Recentemente, le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno ospitato la mostra “Carlo Saraceni. Un veneziano tra Roma e l’Europa”. Aperta al pubblico dal 22 marzo al 29 giugno 2014, l’esposizione è stata magistralmente curata dalla dott.ssa Roberta Battaglia: un percorso straordinario, che in otto sale ha permesso ai visitatori di affrontare i vari aspetti relativi alla produzione pittorica del Saraceni, grazie al privilegio di poter ammirare alcuni tra i suoi più splendidi capolavori. L’esposizione veneziana ha fatto da immediato seguito alla tappa romana della stessa mostra, fortunatissima per il grande numero di visitatori accorsi. Lodevole la volontà di produrre due cataloghi dell’evento: uno più ampio, di valore scientifico; uno più piccolo, conciso, economico ed utile per guidare il lettore attraverso la mostra, includente anche interessantissimi contributi critici relativi alla produzione del grande pittore. Un’esposizione, quella veneziana, che di fatto ha raccolto le opere che maggiormente sono state oggetto di studio da parte degli esperti nel tentativo di ricostruire il percorso cronologico e stilistico del Saraceni. Si tratta di un autore decisamente complesso: ma, d’altra parte, pensando all’epoca in cui visse e all’ambiente in cui operò ci si rende conto del fatto che la sua esperienza pittorica non poteva che svilupparsi in quel modo. Il panorama romano degli anni in cui “Carlo Veneziano” (pseudonimo del Saraceni) visse nella città pontificia era decisamente vario, ricco di proposte affascinanti. Un percorso, quello allestito nelll’ambito della mostra, che proponeva opere provenienti da contesti chiesastici e da collezioni pubbliche: capolavori giunti soprattutto dall’area nazionale, ma anche dal resto del vasto territorio europeo. In breve, questo articolo si propone di affrontare il complesso dell’esposizione veneziana, scegliendo di parlare delle opere più significative tra quelle presenti. Un omaggio al lavoro magistrale della curatrice Battaglia, da cui questo scritto prende spunto. Utile sarà innanzitutto partire da qualche cenno biografico, relativo alla vita del pittore: chi era quindi Carlo Saraceni, notevole autore la cui attività artistica fu così tanto complessa e proficua? “Carlo Veneziano” nacque nella città lagunare intorno al 1579. La sua famiglia, di origine bolognese, era attiva nel commercio della seta. Non si sa nulla di preciso riguardo alla sua prima formazione in area veneziana. Tuttavia, osservando il complesso della sua produzione, si comprende come Saraceni avesse deciso volontariamente di non seguire la linea maestra dell’arte veneziana (in sostanza, quella dei grandissimi Tintoretto, Veronese, Bassano): la sua attenzione si concentrò invece prevalentemente sulle proposte stilistiche degli artisti fiamminghi e tedeschi attivi in laguna (Pietro Mera, Gaspar Rem; ma anche, soprattutto, i tedeschi Hans Rottenhammer e Adam Elsheiner). Da questi pittori, il talentuoso Saraceni apprese la tecnica dell’olio su rame, che sin da subito mise in opera con grande successo. Seguendo l’orientamento degli artisti nordeuropei, Saraceni decise di trasferirsi a Roma. Il pittore giunse nella città pontificia intorno al 1598-1600: si trovò da subito immerso in un ambiente vivace, dove un impressionante numero di artisti era stato chiamato a rimettere a nuovo le numerose chiese cittadine, in vista del giubileo del 1600. Si trattava di commissioni che arrivavano dalla grande e dalla piccola aristocrazia, oltre che dalle numerose confraternite. Il grande fervore artistico era animato anche dalle nuove proposte, date dalla sperimentazione dei nuovi linguaggi artistici: artisti come Annibale Carracci (promotore di ‘un fresco naturalismo innestato sulle forme ideali del classicismo di matrice raffaellesca’ e attivo in quel periodo presso la Galleria Farnese) e Michelangelo Merisi da Caravaggio (animato da uno stile caratterizzato da ‘conturbante realismo’, apprezzatissimo nel campo della pittura sacra pubblica e privata). Nel primo decennio del Cinquecento, Carlo Saraceni è tra i primi ad avvicinarsi all’arte di Caravaggio, insieme ad Orazio Gentileschi ed Orazio Borgianni. Tuttavia, l’interpretazione che “Carlo Veneziano” fornì dei dettami stilistici tipici del Caravaggio risulta caratterizzata da ‘un timbro più sentimentale ed elegiaco’, ‘da una religiosità interiorizzata e umanissima e da una naturale fascinazione per il colore e per i modelli della tradizione veneziana cinquecentesca’. Un’importante commissione lega la figura del Caravaggio a quella del Saraceni: intorno al 1606, il veneziano viene chiamato a dipingere una pala per la chiesa di Santa Maria della Scala, in sostituzione della rifiutata “Morte della Vergine” del Merisi. La fortuna del Saraceni nello stile caravaggesco arrivò al suo apice nel corso del secondo decennio: fu proprio in tale periodo che il pittore veneziano iniziò a dipingere pale di grandi dimensioni, spesso commissionate nell’ambito di congregazioni ecclesiastiche straniere.
La prima sala della mostra veneziana era dedicata al tema della pittura su rame, quale moda importata dal nord Europa. Vi erano esposti dipinti di piccolo formato, creati dal Saraceni nel corso della fase iniziale della sua carriera: prodotti quindi proprio nel periodo in cui egli si trasferì a Roma. Si evidenzia, in questo contesto, il profondo cambiamento che investì le scelte stilistiche del veneziano in quel periodo: Saraceni passò infatti dai suoi primi passi ancora influenzati dalla corrente manierista internazionale ad una fase differente, incentrata su un approccio legato alla cultura romana classicista di impronta raffaellesca. Si è già parlato di come Saraceni ebbe modo di apprendere la tecnica della pittura ad olio su rame quando si trovava ancora in area veneziana, grazie all’insegnamento derivante dai pittori nordici che vi abitavano durante la seconda metà del secolo XVI. Nella città lagunare, in quel periodo, vi fu la più grande concentrazione di artisti oltremontani provenienti tanto dalle Fiandre quanto dalla Germania (come ampiamente spiegato nella guida alla mostra). Soprattutto nel caso di queste prime opere, possiamo osservare quanto sia forte l’adesione di Saraceni nei confronti dello stile di alcuni fra questi autori nordeuropei: primo fra tutti Hans Rottenhammer (forti affinità con la sua opera sono osservabili nel “Paradiso” di Saraceni), seguito da Adam Elsheimer (affascinante il suo particolare contributo alla pittura di paesaggio, caratterizzato soprattutto da una particolare ‘sensibilità naturalistica’). Per questa sala, scelgo di portare in luce un totale di quattro opere, che nel loro complesso sono altamente significative. Nel “Paradiso” (databile tra il 1598-1600, conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York), si osserva una grande affinità con lo stile del nordico Rottenhammer. Lo schema compositivo in realtà riconduce ad un prototipo frequente nella pittura veneziana tardo-cinquecentesca: tuttavia, come osserva Battaglia, la rigida organizzazione delle schiere celesti e la pittura contraddistinta da una smaltata purezza (un resa astratta dal dato naturale) sono chiari riferimenti allo stile dei pittori oltremontani.
L’ “Andromeda incatenata liberata da Perseo” (1600 – 1605, Musée des Beaux Arts – Digione) è stata con ogni probabilità una delle prime prove romane di Saraceni. Questo importante dipinto conferma una formazione di Saraceni incentrata anche nell’ottica del manierismo internazionale: sono inoltre presenti grossi riferimenti a composizioni di analogo soggetto realizzate del Cavalier d’Arpino negli anni ’90 del Cinquecento. Per confronto con l’opera di Saraceni, è stato esposto in mostra anche un disegno di quest’altro autore: gli elementi riscontrabili anche nell’opera del veneziano sono soprattuttto l’elegante posa di Andromeda e l’impostazione di profilo del suo volto. Notevole è anche una serie di tele, riferite al mito di Icaro, dipinte tra il 1605 – 1608 e conservate presso il napoletano Museo Nazionale di Capodimonte. In particolare, si può segnalare la tela raffigurante il “Volo di Icaro”. Come segnalato da Battaglia, in questo dipinto è instaurata, tra paesaggio e figure, ‘una tensione così percepibile da segnare il punto più intensamente drammatico [d’ispirazione caravaggesca] del paesaggio di Saraceni’. In due tra i dipinti della serie, il sole è rappresentato durante un’eclissi: gli storici concordano sul fatto che possa trattarsi di quella del 12 ottobre 1605, evento che destò particolare interesse negli ambienti che lo stesso Saraceni frequentava. Il dipinto raffigurante l’ “Elemosina di san Martino” (1608-1610, Staatliche Museen – Berlino), è stato definito da Roberto Longhi una ‘piccola favola giorgionesca’. Lo sfondo, visibile al di là delle due figure di Martino e del povero, discende sicuramente dai rami di Napoli: tuttavia, in quento caso, il paesaggio risulta più ampio e addolcito. Il tondo di San Martino era presente nella bottega di Saraceni al momento della sua morte: l’informazione viene confermata dall’inventario redatto subito dopo il decesso.
La seconda sala era dedicata al tema del “Racconto sacro tra Antico e Nuovo Testamento”. Se nel caso dei dipinti della prima sala il paesaggio aveva un ruolo preminente rispetto allo svolgersi del racconto, qui le figure iniziano ad assumere maggiore importanza, anche se lo sfondo continua ad essere piuttosto ampio. Questo cambiamento d’impostazione nello stile del Saraceni avvenne tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del XVII secolo: il vero, grande, spartiacque fu con ogni probabilità il dipinto raffigurante il “Riposo durante la fuga in Egitto”, caratterizzato da figure monumentali. Il periodo interessato è anche quello in cui emergono con maggiore forza gli accenti caravaggeschi nei dipinti, come semplici suggestioni o come ‘citazioni dirette dai dipinti del maestro’. In particolare, nell’ambito delle opere esposte, molto fortunato fu all’epoca di Saraceni l’accoglimento critico del suo “Diluvio Universale”. L’opera, esposta per la prima volta in occasione della mostra itinerante Roma-Venezia, fu all’epoca oggetto di numerosissime repliche. Un’atmosfera cupa caratterizza tale capolavoro, profondamente diversa da quella di ‘serena freschezza primaverile’ che contraddistingue il “Ritrovamento di Mosè’ (d’impostazione ormai carraccesca nell’ambito del paesaggio). Nella sala erano esposti anche alcuni dipinti su rame: si possono ricordare “Giuditta e la fantesca”, l’ “Adorazione dei pastori” e la “Nascita della Vergine”. Segnalo quattro opere di grande importanza. “Il ritrovamento di Mosè” (primo o secondo decennio del secolo XVII, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi – Firenze) è caratterizzato da una quinta arborea che si staglia in controluce sul cielo. Lo spazio è costituito da una continua alternanza tra zone d’ombra e di luce. Troviamo una grande eleganza, ricca di preziosi particolari, evidenziata da una gamma cromatica luminosa (vicina in particolare alla produzione tipica di Orazio Gentileschi). Nella figura della donna anziana, si osservano le tangenze con l’opera del Caravaggio. Nel “Diluvio universale” (fine primo decennio del secolo XVII, Sant’Agata sui due Golfi – Napoli) si riscontra una particolare suggestione derivanti dall’opera dei Bassano. Battaglia evidenza in quest’opera una forte dipendenza dai notturni di Adam Elsheimer (riscontrabile soprattutto ‘nello sviluppo del racconto per episodi disseminati in profondità e nell’effetto spettrale della splendida veduta fluviale in lontananza, accesa di bagliori lunari’). In occasione della tappa romana dell’esposizione, è stata proposta un’altra datazione, che collega l’opera ad una nota di pagamento per un dipinto risalente al 1616. Dipinta su rame è la già segnalata “Nascita della Vergine” (1616 – 1617, Musée du Louvre – Parigi). La composizione riprende quella di analogo soggetto dipinta da Saraceni sul muro della cappella Ferrari in Santa Maria in Aquiro (parte di un’impresa decorativa realizzata tra il 1614 e il 1615). La pratica incentrata sull’idea di diffondere le proprie invenzioni attraverso repliche minori era tipica dell’epoca: questi piccoli capolavori erano eseguiti all’interno delle botteghe e venivano molto apprezzati nell’ambito del mercato collezionistico. Anche la “Presentazione della Vergine al Tempio” (seconda metà del secondo decennio del secolo XVII, Bayerisches Nationalmuseum – Monaco di Baviera) è un dipinto ad olio su supporto di rame. Anche in questo caso si fa riferimento ad un dipinto murale della chiesa romana di Santa Maria in Aquiro. Questo reame, tuttavia, è contraddistinto da una resa qualitativa debole e modesta, molto diversa da quello precedente.
La terza sala della mostra veneziana era dedicata al tema della “Scoperta di Caravaggio”: nell’ambito di questo articolo, è stato già segnalato quanto precoci siano stati i contatti tra Michelangelo Merisi e Saraceni. Precoce fu infatti l’interesse del pittore veneziano nei confronti della particolare poetica caravaggesca. Contatti con il Merisi vengono confermati dal caso, già indicato, del “Transito della Vergine” eseguito per la cappella Cherubini in Santa Maria della Scala. L’opera che è stata esposta in mostra, in realtà, è la seconda delle due versioni del tema dipinta da Carlo Saraceni: l’unica accettata e rimasta ‘in situ’ nella chiesa. Della prima versione, i padri criticarono l’eccessiva prospettiva e chiesero al pittore di sostituirla con una gloria d’angeli. Il quadro ‘rielaborato’ fu realizzato in pochissimi giorni e pagato 300 scudi. La prima versione si trova oggi in deposito presso il Metropolitan Museum di New York. Con ogni probabilità, la critica esposta dai padri era legata a ragioni iconografiche: forse nella prima versione era troppo esplicito il riferimento ad una morte terrena della Vergine che andava a contrapporsi con il riconosciuto miracolo del suo transito in Paradiso (l’assunzione in cielo). Nonostante ciò, la prima versione ebbe un grande successo e fu riprodotta in numerossime copie. Oltre alla pala del “Transito della Vergine”, nella terza sala della mostra erano esposti anche diversi dipinti di piccole dimensioni, destinati a piccole cappelle e vicini allo stile caravaggesco (personalizzato però da Saraceni). Inizio la mia analisi ricostruttiva partendo dall’opera appena affrontata: il “Transito della Vergine” (1610 circa, Santa Maria della Scala – Roma). Come è già stato segnalato, l’opera venne commissionata in sostituzione della rimossa “Morte della Vergine” di Caravaggio, destinata allo stesso altare e smantellata nell’ottobre del 1606. La rapidità di esecuzione di questa tela definitiva, indica (come segnalato nella guida alla mostra) l’impiego di un modello di lavoro e l’esistenza di una bottega saraceniana già attiva in quel periodo. Dettaglio di bottega è sicuramente la gloria angelica raffigurata nella parte alta del dipinto. In mostra era presente anche il rame raffigurante la “Morte della Vergine” (Gallerie dell’Accademia – Venezia), opera dello stesso Carlo Saraceni. Si tratta di una riproduzione in scala ridotta della prima versione del dipinto da collocare in Santa Maria della Scala. La prima opera venne criticata soprattutto per la rappresentazione della Vergine con il capo reclinato, gli occhi chiusi e le mani appoggiate sul petto (di fatto, come già ampiamente esplicato, la Madonna in questa versione appariva ‘morta’). La tela raffigurante “La Vergine e sant’Anna che ammaestrano Gesù Bambino allo Spirito adia Danelon Santo” (1609 – 1611, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini – Roma), nota anche come Pala Lancellotti, era stata scelta come immagine-simbolo dell’esposizione veneziana. Commissionato con ogni probabilità da Orazio Lancellotti per la cappella di famiglia dedicata alla Vergine Maria e Sant’Anna nella piccola basilica di San Simeone Profeta, il capolavoro si contraddistingue per una ‘solida costruzione compositiva ed una pacata monumantalità d’intonazione neo cinquecentesca’ unita ad un naturalismo d’ispirazione caravaggesca declinato in chiave coloristica (priva della drammatica spartizione di luci ed ombre, caratteristica tipica delle opere del Merisi), come viene segnalato da Battaglia. Una suggestione particolare derivante da modelli caravaggeschi si riscontra nella “Giuditta con la testa di Oloferne” (1618, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi – Firenze). Si tratta di una composizione particolare, che all’epoca esercitò molta influenza sugli altri seguaci del Merisi. Si è detto quanto quest’opera sia vicina ai modi del grande Caravaggio: tuttavia, in Saraceni si riscontra un’interpretazione ‘meno cruda’ del tema (lo si osserva, in particolare, nell’atteggiamento dell’eroina). L’opera deriva da una versione precedente, risalente al 1610.
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Nadia Danelon © centoParole Magazine – riproduzione riservata