Giorni fa al Politeama Rossetti di Trieste è andato in scena lo spettacolo “7 minuti” , diretto da Alessandro Gassmann con Ottavia Piccolo nel ruolo di Bianca. L’autore del testo, Stefano Massini, si è ispirato ad un fatto realmente accaduto nel 2012 in Francia, in una fabbrica di sole donne. La scena si apre con dieci donne che aspettano il ritorno della loro collega Bianca, convocata dai dirigenti della fabbrica. Dopo una lunga attesa, Bianca ritorna e avvisa le colleghe che il loro posto di lavoro non è in pericolo anche se la fabbrica sta per passare in mano a nuovi proprietari. L’unica cosa che viene richiesta, dalla nuova gestione, è quella di decidere, attraverso un voto, se rinunciare a 7 minuti della pausa complessiva oppure no. Bianca esorta le sue compagne a non reagire impulsivamente, ma a riflettere bene prima di decidere quale scelta fare; lei è contraria alla richiesta: 7 minuti possono sembrare insignificanti, ma se si comincia a scendere anche ai più piccoli compromessi, si rischia pian piano di perdere tutti i diritti acquisiti con tanta fatica. Uno spettacolo che invita alla riflessione e alla presa di coscienza dell’importanza della scelta individuale.
Quanto il carattere, il modo di vedere le cose di Bianca si avvicinano al modo d’essere di Ottavia Piccolo? A rispondere è proprio l’attrice in persona.
Non lo so; me l’hanno già fatta questa domanda, posso dire che io sono diversa da Bianca. Forse, quando Bianca faceva le sue battaglie, io non ero capace di guardarmi intorno; probabilmente ero più simile a molte delle mie giovani colleghe di scena. Non ero così motivata. Ero più piegata su me stessa a guardare quello che volevo fare da grande: volevo fare questo mestiere. Quindi rispetto a Bianca non ho un carattere così determinato – anche se con il tempo l’ho conquistato un pochino.
La cosa bella del teatro e che riesci a fare tue, anche le cose che non sono tue; è questo il divertimento. Per esempio, una mia amica mi ha detto una cosa molto carina legata al mio lavoro: “Ma sai che quando fai Bianca cammini in un modo proprio tutto diverso; non sei tu, cammini in un altro modo”. Dopo che lei me l’ha detto, me ne sono accorta anch’io. Ho scoperto che faccio camminare Bianca in una maniera differente da me; evidentemente mi sembrava più giusto fare così.
Secondo lei quant’è importante che, ai giorni d’oggi, un attore si avvicini a queste tematiche sociali?
Credo che il teatro, in vari modi, nelle varie epoche, abbia sempre toccato temi sociali; lo faceva con altri mezzi, ma i temi, tutto sommato, erano quelli. Certamente, nell’Ottocento, quando il teatro era più vicino alla borghesia, i temi non potevano riguardare la classe operaia – come nel caso dello spettacolo “7 minuti” che stiamo portando in scena. Oggi, la società è più amalgamata; le cose sono diverse rispetto ad un tempo. Facendo questo mestiere … credo che se non sai che cosa succede nel mondo, non lo puoi fare bene. Anche se fai Shakespeare o Molière o Pirandello, devi sapere che cosa accade introno a te, per poterlo riportare in scena.
Gli autori classici, quando scrivevano, non pensavano: “Adesso noi facciamo i classici”, scrivevano per il loro tempo, e quindi riportavano le cose che per loro, in quel momento, per la loro società, erano importanti. Se penso a “Il malato immaginario”, Molière non solo usa una comicità, che è la comicità di quell’epoca, ma parla di una società dove la scienza è vista come una cosa astrusa, dove i dottori parlano con un linguaggio incomprensibile. Molière prende in giro le persone che gli stanno introno, la società di allora. È sempre stato così e così dovrebbe continuare ad essere. Gli attori fanno parte della società e se non si guardano introno, secondo me, non fanno bene il loro mestiere.
Però forse sono pochi i testi che riguardano la società attuale. A parte “7 minuti” non è frequente trovare degli spettacoli che in qualche modo evidenzino le problematiche dei giorni nostri…
Sì, è vero, però, se si cerca, si riescono a trovare parecchi testi contemporanei che raccontano varie problematiche. Poi ognuno racconta quello che gli sembra più importante, però spesso bisogna anche saper leggere tra le righe. In questo nostro spettacolo, Stefano Massini tocca un tema che è molto vicino a noi, ma se uno va oltre la trama, oltre il tema del lavoro, della perdita dei diritti, della perdita della dignità – se vogliamo andare al di là di tutto questo – il tema è quello della responsabilità individuale: ognuno deve prendersi le proprie responsabilità per scegliere. Perché si arrabbia Bianca? Bianca s’arrabbia perché dice: “Ma ditemi le vostre motivazioni. Io non voglio che mi diciate sì a quello che dico io, voglio che voi pensiate con la vostra testa, e quindi vi responsabilizziate”.
