Parigi 13/11/2015: il cordoglio 2.0 e l’agonia dell’empatia

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È inutile che ripeta la cronaca di questo evento. L’hanno già fatta moltissimi e meglio di quanto potrei farla io. Persino Wikipedia ha prontamente già aggiunto una voce direttamente collegata alla consultazione della sezione “Parigi”.

La copertura mediatica di questo orrore, in termini di Web e immagini, è stata talmente veloce e capillare da rendere inutile la lettura dei giornali il giorno dopo. Credo anche che, volendo fare una fredda e cinica analisi dei dati “ascolti” e “penetrazione”, sia stato l’evento mediatico più potente e pervasivo degli ultimi dieci anni. Sta di fatto che, se ci fosse ancora bisogno di riprove, il 13/11/2015 è la prova definitiva che ISIS ha una attenzione e una raffinatezza nell’uso dei media e la comprensione della dinamica di propagazione di una notizia degne della migliore agenzia di pubblicità.
Sicuramente una delle cose previste è stata la reazione del “popolo del Web”. Confusa, umorale, soprattutto in balia della circolazione delle informazioni così come viene gestita da media e Social Network. Immediatamente si sono distinti alcuni filoni principali: coloro che dipingevano la bandiera francese sulla propria immagine profilo di Facebook e simili, coloro che ricordavano ai primi che esistono altri conflitti nel mondo di cui ricordarsi, coloro che manipolano le frasi di Oriana Fallaci con intenti populistici e opportunistici (non riuscendo a mettere le mani su quelle di Ezra Pound … troppo complesso, mi sa), coloro che ne approfittano per informarsi, leggere capire.

Non me la sento di condannare quasi nessuno di questi,

I primi (io fra questi) hanno espresso il proprio cordoglio sì in una maniera immediata, ma anche accettando il rischio di un silenzioso invito a non scendere nelle piazze. e anche reso il logo del più famoso Street Artist del mondo, Banksy, il più condiviso del momento.
I secondi hanno fatto una considerazione più che equa sul fatto che nel mondo ci siano altri conflitti e altre stragi … ma anche loro si sono adagiati su quello che i media offrivano già cotto e mangiato, Boko Haram in Nigeria e le stragi in Kenya: peccato che in un impeto alle soglie della polemica (un pochino pretestuosa) abbiano dimenticato di guardare un po’ oltre la superficie e cercare quantomeno un eccidio davvero dimenticato, e ricordarsi, per dirne una, che a tutt’oggi la guerra dei narcotrafficanti al governo messicano, dichiarata sei anni fa, ha prodotto 80.000 morti e 16.000 ‘desaparecidos’.
I terzi, i populisti, quelli che sotto sotto trovano l’orrendo e violentissimo titolo a piena pagina di ‘Libero’ condivisibile ma non lo faranno mai pubblicamente, quelli sono avvoltoi. Niente di più da dire.
I quarti, quelli che cercano una sacrosanta pienezza di informazione, cedono però un pochino di quella capacità di provare dolore ed empatia in nome di una analisi geopolitca che di fatto rende tutto un po’ più asettico e distante.

Di certo c’è che chi ne viene fuori malconcia e sanguinante è l’empatia, il “sentire dentro”.

Anni fa assistetti, durante un convegno, ad un intervento del filosofo e antropologo culturale Umberto Galimberti. Sosteneva che la rapidità di propagazione di notizie in immagini, la capacità di renderci immediatamente presenti con lo sguardo su un luogo di sofferenza e violenza che oramai hanno i media, ci mette a diretto contatto con una quantità di sofferenza che il nostro “sentire” non è fisicamente in grado di sostenere.
Eventi del genere sono resi così impattanti dai media che risultano violentissimi, quasi come un pugno sferrato nello stomaco direttamente alla nostra capacità di provare a metterci nei panni degli altri, a sentire quello che provano, o quantomeno alla facoltà provarci. Siamo stati sommersi.

Di pugno in pugno, di orrore in orrore la nostra empatia vacilla nella lenta agonia iniziata quando le notizie hanno raggiunto il livello di diffusione che potremmo definire “tempo reale”. Siamo contenitori con un limite per le sofferenze del mondo, e subire questi attacchi ci porta ad un punto tale che la nostra capacità di provare compassione e dolore per il prossimo è talmente flebile da non riuscire ad estendersi nemmeno verso i nostri cari, verso coloro che per primi hanno bisogno e diritto alla nostra empatia.
E credo che questa ferita non sia un danno incidentale ma uno degli obbiettivi precisi e chirurgicamente studiati da parte di ISIS o da chiunque decida di colpire scatenando una cieca brutalità con una strategia che sia “eclatante”. Uno degli indizi che potrebbero suffragare quanto dico sta nella evidente scelta di colpire non più centri di potere più o meno simbolici, come fece Al Quaeda con le Torri Gemelle e il Pentagono, ma luoghi di divertimento, di evasione, di sorriso e condivisione reale, optando per un giorno in cui mediamente si ha voglia di uscire di casa: il venerdì. Il già da molti individuato senso di paura che si vuole incutere facendoci sentire insicuri in qualunque luogo è un aspetto di tutto quello che accade. La nostra capacità di sentire è il meno evidenziato degli obbiettivi. Ma la considerazione che resta unendo questi due aspetti è che uscire di casa comunque non cedendo alla paura non potrà mai servire a nulla se rimaniamo irreparabilmente chiusi in noi stessi.

E i media? I media oramai sono in un “cul de sac” che la nostra stessa propensione al consumo ha generato.
Un corto circuito fra la ricerca di sensazionalismo grondante sangue e l’attenzione voyeuristica di un pubblico che consuma notizie e divora immagini in modo peraltro sempre più superficiale genera una pressione mediatica enorme, fisicamente insostenibile. Pressione che potrebbe essere ancora maggiore se non ci fosse un filtro che seleziona quale orrore proporre in prima pagina e quale no. Peccato che l’ordine di priorità in questa selezione sia dettata generalmente dall’importanza economica del contesto, importanza che alla fine si basa sul nostro consumo (con pubblicità annessa). Altro corto circuito.

Che fare?

Onestamente, non lo so. Forse avere una maggiore consapevolezza che la quantità di empatia che abbiamo è limitata aiuterebbe, forse anche la comprensione della potenza pervasiva e violenta delle immagini su di noi anche.
E forse, anzi credo soprattutto, cercando di proteggere i nostri piccoli piaceri derivanti da una “pancia” in cui albergano emozioni e sensazioni grandi o piccole. Un po’ come sto cercando di fare mantenendo il divertimento che mi dà ascoltare gli “Eagles Of Death Metal”. A una persona a me cara ho un paio di giorni fa espresso la mia paura di non riuscire più ad ascoltare quello che è uno dei miei gruppi preferiti senza staccarlo dall’orrore del Bataclan, affrettandomi a puntualizzare che in mezzo a tutto quello che era accaduto era davvero una piccola cosa. Lei mi ha bloccato subito e mi ha detto due cose. Che non era affatto una piccola cosa e che non dovevo permettere che mi sottraessero il piacere di ascoltare la musica che mi piace.

Credo che abbia perfettamente ragione.

Vincenzo Russo @ centoParole Magazine – riproduzione riservata

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