro lo riprendano, perché è vincente.

Secondo lei Trieste è cambiata nell’arco del tempo?

Sì, naturalmente, ma è normale. Io a dire la verità lavoro molto in giro e quindi non essendo sempre a Trieste certe cose mi sfuggono. Comunque posso dire che Trieste è una città particolare, ci sono tanti anziani; anche i teatri prevalentemente sono pieni di anziani, ma questo è un bene, vuol dire che hanno ancora voglia di uscire di casa, di divertirsi. Il passato culturale e teatrale dei triestini è diverso da quello degli abitanti delle altre città.

Trieste è cambiata per forza, perché tutto il mondo è cambiato; ad esempio, mi sembra che si parli di meno in dialetto, ma tutto sommato credo che sia ancora una città vivibile. A Trieste si vive bene: c’è il mare, la roccia, vicino abbiamo anche la sabbia, la Croazia; siamo fortunati. Ultimamente ci sono tanti turisti, c’è più interesse per la nostra città e questo è un bene, ma mi piacerebbe che fosse più curata, meno sporca, con più collegamenti ferroviari, insomma più organizzata ad accogliere chi viene da fuori.

Ha qualche hobby?

Mi piacerebbe essere una collezionista, fare tante collezioni; ma il teatro mi occupa molto.  Quando sono libera mi piace fare a maglia, leggere, guardare la tv; non ho proprio un hobby preciso.

Lei impara facilmente le parti?

Adesso un po’ meno facilmente. Mi serve più tempo per imparare una parte e sono diventata un po’ pignola; voglio che tutto si perfetto.

Ha qualche progetto per il futuro?

Sì, ho due proposte teatrali molto carine e poi ci sono alcuni lavori in dialetto, davvero divertenti. Per scaramanzia non dico altro.

 

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

 

Ringrazio l’attrice Ariella Reggio per la sua simpatia e per questa gradevole “chiacchierata”.

 

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4 Replies to “Ariella Reggio: Trieste e il teatro”

  1. cesare ha detto:

    Noto come Nadia Pastorcich possieda, pur se ancora giovane, un’abilità ed una professionalità da consumata giornalista. Il suo procedere nelle domande è fluido e conseguenziale, sì da porre chi intervista a proprio agio in quel sentirsi bene, che apre maggiormente al dialogo e, perché no, a volte pure a qualche confidenza.
    L’intervista fatta da lei ad Ariella Reggio per Centoparole Magazine, mostra una spontaneità reciproca fra chi pone le domande e chi alle stesse risponde. Ariella Reggio si è così aperta a noi, raccontandoci un po’ tutto di sè, dal teatro, in cui così brillantemente recita, alla sua vita privata, ai suoi gusti perfino culinari, alle preferenze di attori, di registi, fra cui il grande Strehler, incontrato a Milano e con cui ha collaborato, ma anche ricordando doverosamente Ugo Amodeo, che tanto si prodigò in vita per il teatro, triestino anche lui come il più grande, famoso e già citato Strehler.
    Ariella, pur avendo girato molto, da buona triestina ama Trieste, città davvero unica, che offre, a chi la frequenta o vi abita, il mare, ma anche i monti a lei vicini. La triestinità di Ariella è bella ed evidente, attraverso le sue parole. Trieste, che qui non si smentisce ancora, come città che ama ed è dedita all’arte, attraverso l’attività di chi vi è nato e vi è cresciuto.

    Cesare

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