E com’è stato lavorare con tutte donne?
Per me bellissimo. Io in genere ho buoni rapporti anche con i colleghi maschi, ma con le donne di più; mi sento fra simili (sorride). Mentre con gli uomini devi avere quasi sempre un filtro. È vero che per secoli noi donne siamo state abituate a vederci come delle concorrenti, ma credo che ormai, soprattutto in teatro, non sia più così: io non ho sentito nessun tipo di competizione “sbagliata”, negativa; ma solo la giusta competizione che ti porta a fare bene il tuo lavoro, non a discapito degli altri, bensì per il bene dell’intero spettacolo.
Al cinema lei aveva lavorato con Vittorio Gassman; adesso ha avuto modo di lavorare con il figlio Alessandro. Che effetto le ha fatto?
Io Alessandro lo conosco da quand’era bambino: ero amica di sua sorella, quindi l’ho visto crescere. Poi l’ho conosciuto come artista, regista, attore; lo stimo molto. Mi è sempre piaciuto e ho visto molti suoi spettacoli. Quando c’è stata questa occasione di lavorare insieme, mi è sembrata una buona cosa: so che temi di questo genere gli sono molto congeniali. Abbiamo lavorato bene, in grande armonia; lui ha un grande rispetto per il “materiale attore”: essendo lui stesso attore, sa quali sono le debolezze, le paure, le fragilità di questo nostro mestiere, che è un mestiere obiettivamente difficile, non solo tecnicamente – quello sarebbe il meno – ma emotivamente. È un mestiere che prevede una partecipazione emotiva forte, e questo incide molto anche nei rapporti. Non siamo tutti uguali: c’è chi è più fragile, c’è chi è più forte. Ovviamente, nel mio caso, io che lavoro da tanti anni, ho chiaramente più esperienza delle altre, anche se per carattere quando sto preparando uno spettacolo mi sento totalmente alle prime armi: mi metto a disposizione del regista e del testo. Penso che ci sia sempre qualcosa da imparare.
Quindi si mette sempre in gioco…
Sempre; sì, cerco di farlo.
Lei ha iniziato la carriera teatrale da giovanissima con la parte di protagonista nello spettacolo “Anna dei miracoli” (regia di Luigi Squarzina). Secondo lei, oggigiorno, è un bene iniziare la carriera d’attrice in giovane età?
Come ho iniziato io, è un po’ difficile: ho cominciato a undici anni ed è improbabile che si ripresenti una situazione del genere; può succedere, ma non è frequente, anche perché oggi bisogna studiare, andare a scuola. Io sono andata a scuola fino alla terza media: poi ho cominciato a lavorare. Adesso sarebbe impensabile – perché è obbligatorio finire le superiori – e poi non sarebbe giusto: nella nostra società, ci vogliono delle persone preparate, anche culturalmente, che studino, che facciano una scuola.
Quello che però succede spesso è che si comincia sempre più tardi a lavorare – ma questo vale anche per gli altri mestieri. Ciò, in teatro, è un po’ un guaio: si arriva che si è già mature ed è più complicato interpretare i vari personaggi adolescenti che si trovano, per esempio, nei lavori di Shakespeare, dove le donne sono tutte molto giovani; e se tu arrivi che hai trentacinque anni, sei un po’ fuori parte, anche se alla fine si ricorre al trucco, ma non è la stessa cosa. È difficile trovare delle attrici giovani e non parlo di quindicenni, ma anche le ventenni scarseggiano: tra la scuola, l’università, una cosa e l’altra, una arriva che è già un po’ matura. Questo è un peccato.
Lei ha avuto modo di lavorare due volte con Giorgio Strehler, prima ne “Le baruffe chiozzotte” e poi nel “Re Lear” ; si ricorda com’era questo regista e se nel suo modo di fare emergeva qualche particolarità triestina?
Intanto veniva fuori il dialetto: parlava sicuramente con un accento triestino, o meglio tra il milanese e il triestino: lui ha vissuto a Milano per tantissimi anni, quindi era anche un po’ milanese. Lavorare con lui è stata un’esperienza bellissima. La prima volta ero molto ragazzina – avevo sedici anni – ed ero terrorizzata da lui, più che ammirata: le sue sfuriate erano mitiche, proverbiali. Poi quando ho rilavorato con lui, ero un pochino più grande: avevo ventidue-ventitré anni, ed ero più strutturata, sapevo che cosa stavo facendo. Lui era straordinario: riusciva ad insegnare e tirare fuori il meglio di ognuno di noi; e su questo non c’è dubbio. Aveva una preparazione, una cultura, e una dedizione al suo lavoro incredibile. Il suo lavoro era la sua vita; aveva delle intuizioni teatrali e poetiche difficilmente ripetibili. Solo sue.
