“Dipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non desidero dipingere”
A Villa Manin una meravigliosa esposizione conferisce all’osservatore una visione a 360° di uno dei più grandi artisti del Novecento: Man Ray. Numerose sono le sale contenenti alcuni del lavori più celebri dell’artista dadaista che ha stupito la società del suo tempo e che continua a regalare forti emozioni anche al mondo contemporaneo. I suoi lavori sono un enigma, una provocazione con una punta di follia, follia che prende forma attraverso gli assemblaggi, i disegni, i dipinti e le fotografie. Man Ray è stato – ed è tutt’ora – un artista che ha sperimentato varie tecniche, inventandone anche delle nuove come le foto realizzate senza macchina fotografica (rayograph). Questa esposizione guida il pubblico in un percorso che permette l’acquisizione di una visione totale sia dell’artista che dell’uomo Man Ray, anche attraverso alcune citazioni riportate nelle varie sale.
Prima di definire chi è Man Ray è meglio comprendere il movimento culturale al quale aderisce, ovvero il Dadaismo (il nome è un nonsenso): un anti-arte, una rivoluzione che avviene in ambito artistico dove il tradizionale processo di produzione artistica viene radicalmente ribaltato. Dalla produzione manuale di un prodotto artistico si passa a un atto puramente mentale e concettuale. Questa Avanguardia nasce come reazione alla follia della Prima Guerra Mondiale. Uno degli obiettivi è attaccare questa follia con una follia più sana, creativa, attraverso l’arte che viene concepita come una sorta di gioco, in cui ognuno può esprimersi liberamente. Questo movimento culturale nasce a Zurigo il 5 febbraio del 1916 da un gruppo di artisti tra i quali Hugo Ball (poeta tedesco), Hans Arp (pittore e scultore) e Tristan Tzara (poeta), che si riuniscono al Cabaret Voltaire.
Nel 1918, Tzara scrive il Manifesto Dada: rifiuto del passato e opposizione verso la società borghese.
In poco tempo il movimento si espande in giro per l’Europa, toccando soprattutto quattro città: Berlino, Colonia, Hannover e Parigi, ed è proprio in quest’ultima che Man Ray si afferma nell’ambiente artistico di quell’epoca. Una delle caratteristiche dell’Avanguardia Dada è l’atteggiamento provocatorio degli artisti che, attraverso le loro opere, cercano di creare uno scandalo – appunto, provocare le persone.
Dopo l’incontro con Duchamp, Man Ray inizia a dedicarsi al ready-made (già pronto): consiste nel prelevare un oggetto, toglierlo dalla sua realtà e spostarlo in un altra circostanza, cambiando così il significato semantico della sua funzione.
Una delle opere presenti in mostra che è un esempio di ready-made rettificato (l’oggetto in questione viene modificato) è “Cadeau” (regalo), ovvero il ferro da stiro con quattordici chiodi che è stato realizzato da Man Ray nel 1921 in occasione della sua prima mostra personale a Parigi presso la “Librairie Six”. Tale opera era stata concepita come dono da sorteggiare fra i partecipanti all’inaugurazione dell’esposizione; purtroppo quest’opera davvero originale non ebbe successo e per di più venne rubata.
Non si può non citare un’altra delle celeberrime opere esposte: “L’Enigma di Isidore Ducasse”, che prende appunto il nome da Isidore Ducasse, un poeta francese dell’Ottocento che abbinava oggetti diversi assieme, sempre conferendo a loro un significato erotico. Nei Canti di Maldoror troviamo una macchina da cucire (donna) e un ombrello (uomo) che si incontrano su un tavolo anatomico.
[…] bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o ancora, come l’incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; […] e soprattutto, come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello!
Sono proprio questi versi ad ispirare Man Ray per la realizzazione dell’Enigma di Isidore Ducasse: prende una macchina da cucire (donna) e la copre con una coperta militare (uomo) legata da una corda. L’enigma? La gente doveva scoprire cosa ci fosse sotto la coperta.
