Mi permetto di darti del ‘tu’. Fra appassionati di fotografia.
Devi.
Che differenza c’è, Marino, fra fotografo professionista e foto amatore?
Non esiste nessuna differenza. Fotografia è emozione, è sensazione. Io sono un fotografo professionista. Un dilettante può fare una foto più bella di quella di un professionista, e quindi mi aspetto di vedere molte foto più belle delle mie; nulla lo preclude. La fotografia è quello che uno ha dentro, l’esperienza maturata, la vita vissuta: la tecnica, poi, si acquisisce con il tempo. La fotografia non è fatta di ‘professionismo’ o ‘non professionismo’.
Nella qualità e potenzialità, nessuna. Tante volte mi chiedo: quali foto potrebbe fare, Pablo Picasso, se si trovasse a creare opere nel mondo di oggi?
È una mia curiosità, un po’ fantastica. La differenza fra un professionista e un amatore, quindi, non esiste: esiste una differenza di intenti nel momento in cui un professionista si vede assegnare un incarico e si vede richiedere un certo livello di qualità per il prodotto che il cliente si aspetta; un fotografo professionista non ha scelta. Un foto amatore è per contro completamente libero, nei tempi e nel livello di risultato: può scegliere. Il contesto del professionista, quindi, di diverso ha solo la pressione psicologica che deriva dall’avere di fronte un particolare cliente e di dover consegnare un prodotto; il professionista non è di per se né più né meno bravo. Il fotografo professionista può avere più ‘mestiere’ nelle sue mani; non parlerei solo di tecnica fotografica, che intendo come una cosa diversa, ma di qualcosa di più completo e sottile che è intuizione, che è ricordo e rapidità … tante cose. Il ‘mestiere’ che hai nelle mani ti permette di sviluppare qualcosa molto meglio.
A ogni modo, il non aver scelta è vero non tanto, per come la penso io, per il professionista che si occupa di ‘Still Life’, o di architettura; se lo scatto non ha la qualità richiesta dal cliente, lo può di solito rifare. Il professionista che fa attualità, che fa sport, non ha scampo; così, come, nella realtà più quotidiana, non ha scampo un fotografo da cerimonia. O chi fa teatro. Se sbagli le foto al matrimonio, non le puoi rifare; la prima rappresentazione non la puoi più rimettere in scena. Il professionista, quindi, può perdere un cliente; perdere un cliente può portare degli squilibri nel suo programma, nel suo piano d’investimento e di crescita.
Se vogliamo rifarci al gioco del calcio: il professionista è sempre in finale e se perdi la partita è dura, c’è una conseguenza. Per un foto amatore, lo scatto è una partita fra amici o, se proprio proprio vuole competere, una partita di campionato: si può perdere, però si può anche vincere, e non è così importante.
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Hai un buon rapporto con i foto amatori? Nessuna gelosia?
Assolutamente nessuna. Io ho grande stima dei foto amatori. E quindi cerco di eliminare subito, alla radice, questa distinzione fra professionista e foto amatore di cui si sente molto parlare. Parliamo, invece, semplicemente di chi ama la fotografia. Come caratterizzazione, siccome oggi tutto è immagine, devi guardare anche e soprattutto le bellissime foto fatte dai foto amatori. Ci trovo tantissimi spunti.
Ami una foto in particolare? Una foto famosa, intendo.
Non si può rispondere ‘si’ o ‘no’. Certe fotografie sono irripetibili: il ‘bacio’ di Doisneau; la foto di Elliot Erwitt al funerale di John Fitzgerald Kennedy, nella quale Jacqueline piange e Robert Kennedy guarda nel vuoto. Irripetibili. Più di questo, al momento, non riesco a dirti su una foto famosa piuttosto che l’altra perché è veramente veramente difficile privilegiarne una.
Quello che mi affascina è l’ ‘oggi’: intendo l’ ‘oggi’ come potenzialità di documentazione e come disponibilità di mezzi. Oggi puoi andare a guardare un’immensa biblioteca e ripescare quella che è stata la fotografia del passato; qualsiasi fotografia del passato. Puoi guardare indietro, anche nella fotografia; è come la pittura, la pittura guarda sempre indietro. E in questo caso specifico Internet, che per me rappresenta l’ ‘Era Digitale’ e che ha cambiato il mondo, permette di attingere a una biblioteca di immagini storiche stupefacente. Un appassionato di fotografia deve sempre guardare nel passato; nella fotografia stessa, nell’arte. Pensa ai colori: prova a immaginare l’arte con l’occhio del fotografo, è qualcosa che a me piace fare. Il giallo di Rothko, le sfumature dei colori di Michelangelo. Le nature morte di Morandi.
Non è un po’ come copiare?
Non ‘copiare’. ‘Attingere’, con rispetto, e cercare di apportare delle innovazioni. Non clonare le foto; non avere un’opera artefatta. Ma usare degli strumenti tecnologici che Henri Cartier Bresson di certo non aveva a disposizione. Siamo fra appassionati di fotografia, e possiamo anche parlare usando qualche termine tecnico: Cartier Bresson si spingeva sui quattrocento e ottocento ISO; adesso puoi scattare a cinquemila ISO, e molto oltre. Cartier Bresson era consapevole di avere quattro ‘stop’, cinque ‘stop’ di sottoesposizione mentre scattava il salto della pozzanghera a Parigi, ma sapeva anche che se quella foto l’avesse esposta correttamente sarebbe uscita illeggibile. Con la tecnologia di adesso, non avresti più quegli inevitabili difetti che vedi nella foto del secolo scorso; poi, si entra nella filosofia del ‘cosa voglio veramente fare’, e nell’inesauribile panorama delle possibili scelte… la tecnologia è la grande risorsa del momento, poi sta in te.
Quindi, tu credi che ispirarsi – anche molto palesemente, se non proprio copiare – sia lecito.
Con rispetto.
Puoi farmi qualche esempio?
Su Facebook ho visto una bellissima foto, una foto fatta da una signora che è poi diventata una mia carissima amica; le ho scritto chiedendole se potessi copiarla. Ottenuto il permesso, l’ho copiata, e nella didascalia della mia foto ho messo il suo nome specificando che la mia foto era ispirata alla sua.
Non credo a chi mi dice che non copia mai; le cose copiate, se dichiarate, valgono comunque. Da questo punto di vista mi sento al pari del foto amatore. Poi, come ti dicevo, subentra il ‘mestiere’: quella capacità di fare bene acquisita dal mestierante. Maradona a ventidue, ventitré anni d’età, era già insuperabile, eppure anche lui aveva attinto all’esperienza dei giocatori più anziani: giocatori con i quali era stato in squadra, o dei quali era stato avversario prima. Giocatori di ‘mestiere’, come Pelè.
Dicono che Maradona fosse avvantaggiato dal suo piede sinistro, e che la sua creatività calcistica fosse accentuata da quella prospettiva differente. Tu che cosa ne pensi?
Io sono un uomo di fede. Penso che ogni ‘tanti’, ne nasca ‘uno’ che ha il dono. Quel dono, io lo attribuisco alla volontà di Dio. Nello sport, nella scienza, nella musica… nella fotografia.
Credo ad esempio che a Trieste ci siano state almeno due persone molto importanti che hanno ricevuto un dono: Lorenzo Da Ponte, che è stato librettista di Mozart e che ha portato la musica lirica in America, e, cento anni dopo, Leo Krauss Castelli, che ha scoperto la Pop Art. In un periodo storico veramente difficile, Leo Castelli è stato il primo a organizzare una mostra che ha messo a confronto gli Impressionisti francesi, e quindi la pittura europea, con l’Arte Moderna americana.
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Marino, hai veramente una grande passione per l’arte.
Si, molto. Ora faccio anche delle cose mie… le chiamo ‘Scarti’. Sono dei manifesti realizzati da scatti che non ho utilizzato per altri scopi. Il primo progetto è stato quello di realizzare quattordici tavole per celebrare l’eccellenza di Trieste e del suo territorio. E ne approfitto per dirti che credo che la fotografia debba mostrare il bello o – è difficile da spiegare in poche parole – il ‘non brutto’. Il putto di Werner Bischof , nel ghetto di Varsavia, vale più, dal mio punto di vista, del miliziano morente di Robert Capa; laddove di Capa, invece, mi piacciono molto i ritratti, in particolare quello di Picasso sotto l’ombrellone. Odio le fotografie che provocano. La fotografia realizzata allo scopo di provocare, dal mio punto di vista, dura lo spazio di una risata. Sono profondamente contrario alle fotografie che provocano, che mostrano il brutto o il soggetto debole per suscitare reazione.
La pittura t’influenza?
La pittura ha influenzato e influenza tuttora tutta la fotografia. Il primo a parlare di ritratto ‘realistico’ è stato Leonardo Da Vinci: non si deve ritrarre una persona rendendola per forza di cose ‘bella’, com’era usanza dell’epoca. Devi ritrarla facendo in modo che si riconosca nel ritratto. Vale anche nel ritratto fotografico: attraverso la foto di Picasso di Capa, ho capito chi era Picasso. Il fotografo ha il compito di documentare e raccontare la storia.
Il cinema e il video possono essere fotografici?
Faccio sempre distinzione netta fra video e fotografia; ora va molto anche il video, però non penso che vadano accostati. Il video segue un evento; la fotografia lo racconta. La fotografia è, idealmente, uno scatto solo. Secco.
Roland Barthes: il fotografo cattura un momento scelto da lui attraverso l’obiettivo.
Una scelta precisa. Un momento irripetibile. Un’espressione, un gesto. E, se non artefatta, la fotografia è un documento. Chi documenta la storia – non io; non è il mio posto, nel mondo della fotografia – ha una grossa responsabilità: la documentazione rimane, e serve poi anche per l’elaborazione di quello che è accaduto e la presentazione a chi verrà dopo.
Da quanti anni fotografi?
Trenta.
Quando hai iniziato avevi già in mente la fotografia come tua professione?
No, assolutamente. Io giocavo a pallacanestro, ero un giovane professionista del basket. Avevo anche la passione per le corse dei cavalli, andavo all’ippodromo a vederle, me ne interessavo e li fotografavo. Ne avevo fotografati molti; uno dei proprietari mi chiese se potessi essere interessato a lavorare per ‘Il Piccolo’, il quotidiano storico di Trieste. Però le raccomandazioni non mi piacevano, così glielo dissi, e mi rispose che non avrebbe fatto nessuna raccomandazione, perché era il proprietario della testata e gli piaceva il mio lavoro fotografico. Era il marchese Guido Carignani. Alla fotografia quindi mi ha portato la mia passione per i cavalli. Avendo la grande fortuna di lavorare per un quotidiano s’imparano tante cose. Il mio lavoro è stato una grossa risorsa, da molti punti di vista.
Marino Sterle, nato e vissuto a Trieste.
Si. Con la pallacanestro, ho viaggiato molto, in Grecia, Spagna, Francia… poi vissuto un anno in Sicilia, due anni ad Ancona, un anno a Bologna… ero molto giovane, quando ho iniziato a essere nel nucleo della squadra avevo quattordici anni .
Quanti anni avevi, invece, quando hai iniziato a lavorare come fotografo?
Ventitré. Ho smesso di giocare pur avendo un contratto già firmato, ma il campionato non era ancora iniziato; avevo giocato anche in serie A1, quattro campionati. La mia vita l’immaginavo come quella di uno sportivo. La pallacanestro mi ha insegnato a credere nella squadra e nel lavoro di squadra io credo molto ancora oggi; non a caso siamo qui assieme a Franco Debernardi. Franco è un collaboratore e una presenza importante nel mio studio, presenza che è diventata parte integrante della mia attività. Lo chiamiamo ‘Mox Societas’ – società in movimento. Proprio perché siamo in due. Due teste ragionano meglio di una, e danno al prodotto ancora più qualità.
Il mio lavoro è molto meno rivolto ai giornali, adesso; mi sono dimesso dal “Piccolo” perché consideravo che dopo vent’anni, nel corso dei quali ho avuto anche la responsabilità di gestire il team di fotografi e il budget di quella parte dell’azienda, fosse venuto il momento di cercare nuove opportunità, nuove cose. Mi manca un po’ la dinamicità di quel mondo, certo; ma ci sono altre cose.
A Trieste c’è tantissima fotografia. Tu che cosa ne pensi, di questa presenza così forte? Pensi che Trieste porti valore alla fotografia italiana?
Tanto quanto il caffè. A Trieste c’è una ‘Università del Caffè’’; io vedo Trieste anche come ‘Università della Fotografia’. Ci sono tanti fotografi di grande valore, vorrei dirti di Monika Bulaj solo per fare un nome; o Giuliano Coren. Massimo Cetin, Giovanni Montenero… ma ti sto facendo solo alcuni nomi, e mi scuso con quelli che non cito. È solo per dirti quanto importante credo sia la fotografia per Trieste. Tantissimi fotografi. Io credo che Trieste meriterebbe davvero di avere almeno un’ ‘Accademia della Fotografia’, se non una vera e propria università.
Qual è il futuro della fotografia?
La fotografia è un linguaggio universale. Più universale della lingua inglese. È un’esposizione mentale. Io credo che Internet e i Social Network vadano molto sfruttati nell’ottica fotografica e di condivisione. Dicono – non lo dico io – che oggi se una foto non è condivisa è come se non fosse mai stata scattata. Sono stato due volte ad Hong Kong; ricordo che al termine della mia giornata di lavoro come fotografo ero ospite a cene organizzate nel corso delle quali davo dei consigli agli ospiti cinesi su come realizzare un’inquadratura fotografica con il telefonino. Quelle foto venivano poi rilanciate subito su Internet, sui Social Network, Facebook, Twitter … Larry Page, il co-fondatore di Google, ha filmato in tempo reale un matrimonio a Motovun in Croazia con i suoi Google Glass, e l’evento è diventato istantaneamente mondiale.
Come hai vissuto il passaggio dalla pellicola al digitale?
Credo di esser stato forse uno dei primi a fare il passaggio, questo perché lavorando per i quotidiani la migrazione al digitale è stata una grandissima e velocissima rivoluzione. Nello spazio di una settimana, a seguito della decisione dell’editore, ci siamo trovati a lavorare solamente in digitale. Il foto giornalista fa del cambiamento continuo e del sapersi arrangiare rapidamente la sua professione; quindi ce l’ho fatta, è stato un passaggio brusco, dall’oggi al domani, ma non è stato un passaggio traumatico. E non è cambiato niente, anzi; trovo che nel passaggio al digitale ci siano stati solo vantaggi. Anche per chi non fotografa per i quotidiani e i giornali.
Non hai, quindi, nostalgia della pellicola?
Guarda, la pellicola sto per riprenderla; ho in mente un progetto legato all’utilizzo del negativo, al ‘negativo su negativo’ come progetto di fotografia artistica e creativa, orientata alle gallerie.
E poi lo studio è stato invitato a partecipare alla Biennale di Torino. Nel 2015 ci sarà un evento culturale legato all’Expo di Milano (da qui la sigla MITO: Milano-Torino). Gli eventi scientifici saranno a Milano, quelli culturali a Torino; per la Biennale di fotografia il curatore sarà Sgarbi, che si è ricordato della mia partecipazione alla ‘Biennale Diffusa’ al Magazzino 26 di Trieste e mi ha invitato a partecipare all’evento di Torino. Parteciperemo come Studio Sterle (Marino Sterle e Franco Debernardi); ho individuato quattro elementi, un’ipotesi che sto considerando è la stampa diretta, ‘specchiante’, ispirata al lavoro del maestro Michelangelo Pistoletto. E, anche, ad Andy Warhol. Esporremo quattro soggetti fotografici che però non vorrei anticiparti.
Tempo di crisi. Che cosa deve fare, un fotografo, per sostenere la sua attività?
Credo molto nell’insegnamento. Credo molto nella qualità. Con budget sempre più risicati, bisogna dare prodotti di qualità sempre più alta. Come si può fare?
Io penso che la strada giusta sia quella dell’inventiva. L’ingegno. Solo i professionisti che avranno molta costanza e inventiva riusciranno a ritagliarsi, nel tempo, uno spazio – e non sarà tanto tempo. Qualità, quindi, che vuol dire anche capacità e saper fare. Una strada può essere anche quella di seguire il mercato delle foto da galleria, che si sta sviluppando sempre di più. Si vendono più foto che quadri.
‘Business Photography’.
Si. Si può comprare un quadro di Music, per restare nella nostra zona, e si sa che rappresenta un buon investimento. Ci sono però cose che sono fatte per rimanere nel Caveau di una banca, purtroppo – come molti quadri di grandissimo valore – e cose che si possono mettere a casa perché piacciono. La foto, anche se di un certo valore, è molto più adatta a stare in casa, oppure alcune riproduzioni e serigrafie. Il mercato delle fotografie sta diventanto sempre più grande. Come ti ho detto, però, ci vuole qualità: non può essere una foto ‘qualsiasi’.
Quanto è importante per una foto, quindi, la qualità della stampa?
Credo che un fotografo per poter accedere a quel livello di qualità che gli permette di farsi avanti debba concentrarsi anche, e molto, sulla qualità della sua stampa. Non può semplicemente appoggiarsi a servizi commerciali, o Web. Così come il risultato di un pittore dipendeva molto dalla qualità, e anche dal costo, dei suoi colori, allo stesso modo il fotografo deve concentrare la sua attenzione su una stampa di qualità e investire in quella direzione. Devi apportare quel valore aggiunto in più, con la tua inventiva e con la capacità di valutare e selezionare una buona stampa. Fai attenzione anche a questa riflessione: se tu e io scattiamo una foto differente e la portiamo a stampare nello stesso posto, è possibile che arrivi quasi a essere una foto uguale. E non è quello che deve accadere. La stampa di un fotografo deve distinguersi e la sua deve risultare una proposta innovativa, nella scelta della carta o del supporto di stampa e nella conoscenza della tecnologia degli inchiostri.
Marino, sei un artista?
Non credo di potermi definire così; sono un creativo. Dalla Regione Friuli Venezia Giulia ho avuto il riconoscimento di Maestro di Fotografia; posso quindi definirmi ‘maestro’, però io mi considero quello che sta dall’altra parte, quello che impara.
Gli ‘Scarti’ – queste quattordici tavole che io chiamo così – li ho fatti per la città, ed esposte in Questura di Trieste; devo ringraziare il questore Giuseppe Padulano per questa opportunità, per questa mostra voluta molto proprio da lui. “Il Piccolo” ha scritto un articolo, per il quale sono stato molto grato; ma, al “Piccolo”, io sarò eternamente grato, perché mi ha insegnato a vivere. Tuttora ho un bellissimo rapporto con il quotidiano.
Questa mostra con gli ‘Scarti’ è stata riproposta ad Hong Kong ed è stata poi acquistata da ‘Trieste Terminal Passeggeri’; sono esposti nella sala ‘Illiria’ della Stazione Marittima di Trieste. Io ho creduto enormemente in questi ‘Scarti’. La visibilità che hanno avuto queste tavole mi ha dato grande emozione, ho poi fatto un secondo viaggio a Hong Kong, e sono stato chiamato a fare un’opera celebrativa per i cent’anni dell’Arena di Verona, per un’opera di beneficenza; il ricavato è andato a ‘Emergency’. Ho poi realizzato uno ‘Scarto’ per la Ferrari, che ho intitolato ‘Drive and Dream’. Montezemolo, nel suo discorso, ha detto che guidare una Ferrari è guidare un sogno – e da qui l’idea dello ‘Scarto’. Andare a Hong Kong è stato un sogno, una fiaba; poi la fiaba finisce, e si ritorna a vivere nel modo di sempre. Può iniziare un’altra fiaba; ora ho dei contatti, proposte, e ancora non sappiamo, ma è un’altra possibile fiaba, e bisogna crederci affinché il desiderio si avveri.
Che cosa consiglieresti ai giovani appassionati di fotografia?
Se credi di avere la passione per la fotografia, devi interrogarti, e chiederti con molta forza: è vero? Sono veramente un entusiasta? La risposta che ti devi dare deve essere secca: si o no. Se hai veramente l’entusiasmo, non c’è nessun consiglio che Marino Sterle ti possa veramente dare. Sarà il tuo entusiasmo che ti porterà a raggiungere l’obiettivo; senza quell’entusiasmo, non ce la farai.
Non basta solo la volontà, la volontà a volte può essere un’imposizione: ‘Voglio che tu faccia!’ (‘Papà, o mamma, vuole che tu faccia il fotografo o la fotografa’; ‘Papà vuole che tu studi arte’), oppure: ‘Voglio fare anche se non sono sicuro che sia la mia strada’. Non è questo. L’entusiasmo è una cosa diversa; vuol dire non guardare l’orologio, non avere nient’altro in testa se non quello scatto che stai per fare almeno per un po’, vuol dire leggere di fotografia fino a tarda notte, essere informatissimo su tutto, guardare tutto ciò che sia immagine, anche i manifesti in strada; provare e provare e provare, senza che sia un peso… sei entusiasta, veramente? Allora fai.
Come fotografa Marino Sterle? Qual è il suo metodo?
La luce devi saperla leggere; questo, per un fotografo, è fondamentale. Per questo consiglio spesso di studiare la pittura; studiando i grandi maestri della pittura impari la lettura e la padronanza della luce. Dato per scontato questo, parliamo per un attimo solo di pura composizione: il mio modo di fotografare è fatto di quinte. Immagina il palcoscenico di un teatro. Li chiamo ‘campi’. Devi osservare il soggetto e soprattutto che cosa sta davanti e dietro il soggetto; mentalmente, poi, devi decidere quante quinte inserire nella tua composizione. Certe volte hai due, tre quinte; certe volte hai solo lo sfondo. Alle volte puoi inserirne anche dieci; non esiste un limite vero e proprio, e le quinte, nella fotografia, danno la profondità. La fotografia è un’immagine bidimensionale, naturalmente, ed è la distribuzione di questi ‘campi’ nel tuo spazio che consente o meno a chi guarda di percepire la profondità.
La profondità è la componente fondamentale di una buona foto. Quando penso a come comporre una foto, vedo davanti a me il palcoscenico di un teatro, con le quinte che si muovono davanti ai miei occhi, e decido quale mi va bene e quale lascio muovere senza catturarla. Quinte, e linee: come settori nello spazio, che daranno poi la sensazione dei volumi anche se la foto rimarrà per forza di cose bidimensionale.
E poi le linee. Cerco e seguo delle linee, anche immaginarie, che mi permettono di uscire dalle regole classiche della composizione – di uscire dai vincoli della ‘regola dei terzi’ e delle altre che si conoscono ormai fin troppo bene, che trovi nei manuali di fotografia. È necessario, qualche volta, trasgredire: cercare qualcosa di nuovo. Ad esempio cercando e trovando due linee immaginarie che rimarranno parallele in tutta la foto, senza mai toccarsi, neppure al di fuori dell’inquadratura, e che ne costituiranno l’asse. Qualche volta mi capita anche di scattare tenendo la macchina fotografica alla rovescia, perché seguo proprio quelle linee.
Quindi: luce, quinte, linee. E, nella luce: i riflessi e le ombre; guardare molto i riflessi e le ombre. Un bell’esercizio, che propongo spesso, è incorniciare i soggetti nell’inquadratura – ad esempio il riflesso di una persona in una pozzanghera che lo incornicia.
E il fotoritocco?
No, lo detesto. La tecnologia per raggiungere un risultato, come una foto panoramica a trecentosessanta gradi, è una cosa; la trasformazione di un viso, ad esempio, è tutt’altro. Sono profondamente contrario a trasformare il viso di una donna per una rivista di moda. Se te lo chiedono – sei un professionista, e, sempre senza dimenticare l’etica, lo fai. Ma non mi piace.
Il tuo genere preferito di fotografia?
Lavorare nella cronaca, per i giornali, mi ha insegnato a fotografare di tutto e a non aver timore di farlo. A volte sento dire, ad esempio: ‘Architettura? No, non posso avvicinarmi alla foto d’architettura, non ho la preparazione …’ – oppure: ‘Eh, ma non va bene, la foto è storta!’. Non è vero; la foto storta può essere buona, e se hai seguito le linee e i punti, e capito l’importanza di luci e ombre, la tua foto di architettura può essere comunque straordinaria. La stessa cosa per un ritratto, o per una natura morta. Non devi avere eccessivo timore, devi esprimerti e cercare di fare del tuo meglio. E studiare. Ho fotografato di tutto, e in tutti i modi: Fisheye, Photo Merge, HDR … campi e controcampi, anche con il grandangolo – soprattutto con il grandangolo. Con rispetto, ma senza timore. Io uso la tecnologia come strumento per raggiungere ciò che ho in mente.
Non hai paura che qualcuno ti possa rubare quei ‘segreti del mestiere’ che hai imparato in questa lunga carriera?
No. Assolutamente. Alcuni miei colleghi coprono la fotocamera con la mano quando scattano; quando c’è qualcuno, nascondono i parametri dal display… poi mi dicono: ‘Tu parli troppo, Marino, insegni in questi corsi, e poi ci ruberanno il mestiere. Ci copieranno! Vanno a fare i lavori e le cerimonie al posto nostro!’
Tanto ci andranno lo stesso, e faranno le foto agli sposi con il telefonino, e su ‘Instagram’ verranno anche belle; e allora meglio insegnare, così almeno ci andranno preparati e faranno ancora meglio.
Come prima cosa, tengo a dire la verità e a parlare apertamente; e, per fortuna, possiamo permetterci ancora di dire che il contesto in cui viviamo in questo mondo è quello di un paese libero, e tutti possono fare tutto. Io cito e mi ispiro a Pistoletto: se qualcuno cita e si ispira a Sterle, non può che farmi grande piacere. Detto questo – il motivo per cui non ho mai paura di raccontare i miei segreti è che dietro la macchina fotografica c’è un cervello: il tuo cervello non è il mio e non è il suo. Per fortuna non siamo tutti uguali. E ci sono due occhi, e anche quegli occhi non sono uguali. E allora io ti posso dire tutto, dei miei segreti … poi ci sarai tu, dietro a quella fotocamera, e il tuo risultato potrà essere ispirato al mio (e ne sarò contento) ma non sarà mai il mio, e viceversa. Forse sarà migliore del mio e forse no, e se sarà migliore del mio forse io vorrò ispirarmi al lavoro che hai fatto tu. Io lo trovo stimolante.
E poi, se vuoi fare il fotografo oggi, devi essere veramente bravo e impegnarti veramente molto. Studio, ricerca, lettura; e tanta fantasia. Altrimenti non sarà nient’altro che una lenta agonia; è solo una questione di tempo. Il mondo dell’immagine si è trasformato, e non puoi far nulla per fermare questa trasformazione. Il telefonino è la fotocamera più venduta: la macchina fotografica più venduta e più usata in assoluto da quando esiste la fotografia. Più delle Reflex, più di qualsiasi cosa – e in brevissimo tempo. E questo è meraviglioso.
Annie Leibovitz.
E non solo.
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