Quindi, lei ha avuto modo di lavorare con Strehler che era triestino e poi ha interpretato una parte nella miniserie televisiva “La coscienza di Zeno”, tratta dall’omonima opera di Italo Svevo, uno scrittore triestino.
Sì, vero, certo.
Perciò, che idea si è fatta della cultura triestina?
Quando ho conosciuto Strehler ero una ragazzina, quindi non mi sono posta il problema di dove fosse nato; poi, più avanti nel tempo, ho incontrato molte persone triestine. Io sono stata una prima vota al Teatro Stabile di Trieste quando avevo diciott’anni e ho vissuto in questa città per alcuni mesi – questo succedeva più di quarant’anni fa. Mi sono trovata in una città diversa rispetto a Roma – da dove venivo io – che è una città meridionale. Per me era come stare all’estero, anche architettonicamente parlando. Mi guardavo intorno e pensavo: “Mah, le case sono fatte in modo diverso, le persiane non sono uguali a quelle nostre, le finestre sono doppie” – poi ho capito il perché: qui faceva più freddo. Ho scoperto tantissime cose; un mondo che non conoscevo. Devo dire, però, che negli anni della mia formazione, non eravamo molto preoccupati del fatto che uno fosse di Trieste, o per esempio di Napoli; questa è una cosa che è venuta fuori da poco.
Si è cominciato a parlare di riscoperta del “territorio” e trovo giustissimo il fatto di recuperare la propria cultura e le proprie radici, ma secondo me viviamo in un mondo che dovrebbe superare questo limite; in fondo siamo in Europa. Ad esempio, io sono nata a Bolzano, ho vissuto a Roma, poi a Milano e adesso vivo a Venezia; mio padre era pugliese e mia madre marchigiana. Quindi io mi sento italiana. Certo, mi piace sapere com’era fatto il nostro Paese cent’anni fa, anche perché se non sappiamo da dove veniamo, non sappiamo nemmeno dove andiamo a parare, però non sono d’accordo con certi stereotipi come: “Veneziani gran Signori, Veronesi tutti matti…” Queste cose vanno superate.
Se le dico Trieste, cosa le viene in mente?
Mi viene in mente l’aria, il mare, l’orizzonte. Da qualche anno a questa parte, abitando a Venezia, ho conquistato l’orizzonte, che è una cosa alla quale una persona, che vive in una città senza mare non pensa: si ritrova sempre in mezzo alle case e l’orizzonte non lo può vedere. Adesso, per me, l’orizzonte è diventato importante: se sto molto tempo fuori casa, via da Venezia, mi manca, mi manca proprio quella sensazione d’infinito. Oggi sono andata a fare una passeggiata vicino al mare proprio per vedere l’orizzonte e poi, guardando lontano, lontano, vedevo anche casa mia (sorride).
Quando ha scoperto il Lido di Venezia?
L’abbiamo scoperto tantissimi anni fa quando mio figlio era piccino e volevamo andare in vacanza. Allora aveva un anno – quindi trentotto anni fa – e da quel momento ci siamo tornati spesso. Poi abbiamo fatto un po’ di amicizie e qualche anno fa abbiamo trovato una casa e l’abbiamo presa. Da tempo siamo fissi lì; non abbiamo nessun’altra casa da nessun’altra parte.
Quindi lei non ha scoperto il Lido per via del Festival del Cinema?
No, non c’ero mai stata prima. Ovviamente ero stata a Venezia tante volte, ma al Lido no. Il Lido è un posto molto particolare, perché è Venezia, ma non lo è. Io sto a San Nicolò che è un borgo – uno dei due borghi più antichi.
Ma è verso Alberoni o dall’altra parte?
No, dall’altra parte; esattamente dalla parte opposta ed è uno dei due posti più antichi di Venezia. Uno è il borgo di San Nicolò con l’omonima chiesa e l’altro è Malamocco che è antecedente a Venezia. Questi sono i due punti più antichi perché in mezzo, una volta non c’era niente, ci vivevano solo poche persone che coltivavano carciofi.
Parlando di cinema, lei da giovane ha interpretato una delle figlie del Principe di Salina (Burt Lancaster) ne “Il Gattopardo” con la regia di Visconti. Com’è stato lavorare con lui?
Mi sembrava una cosa bellissima, anche perché era la prima volta che facevo cinema. Ero una ragazzina e per me tutto era un grandissimo gioco, una cosa meravigliosa.
Era severo Visconti?
