Vittorio Moroni: Kiko e l’adolescenza

Vittorio Moroni - Se chiudo gli occhi non sono più quiMercoledì 8 ottobre è stato proiettato, al Cinema Ariston di Trieste, il film “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, diretto da Vittorio Moroni e scritto da lui stesso e da Marco Piccarreda, che racconta la storia del sedicenne Kiko (Mark Manaloto) orfano di padre, che si ritrova a vivere con la madre filippina e il suo nuovo compagno, interpretato da Giuseppe Fiorello. Un film che fa riflettere, pensare, e che è capace di coinvolgere emotivamente lo spettatore, rendendolo partecipe al mondo diegetico (nel linguaggio della critica, la pertinenza e la coerenza di tutti gli elementi che concorrono a definire e sorreggere la narrazione filmica e il mondo visivo messo in atto dall’opera).

Alla fine delle prima proiezione il regista ha parlato con il pubblico, raccontando qualche curiosità sul film e ringraziando tutti giovani triestini che hanno partecipato come comparse, nonché chi ha, in qualche maniera, contribuito alla realizzazione di questo film, e la Film Commission, che da subito ha sostenuto il progetto. Anche ‘centoParole Magazine’ ha incontrato Vittorio Moroni.

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Vittorio Moroni - Se chiudo gli occhi non sono più quiCom’è nato questo film?

Questo film è nato dal mio desidero di ritornare sul tema dell’adolescenza, che io avevo già affrontato, dieci anni fa, nel mio primo film “Tu devi essere il lupo”, raccontando la storia di una ragazza. Questa volta volevo raccontare la storia di un ragazzo e mi piaceva incrociare le mie esperienze, le mie problematiche irrisolte, con la storia di qualcuno che oggi si trova ad essere un adolescente con tante difficoltà.

Mi sembrava interessante e affascinante esplorare i desideri, i problemi, le aspettative, le prospettive di chi è figlio della cosiddetta seconda generazione, cioè di chi porta con sé due culture: quella d’arrivo, ossia quella del luogo dove vive e quella originaria; Kiko – il protagonista del film – è tutto ciò: conosce due lingue, ha una madre filippina e un padre italiano. È una specie di ponte tra due mondi, ma, allo stesso tempo, è un normale adolescente che vive oggi in Italia e che ha i problemi che ha la maggior parte dei suoi coetanei. Quindi, per me, il punto di partenza era lavorare intorno a questo nucleo. Prima di costruire questa storia, avevo un desiderio di esplorazione, che ho cercato di colmare andando a fare un “tirocinio” di un mese, da studente, in un liceo scientifico di Roma. Per me è stata una bellissima opportunità, anche perché, stando seduto tra i banchi con i ragazzi, era come se certe barriere venissero a mancare.

È stato un momento in cui ho potuto collezionare una serie di informazioni, emozioni, sensazioni, identificazioni, mettere a fuoco certe cose, e soprattutto capire che c’erano delle storie vere, che stavano accadendo oggi, che volevo raccontare.

Mescolate un po’ con l’immaginazione …

Sì, mescolate molto con la mia immaginazione, il mio ricordo …

Quindi per lei conta di più l’immaginazione o la realtà?

Secondo me, dev’esserci una specie di gioco continuo, di braccio di ferro, fra l’immaginazione e la realtà: a me non piace molto avventurarmi lontano dalla realtà, immaginare tutto a freddo, perché sento che l’immaginazione ad un certo punto diventa vuota, non ha più una linfa vitale che la sorregge; al tempo stesso non mi piace descrivere la realtà perché credo che essa faccia di tutto per non essere raccontata. È opaca la realtà, cerca di mettersi delle maschere e quindi va provocata, in modo tale che possa raccontarsi; bisogna sollecitarla, sfidarla, ingannarla ed è con la fantasia che lo si fa. Quindi è come se ci fosse un continuo rapporto dialettico tra la fantasia e la realtà. Questo vale un po’ anche per il mio percorso: io ho fatto il primo film di finzione – con la sceneggiatura, gli attori lo storyboard – poi ho fatto due film documentari, in cui ho seguito le vicende reali, i drammi di un numero di persone che vivevano delle vicissitudini a cui io cercavo di dare una forma, e in “Se chiudo gli occhi non sono più qui” ho cercato di mettere insieme queste due cose: avere un grande apporto, un nutrimento dalla realtà, però dentro un’orchestrazione, una sceneggiatura.

Secondo lei, quant’è importante la curiosità nei giovani?

Secondo me la curiosità è forse uno dei valori fondamentali, ma è anche uno strumento che può essere orientato in varie direzioni. Penso che molte persone, molte figure autorevoli, molti maestri, tendano ad indicare delle scorciatoie e quindi ad attivare la curiosità di chi è giovane verso delle cose utili: “Fai questo perché poi troverai lavoro, fai questo perché questo ti servirà …” In realtà io penso che il tempo dell’adolescenza è quello in cui bisogna porsi delle domande che sono non utili, ma necessarie e che hanno a che fare con il motivo per cui noi siamo sulla terra, chi siamo, in che mondo siamo stati gettati, il perché noi siamo così piccolo in mezzo ad un Universo così enorme. Queste domande sono imprescindibili, secondo me: se uno non se le fa, oppure se le fa ma fa finta di non farsele, le nasconde, prima o poi esplodono come dei non detti, dei non indagati, e si ottengono delle ferite. È come se non si avesse coltivato il centro di gravità, quello che ci sorregge, che ci tiene a terra.

Però è difficile trovare degli insegnanti che ti trasmettano qualcosa, che ti indichino la strada meno ovvia che però può essere la più utile …

Sì è vero, credo che sia difficile essere insegnanti, educatori e forse anche genitori. Ho l’impressione che i genitori che io conosco, che hanno la mia età – intorno ai quarant’anni – o poco più, siano in una grande crisi di ruolo. È come se non sapessero bene come e cosa dire, dove orientarsi; sono più smarriti dei loro stessi figli. Quindi è vero che chi oggi ha sedici, diciassette, venti o venticinque anni, secondo me, ha un compito gravosissimo ma inesorabile: quello di dover sognare da solo o quasi.

E di trovare dei punti di riferimento …

E di trovare, da qualche parte, qualche punto di riferimento, anche se non magari nei luoghi dove uno si aspetta di trovarli.

Com’è stato lavorare con il protagonista, che è un giovane alle prime armi?

Per me è stata una bellissima esperienza e credo lo sia stata anche per lui. Il lavoro che abbiamo fatto è stato un percorso di conoscenza reciproca, molto approfondita, di rispetto, e quindi è stato come un andare verso l’abisso, verso le profondità, verso le acque profonde, sapendo che si stava facendo qualcosa di importante, che si aveva una responsabilità: io nel guidarlo verso quell’esplorazione di sé e lui nell’affidarmi quel mondo e farlo diventare la mia tavolozza, con la quale poter creare il mio mondo, che è il film. Quindi c’era una specie di patto, di rispetto reciproco molto profondo.

Tutto il resto è venuto di conseguenza. Quello che io avevo chiesto a Mark, era di non fingere mai, piuttosto non rispettare la sceneggiatura ed essere se stesso; tutto il resto sarei stato io a doverlo cambiare. Se c’era qualcosa che lui non avvertiva come vero, io avrei dovuto cambiare i dialoghi, la sceneggiatura, la descrizione delle azioni. Se lui decideva di andare verso destra, perché quella era la reazione giusta per una certa situazione, eravamo io, l’operatore e il fonico a doverci preoccupare di seguirlo e non viceversa. Ho cercato di non dire agli attori – cosa che invece avevo sempre fatto nel mio primo film – come muoversi, dove fermarsi. La realizzazione di questo film per me è stata un po’ una mia rivoluzione nel modo di lavorare, che ha generato una grande libertà nel rapporto con gli attori, non solo con Mark (Kiko), ma anche con gli altri.

Quindi di solito lei è piuttosto preciso?

Nella mia prima esperienza di film, forse sì: anche a causa dell’ansia di esordire, di avere un set che è un luogo temibilissimo, dove c’è un tempo molto limitato per fare le cose, e tutto costa tantissimo; quindi, quello che non riesci a fare in un giorno, non riuscirai a farlo il giorno dopo, perché il giorno dopo sarai pieno di altre cose da fare. Perciò l’ansia di dover governare la narrazione, dietro quel tempo, forse aveva fatto sì che io cercassi di prevedere, di controllare ogni cosa in anticipo, di determinare tutto. In questo film ho voluto, pur sapendo che rimanevano valide le preoccupazioni iniziali, cercare di assicurare la possibilità di esistenza a quella vitalità che avevo trovato nel documentario, e volevo che ci fosse anche in questo film, in una macchina sempre a spalla …

Un po’ che indaga, che scruta …

Sì che indaga, che non si sa mai fino in fondo cosa succederà, che è pronta ad andare anche fuori fuoco, ad essere spiazzata per un movimento un po’ brutto, a non avere la continuità nei movimenti per il campo lungo, il campo breve. Questa era un po’ una scommessa che però mi ha regalato tanta inquietudine sul set, ma anche tante sorprese, molte più di quante ne abbia avute nel mio primo film, quello di finzione.

Giuseppe Fiorello - Se chiudo gli occhi non sono più quiLei nello spettacolo teatrale “Penso che un sogno così…” aveva lavorato con Giuseppe Fiorello come coautore; ora invece si trova ad indossare le vesti di regista e di dirigerlo. Com’è stato lavorare con lui in un ruolo diverso?

In realtà è stato il contrario: prima ho lavorato con lui in questo mio ultimo film e poi a teatro. In un primo momento ho collaborato con lui, indirettamente, scrivendo “Terraferma” con Crialese, dove Beppe aveva una parte. Poi ho conosciuto Fiorello sull’isola di Linosa, mentre giravano quel film e abbiamo parlato molto di noi, dei desideri, delle cose che volevamo fare e che non eravamo riusciti a realizzare. Ho capito che in lui c’era una grande attrazione verso personaggi un po’ diversi di quelli che fa normalmente in televisione, che pur essendo diversi hanno un comun denominatore: quello dell’eroe, del personaggio buono. Io invece volevo tirare fuori un po’ quell’anima nera che lui aveva conosciuto da ragazzo nelle strade della Sicilia, e sentivo che a lui piaceva molto essere provocato. Da subito gli ho detto che il personaggio principale del mio film è un ragazzino, per cui lui avrebbe avuto un ruolo secondario. Beppe ha accettato di mettersi alla prova. Io lo provocavo, anche per quanto riguarda il taglio dei capelli, la fisicità, e lui si lasciava provocare. Alla fine mi ha regalato un bel personaggio. Fiorello è noto per essere cinematograficamente buono, anche per i suoi lineamenti molti dolci, che gli impediscono di essere odiato. Il ruolo che gli offrivo io era, invece, quello dell’antagonista, che di solito si odia.

A me piaceva molto l’idea che in questo film non ci fossero i soliti cattivi, gli odiosi, ma che anche i cattivi avessero un lato amabile, e, viceversa, che i buoni avessero un’ombra. Per questo, Beppe mi sembrava perfetto. Dopo questo film, lui mi ha chiesto di collaborare a una follia: scrivere una cosa che avesse a che fare con la sua infanzia e che desiderava tanto. È nato così lo spettacolo teatrale “Penso che un sogno così …” che è una specie di raccolta di memorie ancestrali della sua vita affogata in una Sicilia degli anni ’70, che io non ho conosciuto: sono cresciuto nella Valtellina degli anni ’80 e quindi per me questo progetto era anche un salto geografico, linguistico, perché molte cose sono in siciliano, ma è stato molto bello. Per lui era proprio un viaggio nella sua infanzia, nelle cose che ancora lo turbavano; per me era il tentativo di aiutarlo a raccontare quelle cose belle, con una forma e renderle piacevoli, non solo per lui, ma anche per chi le ascoltava. E poi c’era il filo conduttore delle canzoni di Modugno.

Ultimamente nessuno osserva e nessuno ascolta. Secondo lei, bisognerebbe ascoltare di più, soffermarsi ogni tanto su qualche dettaglio?

Penso che ascoltare sia proprio la prosecuzione della virtù della curiosità: se uno è curioso, è curioso perché sta attento, e se sta attento, vuol dire che ascolta, che osserva, che aspetta le cose, che non dà per scontato che ciò che arriva immediatamente è più importante, ma sa che ci saranno altre cose che bisognerà attendere.
Secondo me, questo è un percorso che arricchisce chi ascolta, che nutre chi ha una curiosità. Io penso che, sì saper ascoltare, sia un grande investimento che noi possiamo fare; come anche saper ascoltarci, però spesso, per saperci ascoltare, dobbiamo ascoltare gli altri: il processo di identificazione in ciò che accade, nei desideri, nei dolori delle altre persone, è l’unico modo di comprendere anche la forma dei nostri desideri. È molto difficile guardare a noi stessi in assoluto. Per questo anche il cinema è una cosa, secondo me, a volte terapeutica: ci sono dei personaggi che hanno una loro vita, una loro consistenza, però lì dentro ci siamo anche noi, ci sono tante cose di noi, e proprio perché le vediamo lì, su quello schermo, ci sembrano comprensibili.

Come mai ha scelto il Friuli Venezia Giulia, per girare il suo film?

Queste zone non le ho scelte subito: ci sono arrivato in terza battuta. La ragione per cui non c’ero arrivato immediatamente è perché nel mio film si parla di caporalato, di manovalanza clandestina e io conoscevo molto bene questi fenomeni in Puglia, un po’ meno bene nel Lazio, ma invece ignoravo che esistessero anche in Friuli. Poi ho fatto delle ricerche ed ho scoperto che purtroppo anche qui esistono e che quindi la storia non sarebbe stata inattendibile, anche dal punto di vista morfologico, climatico, della temperatura, delle anime delle persone. Tutto sommato, tra i tre che ho visto, questo era il luogo ideale per girare, anche perché era il più simile a quello dove ho vissuto la mia adolescenza, cioè il nord Italia.

Era già venuto qui a Trieste precedentemente?

Sì, a Trieste ero già venuto con gli altri miei film. È una città che io amo tantissimo, e non so mai se l’ho capita fino in fondo, però mi suggerisce delle mie idee, delle mie analogie: per esempio, vedo degli angoli che mi ricordano tantissimo Lisbona – un’ altra città che io amo molto, e dove ho girato anche il mio primo film.

Mi piace tantissimo questa contraddizione che c’è tra cose simmetriche e ordinate, un po’ mitteleuropee, e quest’anima terrona (sorride), questo essere un po’ goderecci delle persone, questo essere, a volte, un po’ trasandati in certe cose, non menarsela, come invece magari accade in altre città del nord. E poi mi piace anche questa nostalgia profonda che ha Trieste, e in questo è molto simile a Lisbona; questo ricordare un’epoca d’oro lontana, passata, dove c’erano Joyce, Svevo. È come se fosse un’epoca che ancora illumina il presente.

Sì, è vero! È misteriosa come città …

Molto misteriosa, però è misteriosa senza essere tenebrosa, misteriosa … dolce.

Che affascina.

Si. E poi ha il mare. Una città che ha il mare, per me, è una città diversa da quelle che non ce l’hanno. È una città che mi piace molto. Noi abbiamo girato a Codroipo, un luogo diverso da Trieste – dove, invece, ci siamo passati nel periodo in cui venivamo a cercare gli attori. E a me piace tornarci, in questa città.

Ha un sogno nel cassetto?

Ho diversi sogni nel cassetto. Un sogno che sto tirando adesso fuori dal cassetto – non so però che forma avrà, come si concretizzerà da un punto di vista artistico, ammesso che si concretizzi – è una specie di enorme indagine sulle generazioni precedenti della mia famiglia, su dei rami che si sono perduti, di cui quasi non c’è memoria. Quindi è una specie di saga che sto facendo sulla mia famiglia e che mi sta molto incuriosendo, anche perché sto incontrando delle persone che mi raccontano cose che non avrei mai immaginato e che in qualche modo mi appartengono. Non so esattamente che ne farò di tutto questo, ma sento che lo devo fare.

Ringrazio Vittorio Moroni per l’interessantissima chiacchierata.

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

1 commento su “Vittorio Moroni: Kiko e l’adolescenza”

  1. Film importante quello di Moroni, lo si intuisce anche dall’intervista, perché scruta l’ambiente dei giovani d’oggi, non solo di quelli legati ad un’origine straniera, ma anche di quelli che sono nati in Italia. Giovani che soffrono il momento difficile che vivono, spesso da soli, non aiutati dai genitori o dagli insegnanti. Giovani che devono così affidarsi alle loro esclusive forze, scoprendo da sè ogni cosa, decidendo su un futuro da intraprendere pieno di incognite. Giovani soli, di fronte a decisioni importanti, spesso più grandi di loro, che vivono il più delle volte in ambienti e situazioni non certo a loro tanto favorevoli.
    E poi questo film trova un aggancio col territorio della Venezia Giulia, di Trieste, posto in cui è stato pincipalmente girato, città dal forte richiamo per registi ed attori. La storia della città, quella sua atmosfera ricca di fascino e così particolare, non può non attrarre chi di cinema vive e produce.

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