Per arrivare a Parigi Man Ray compie parecchia strada: nasce il 27 agosto del 1890 a Filadelfia da una famiglia ebraica. Suo padre, Melach è nato a Kiev ed è immigrato in America nel 1886 per cercare lavoro; mentre la madre, Manya Louria, è nata a Minsk e si è trasferita nel Nuovo Continente nel 1888. Entrambi lavorano come sarti ed economicamente stanno bene; si sposano nel 1889 e l’anno successivo nasce Emmanuel Radnitzky: Man Ray. Nel 1893 nasce il fratello Samuel, nel 1895 la sorella Devorah (Dorothy) e nel 1897 nasce Elka, ed è proprio in questo anno che la famiglia si trasferisce a New York, dove Man Ray inizia a farsi strada nell’ambiente artistico: frequenta molti artisti e incontra Alfred Stieglitz, un grande maestro della fotografia che lo incoraggia da subito e gli insegna qualche trucco del mestiere.
Lascia New York per trasferirsi a Ridgefield (New Jersey) dove sposa la poetessa Adon Lacroix, dalla quale si separa poco dopo. Ritorna a New York dove conosce Marcel Duchamp.
La pittura di Man Ray rispecchia i suoi interessi inclini al cubismo, alle opere di Duchamp e Picabia, al Surrealismo con qualche fantasia erotica per poi passare all’astrattismo.
Nel 1921 Man Ray si imbarca sul piroscafo Savoie che lo porta a Le Havre. Appena arrivato, si reca a Parigi – la capitale dell’arte – dove lo aspettano gli amici dadaisti. L’Europa gli piace molto, e con il passare del tempo si accorge che l’America non gli appartiene, non è il suo mondo: le sue radici sono in Europa ed è qui che l’artista vuole vivere e fare arte.
C’è un aneddoto legato al suo arrivo a Parigi, che merita d’esser citato: quando andò alla dogana per ritirare le sue opere, l’ispettore ispezionò le sue cose; Man Ray ricorda:
“L’ispettore sollevò un vaso pieno di cuscinetti a sfera di acciaio, immersi nell’olio; portava un’etichetta: New York, 1920. Quello spiegai all’interprete, era un elemento decorativo destinato al mio futuro studio parigino; agli artisti capita talvolta di non avere nulla da mettere sotto i denti, e quel vaso mi avrebbe dato l’illusione che in casa c’era qualcosa da mangiare.”
Anche questo vaso (replica dell’originale) “New York, 1920” è esposto in mostra a fianco alla fotografia che ritrae il medesimo oggetto originale.
Negli anni parigini, Man Ray si ritrova in una Parigi piena di vita, dove i musicisti, gli scrittori, i pittori, gli stilisti possono confrontare le proprie idee, esprimersi in un ambiente prettamente consono alla diffusione di ogni tipo di forma d’arte. Anche Man Ray sperimenta, si esprime liberamente in questa città così cosmopolita; inoltre dà vita a nuove tecniche fotografiche: il rayograph e la solarizzazione. Si cimenta anche nelle foto di moda per le riviste “Vogue”, “Vanity Fair” ed “Harper’s Bazar” e si avvicina al mondo del cinema avanguardistico.
Nella mostra a Villa Manin una citazione introduce le fotografie di moda di Man Ray:
“La noia è la malattia del nostro tempo e un buon fotografo deve riuscire a sconfiggerla nell’unico modo possibile: con l’invenzione, con la sorpresa.” – Alexey Brodovitch, Harper’s Bazaar art director 1934-1958”
La fotografia purtroppo non gli permette di guadagnare molto e quindi apre un atelier a Montparnasse. Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale Man Ray decide di restare a Parigi e continua a dipingere, fotografare e a dare vita a lavori artistici davvero stupefacenti. In questo periodo ha una relazione con Adrienne Fidelin. Inizia a scrivere per alcune riviste tra le quali “Minotaure” e incontra molte delle figure di spicco dell’ambiente artistico parigino e non. Il nome Man Ray, inizia ad acquisire sempre più importanza e ad echeggiare, tanto che moltissimi degli artisti d’allora vogliono essere immortalati da lui.
Conduce una vita davvero movimentata e vive un’appassionante storia d’amore con la cantante Kiki de Montparnasse. Molteplici sono le fotografie di Man Ray che la ritraggono; come ad esempio “Le Violin d’Ingres” – esposta in mostra.
La Francia pensa di fermare i tedeschi che sono pronti ad occupare la capitale; per prudenza Man Ray ed Adrienne lasciano Parigi e si spostano in giro per la Francia. Il 14 giugno del 1940 i tedeschi entrano a Parigi. Il 22 giugno la Francia firma l’armistizio, sembra che tutto sia finito invece è solo l’inizio; ma Man Ray, nonostante ciò, torna nella capitale parigina. Il 6 agosto si imbarca per l’America. Si stabilisce a Los Angeles, dove continua a fare ciò che faceva quand’era a Parigi. Espone in gallerie private e nei grandi musei dove la sua arte inizia a farsi conoscere nel continente americano. Nel 1946 sposa Juliet Browner – sua compagna fino alla fine dei suoi giorni.
“Juliet aveva lineamenti fauneschi e due occhi a mandorla che le davano un aspetto vagamente esotico; anche lei frequentava gli ambienti artistici, mi conosceva di nome e aveva visto i miei quadri. Mi sentivo lusingato.”
È un matrimonio un po’ particolare: assieme a loro si sposano anche il pittore Max Ernst e la pittrice Dorothea Tanning. (il dipinto di Ernst “Double Wedding on Beverly Hills” ritrae questo avvenimento).
Anche Los Angeles – come New York – è troppo lontana dal suo mondo, dalle sue radici: nel 1951 si trasferisce di nuovo a Parigi – dove ci resterà fino alla sua morte nel 1976 – assieme a sua moglie.
Man Ray è un voyeur e ciò è quasi scontato per un artista, e in particolar modo per un fotografo.
Immortalare una persona, un momento, con l’ausilio di una macchina fotografica, e quindi guardare dentro al mirino, porta il fotografo a scrutare il mondo che lo circonda restando nascosto; in poche parole il fotografo è un guardone, un voyeur. In questa mostra c’è un’opera che prende il nome di Le Voyeur (1972): una pezzo di legno nel quale è stato inserito uno spioncino; una sorta di macchina fotografica. Nelle opere di Man Ray spesso vi sono allusioni alla donna e allo sguardo – questo perché non vi può essere distinzione fra arte e amore.
La fotografia di Man Ray merita un approfondimento, almeno in parte.
A metà degli anni ’10, Man Ray inizia ad entrare nel mondo della fotografia; apprende tutte le relative tecniche da autodidatta. La sua negazione del professionismo rimane integerrima: più volte ha detto di non voler diventare un professionista, ma di conservare quel certo non so che, quel sapore o meglio caratteristica del bambino, del principiante.
Il primo approccio con la fotografia avviene per la necessità di avere alcune foto per il catalogo di una sua mostra. Solo quando si avvicina al movimento Dadaista americano, il suo modo di fotografare inizia a cambiare e a diventare un mezzo di espressione artistica. È grazie all’incontro con il fotografo Alfred Stieglitz – direttore della rivista “Camera Work” e della Galleria 291 – che gli si aprono le porte al mondo della fotografia e a quello della pittura.
Il primo committente di Man Ray è Picabia; Man Ray nella sua autobiografia ricorda:
“Un giorno Francis Picabia m’invitò a colazione […] A una parete del suo salotto era appesa una grande tela coperta di frasi e firme scritte dai visitatori. Sotto c’erano dei barattoli di colore e mi invitò a firmare […] Mi venne l’idea di fotografarlo, e questo fu un inizio: da allora Picabia mi chiese molte volte di fotografare i suoi quadri. Le mie risorse assottiglia vano, e dovevo ricorrere sempre più spesso alla fotografia.”
Man Ray inizia così a fotografare gli artisti e continuerà a farlo per tutta la sua carriera artistica.
I suoi scatti sono particolari ed innovativi. La futura fotografa di moda Lee Miller, nonché assistente e compagna di Man Ray, a causa di un errore pratico – aveva acceso la luce durante lo sviluppo dei negativi – aveva provocato una sorta di solarizzazione: si tratta dell’effetto Sabatier dove si ha una parziale solarizzazione che ha luogo quando un’emulsione viene illuminata con radiazioni ultraviolette.
Tra le donne che ritrae va ricordata la Marchesa Casati – una delle amanti di D’Annunzio. Come già detto prima, l’artista si cimenta anche nelle foto di moda.
Ad avere un ruolo importante nel periodo storico d’allora sono i Rayogrammi: fotografie create da Man Ray senza l’utilizzo della macchina fotografica.
“Posavo semplicemente il negativo in vetro su un foglio di carta fotosensibile steso sul tavolo, alla luce della piccola lanterna rossa; poi per qualche secondo accendevo la lampada appesa al soffitto e sviluppavo le stampe. Fu proprio praticando questo metodo di stampa che arrivai al mio processo ‘rayografico’, ovvero alla fotografia senza macchina fotografica. Un foglio di carta sensibile intatto, che era finito inavvertitamente tra quelli già esposti con sopra il negativo – usavo far prima una serie di esposizioni, per poi svilupparle tutte insieme – era stato sottoposto al bagno di sviluppo. Mentre aspettavo invano che comparisse un’immagine, rimpiangendo lo spreco di materiale, con un gesto meccanico poggiai un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere graduato e il termometro nella bacinella sopra la carta bagnata. Accesi la luce; sotto i miei occhi cominciò a formarsi un’immagine: non una semplice silhouette degli oggetti, ma un’immagine deformata e rifratta dal vetro, a seconda che gli oggetti fossero più o meno a contatto con la carta, mentre la parte direttamente esposta alla luce spiccava come in rilievo sul fondo nero. […] Avevano un aspetto straordinariamente nuovo e misterioso.”
Il cinema: quattro sono le pellicole realizzate da Man Ray proiettate in mostra a Villa Manin (Retour a la raison, Emak-Bakia, L’Étoile de mer, Les Mystères du Chateau du Dé) Qui una breve parentesi a riguardo.
Nel 1923 Man Ray realizza il suo primo film “Retour à la raison” in una sola notte, utilizzando materiali vari, tra i quali anche dei pezzi che sono stati impressionati con la tecnica del rayograph. Tale film viene proiettato al Théatre Michel durante la serata dadaista “Le Coeur à barbe”, organizzata da Tristan Tzara. In un’intervista, Man Ray ricorda che tanti spettatori si lamentarono del suo film, che secondo loro rovinava la vista a causa di questo susseguirsi di immagini molto veloci e contrastanti.
http://www.youtube.com/watch?v=zwLD5WWQptw
“L’Étoile de mer” è una sorta di poema surrealista di Robert Desons che Man Ray utilizza per realizzare l’omonimo film nel 1928. Grazie ad un filtro riesce ad rendere l’immagine più morbida. La protagonista del film è Kiki – l’amante di Man Ray – e il suo corpo viene reso meno visibile grazie ad una gelatina messa sul vetro e piena di goccioline d’acqua.
http://www.youtube.com/watch?v=6TamgrnVL4s
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata
La mostra è stata prorogata fino al 1° febbraio 2015
Artista complesso e innovativo.