Era severissimo, ma aveva ragione: doveva tenere insieme un numero consistente di persone come succede nel cinema. Il regista non è soltanto quello che decide cosa fare, ma è anche uno che deve tenere in piedi una baracca enorme, molto più che in teatro. Centinaia di persone dipendono da lui, dal suo lavoro, dal suo nervosismo, dalla sua intuizione. Un esempio del complesso ruolo che ha il regista lo si può vedere nel magnifico film di Truffaut “Effetto notte”, dove il regista deve risolvere in tempo reale i problemi che sorgono sul set e si ritrova sommerso da molte richieste. Deve decidere tutto in un momento e prendere in esame anche cose alle quali non aveva ancora pensato, perché magari dovevano venire più avanti. Il cinema è così. Quindi Visconti aveva ragione ad essere severo.
Per me era come essere immersi in un mondo fantastico: quando giravamo “Il Gattopardo” – più di cinquant’anni fa – le persone che erano fuori dall’ambiente cinematografico non sapevano come si facesse un film, figuriamoci io che ero una ragazzina. Adesso, bene o male, sappiamo tutti cosa vuol dire fare un film, che cosa sia il montaggio; conosciamo il meccanismo, magari non esattamente, ma un po’ lo conosciamo. Per me allora era tutto nuovo: avevo fatto uno spettacolo teatrale e una cosa in televisione, e poi sono precipitata in un mondo che non avevo mai visto.
Alain Delon e Claudia Cardinale, com’erano?
La Cardinale l’ho incontrata una volta sola. Delon era molto carino e gentile, ma a me che ero una ragazzina non diceva nulla, anzi mi piaceva un altro ragazzo che faceva mio fratello, perché era più piccolo e mi sembrava più vicino alla mia età.
Lei ha lavorato in alcuni film di Bolognini. Che cosa le è rimasto di quelle esperienze?
Mauro Bolognini è un regista che è stato, purtroppo, molto dimenticato nel nostro paese, e invece ha fatto dei buonissimi film; era un bravo raccontatore. “Metello” non è stato soltanto un bellissimo film, ma è stato bello anche girarlo. Tutti noi avevamo la sensazione di fare una cosa bella. C’era una grande armonia, tutto concordava a farti pensare che stavi partecipando a un grande lavoro. La sceneggiatura – tratta dal romanzo di Pratolini – era bella, Mauro Bolognini era in un momento di grazia, Massimo Ranieri giovanissimo – esordiente al cinema – era bravo, era un ragazzino, adatto al ruolo che interpretava; tutto andava bene. Mentre, la lavorazione di “Bubu de Montparnasse” è stata molto travagliata, anche se a me è piaciuto fare questo film. Abbiamo cominciato a girare che Mauro Bolognini non aveva ancora deciso chi doveva essere il protagonista, poi ha scelto un ragazzo che era molto carino, ma come attore non era un granché – tant’è vero che ha smesso subito dopo.
Bolognini aveva una grandissima cultura, non solo una cultura generale, che era ampissima, ma soprattutto un’importante cultura visiva, per cui in tutti i suoi film troviamo una grande attenzione anche per i costumi, la scenografia, la fotografia. D’altra parte i suoi collaboratori erano sempre di altissimo livello: in “Metello” e “Bubù” i costumi erano di Piero Tosi – un premio Oscar.
Ha visto il film Senilità di Bolognini, dove si vede la Trieste di un tempo?
Sì, l’avevo visto all’epoca; molto bello, davvero molto bello.
Il teatro nasce come arte popolare, quindi vicino al popolo. Adesso, secondo lei, sta diventando un po’ di nicchia oppure no?
No, secondo me lo è stato per un po’; ora si sta riavvicinando a quello che dovrebbe essere il suo naturale sbocco: il popolo. Esistono tante forme di teatro, è un po’ come nella pittura: l’arte contemporanea è arte esattamente come Mantegna, Picasso. Ci sono certi tipi di teatro che non sono per tutti, perché per goderne bisogna avere delle chiavi di lettura; poi invece c’è un teatro come quello che facciamo noi con il nostro spettacolo “7 minuti” che, se lo viene a vedere una persona che non è mai stata a teatro, lo capisce perfettamente, ma se assiste ad uno spettacolo, ad esempio, di Ronconi, per quanto bello sia, certi meccanismi è possibile che non li capisca. Il teatro, perciò, è come una lingua: bisogna capire i suoi segni e non tutti li comprendono, anche perché non sono stati abituati a farlo.
Forse, proprio per questo, sono pochi i giovani a frequentare il teatro…
Sì, c’è un tipo di teatro che se uno ha quindici-sedici anni, e non è mai andato a vedere uno spettacolo, quando ci va per la prima volta gli viene da dire: “Ma che dicono? Io non li capisco questi? Cosa vogliono da me?”. Forse bisognerebbe comportarsi come per l’arte in generale: aiutare i giovani a leggerla.
Ringrazio Ottavia Piccolo per la piacevolissima chiacchierata.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata