Valeria Ciangottini: cerchiamo di vivere bene

Valeria Ciangottini. Ph NadiaPastorcichValeria Ciangottini, attrice di cinema, teatro e televisione, non potete non ricordarla nel finale de “La dolce vita” di Fellini. Con una lunga carriera artistica piena di successi, che continua tuttora, la scorsa settimana, a fianco di Giuseppe Pambieri e Paolo Bonacelli, Valeria Ciangottini ha debuttato nel ruolo di Ambra nello spettacolo “Classe di Ferro”, con la regia di Giovanni Anfuso, al Teatro Miela di Trieste (Bonacelli, Ciangottini e Pambieri in Classe di Ferro: uno spettacolo che fa sorridere e commuovere)

Lei è nata a Roma da genitori umbri; ritornava spesso nella terra dei suoi genitori?

Mia madre era di Città di Castello, mentre mio padre e la sua famiglia erano di Umbertide. Sono tanto legata a questi posti, perché ci sono sempre andata. Ci andavo tutti gli anni, un po’ per trovare i nonni, un po’ per trovare degli zii, che stavano lì tutta l’estate. Quando ho potuto, ho comperato una casa che sta a metà tra Città di Castello e Umbertide. Per cui vivo molto in campagna, anche se in alcuni periodi sto a Roma.

E come mai i suoi genitori si erano trasferiti a Roma?

Già mio nonno si era trasferito a Roma, per cui la famiglia di mio padre stava a Roma già da tanto; però siamo stati parecchio anche in Umbria, in una zona vicino a Gubbio. Poi, quando avevo nove anni, ci siamo trasferiti definitivamente a Roma.

Quindi lei è molto legata all’Umbria?

Sì, diciamo che io mi sento più umbra che romana, perché lì ho passato tanto tempo della mia vita.

Come ha vissuto il boom economico?

Ho cominciato a prendere coscienza di questa cosa quando ormai avevo già tredici-quattordici anni. Nel periodo in cui ho fatto “La dolce vita” mi sono resa conto che Roma era meravigliosa, era vitalissima, c’erano posti dove andavamo tutti. Era bellissimo! Per cui devo dire che la Roma degli anni ’60 era veramente straordinaria!

Lei come spettatrice frequentava il teatro già da piccola?

Come spettatrice sì; come attrice ho incominciato nel ’69, nella stagione ’69-’70. Ma io ho sempre desiderato fare il teatro, più che il cinema. Mi interessava di più il teatro.

Come mai?

Come spettatrice mi piaceva indifferentemente sia il teatro che il cinema; come attrice avrei voluto fare il teatro già da valeria-ciangottinisubito: mi sembrava che in teatro si approfondisse tutto, che dovevi essere preparatissima, che non ti doveva sfuggire nulla, perché c’era il pubblico in sala, e tu avevi di più il controllo della situazione; mentre al cinema, il controllo della situazione ce l’ha soprattutto il regista.

E quindi è stata una sua scelta fare teatro; ha fatto dei provini?

Veramente al Teatro San Babila di Milano c’era Fantasio Piccoli, uno scopritore d’attori fantastico. Con lui hanno lavorato tutte le star del teatro; e tanta gente ha iniziato proprio con lui.
Fantasio mi ha cercata già da subito dopo “La dolce vita”; però, io, allora, non mi sentivo preparata, non mi sentivo di affrontare una cosa così. Successivamente mi ha richiamato ancora e finalmente ho detto: “Sì, ora sono pronta!”. Avevo fatto la scuola di teatro, quindi ero pronta per debuttare; anche se il debutto è stata una cosa straziante: mi ricordo che ero terrorizzata, avevo una gran paura, però è stato bello. Così ho cominciato e poi sono andata avanti.

Lei ha frequentato l’Actors Studio?

Sì, l’Actors Studio di Fersen.

C’era una sede a Roma?

Questo maestro, Alessandro Fersen, una persona straordinaria di grandissimo carisma e di grandissima capacità di regista, di maestro, di insegnante, aveva studiato il metodo Stanislavskij, quello che poi è diventato il Strasberg; e aveva portato in Italia questa sua esperienza, aprendo questo studio per attori a Roma.

C’era soltanto lui come insegnante o c’erano anche altri?

No, c’erano anche altri, però lui era quello principale.

E dove avvenivano le lezioni?

Le lezioni avvenivano in un posto in via della Lungara, dove c’era l’Accademia dei Lincei; noi lì avevamo uno spazio. In quel posto hanno debuttato tantissimi attori come Elisabetta Carta, Victoria Zinny, tanti attori che ho conosciuto all’epoca. Era decisamente una buona scuola.

Zona Trastevere?

Sì, zona Trastevere…

Com’era la zona di Trastevere all’epoca?

Era più paese, era divertente. A dire il vero gli americani erano già arrivati, avevano comperato le case, però il posto non si era trasformato più di tanto, non era tutto una trattoria come adesso. Era divertente, era un posto veramente vero, con tutti gli artigiani. Adesso non è più così, anche se Trastevere rimane bellissima. Ci sono dei posti fantastici!

Per “La dolce vita” si è presentata lei al provino, qualcuno l’ha chiamata, ha letto sul giornale che cercavano una ragazzina?

Sì, Fellini disse in televisione e scrisse sui quotidiani un trafiletto abbastanza grandino sulla pagina degli spettacoli, in cui diceva che cercava una ragazzina dai dodici ai quattordici anni. Allora io ho convinto mia madre ad accompagnarmi al provino; mentre a mio padre non abbiamo detto nulla, se non dopo che sono stata scelta. Quando Fellini mi ha vista, ha detto: “È lei!”; poi è passato un sacco di tempo, ho fatto due provini, e finalmente mi ha detto: “Sei tu”.

Cosa rammenta di Fellini e di Mastroianni?

Che erano delle persone deliziosissime. Con me Fellini era come un padre: gentile, affettuoso; già lui era affettuoso di sua natura, e con me lo era particolarmente, perché ero piccola, non sapevo niente. È stata una lavorazione molto piacevole. Mastroianni era una persona veramente umile, gentile, come uno si aspetta che sia.

C’è qualche aneddoto particolare legato alle riprese de “La dolce vita” che si ricorda?

In realtà le riprese erano molto rilassate, erano gli ultimi giorni, e tutti i contrasti e le difficoltà che c’erano state prima non c’erano più. Il film era quasi finito, abbiamo fatto queste scene finali molto più rilassate, rispetto a tutto l’inizio che è stato – penso – più faticoso. Quindi la lavorazione era simpatica, non c’erano contrasti, era tutto piacevole. Ricordo tutto come una specie di favola, anche perché sono passati tanti tanti anni…

Diventare un’attrice in giovane età, come è successo a lei, quali sono i pro e i contro?

I pro e i contro sono che non ne sai nulla, che non sei preparata ad affrontare questa cosa. Io ho avuto una fama esagerata in un’età in cui non sapevo gestirla. Perciò, in realtà, io stavo un po’ in disparte, nel momento in cui avrei dovuto forse fare un salto e andare a Hollywood – mi avevano pure chiamata, ma non rimpiango nulla.
Certo, è chiaro che non hai gli strumenti, nel mio caso non avevo una famiglia che veniva dal cinema, che era in qualche modo nel mondo dello spettacolo: mio padre era ingegnere e mia madre era una casalinga, e non sapevano nulla di questo ambiente, e io meno di loro.
Questa fama esagerata che ho avuto all’inizio – uscivo e mi vedevo sulle copertine dei giornali – mi ha un po’ stravolto, anche se, per fortuna, non sono diventata scema (sorride), perché c’era il rischio che uno si montasse la testa, pensando di essere chissà chi.
Fortunatamente la famiglia smorzava ogni cosa, dicendo: “Ma tanto è una cosa passeggera, meglio che studi”. Infatti, l’unica cosa che mi chiedevano, era quella di continuare a studiare; e così ho fatto fino al diploma.

Lei ha fatto “La Rigenerazione”, un testo di Italo Svevo, con Gianrico Tedeschi. Cosa si ricorda del testo e di Gianrico Tedeschi?

Gianrico Tedeschi è una persona strepitosa, straordinaria da tutti i punti di vista: umani, professionali; insegna a tutti come si deve essere a teatro. È veramente una persona stupenda, che mi ha dato tantissimo e che adoro. Il testo era bellissimo, il mio ruolo, quello della moglie, mi piaceva. Tutti gli attori erano bravissimi; la regia di Calenda era molto bella, molto ben fatta. Mi ricordo un bellissimo spettacolo e sono stata molto felice di farlo.

Ma era venuta qua a Trieste per lo spettacolo?

Ero venuta a Trieste, poi abbiamo fatto una tournée: siamo stati a Napoli, a Firenze, a Cesena…

Cosa ne pensa di questo scrittore triestino?

Svevo? Un genio! A me piace tantissimo, e poi, stare qui, al Caffè San Marco…mi sembra di vederlo. Veramente un grande, grandissimo scrittore.

Quand’è stata la prima volta che è venuta a Trieste?

Io ho viaggiato abbastanza anche da piccola, quindi penso che i miei mi ci abbiano portato quand’ero ancora bambina; però i ricordi di quando sei piccolo sono un po’ confusi… In seguito sono venuta varie volte anche a recitare, oltre che a vedere la città come turista.

Che cosa ne pensa di questa città?

A me piace tantissimo, la trovo stupenda, bellissima, bellissima. Se dovessi scegliere una città in cui vivere, Trieste sarebbe una di quelle che considererei.

Lei ha fatto tantissimi sceneggiati televisivi, c’è qualcuno che ricorda di più, per la parte che aveva, per quello che era successo “dietro le quinte”?

Ricordo “La pietra di Luna”, uno sceneggiato che ha avuto successo. Aldo Reggiani e Giancarlo Zanetti erano i miei due pretendenti; la regia era di Majano. Poi ne ho fatti tanti altri di sceneggiati, mi viene in mente “Anna Karenina”, con la regia di Bolchi, dove io facevo Kitty; ho fatto anche “La tana” di Agatha Christie. Insomma, parecchie cose.

Quanti giorni si provava?

Per fare uno sceneggiato si provava a blocchi e si faceva a tavolino, poi si andava in un grande spazio e si faceva il tracciato. Gli ultimi giorni del tracciato venivano i cameramen, dopo si andava in studio, e i cameramen vedevano tutta la scena di filato – noi recitavamo tutto – e infine si registrava. Così era molto più approfondito, eravamo più bravi, perché si lavorava meglio, adesso si fa tutto in poco tempo.

Che cosa ne pensa delle fiction di oggi?

Ce ne sono alcune che sono ben fatte, come Montalbano che è fantastico; mentre tante altre sono un po’ superficiali: sono scritte un po’ così, e i personaggi sono scontati, non c’è un approfondimento, non c’è la voglia di scavare in qualcosa di più profondo.
La società adesso è molto complessa, non si può semplificare così: semplificare in questo modo non è onesto.

valeria_ciangottiniL’insegnamento che porta nel cuore?

L’insegnamento che porto nel cuore non è tanto qualcosa che mi è stato detto in particolare, anche se, ovviamente, essere onesti, essere perbene, per carità è importante, ma ciò che porto con me è piuttosto l’esempio che mi hanno dato gli altri, ovvero quelle persone, come Gianrico Tedeschi, che mi hanno insegnato anche senza dirmi niente; solamente guardandoli, seguendo il loro esempio, ho imparato molto.

Perché i giovani dovrebbero andare a teatro?

Perché è uno spettacolo dal vivo – e questo già di per sé è fantastico – fatto in quel momento per te da attori vivi. Perché in teatro si approfondisce di più, si sente di più, si percepisce di più, si interiorizza quello che ti dice l’attore.
Per esempio, quando uno va a vedere Amleto, di solito ne esce cambiato e migliorato; sicuramente ti scuote qualcosa, non ti è indifferente. Non vai a vedere una cosa qualsiasi, vai a vedere qualcosa che ti arricchisce.

Quali sono le ragioni che l’hanno portata ad accettare la parte di Ambra in “Classe di ferro”?

Innanzitutto questa parte è molto carina e molto divertente. Lavoro con due grandi attori, con un regista che adoro, che stimo moltissimo, che è bravissimo, quindi ci sono tutte le condizioni per lavorare bene.
Visto che l’età avanza, non accetto tutto quello che mi viene proposto, ma solamente le cose che mi piacciono; faccio una selezione, l’ho sempre fatta, però ora la faccio più che mai: è inutile sprecare tempo, non ne abbiamo più tantissimo (ride).

E com’è lavorare con Giuseppe Pambieri e Paolo Bonacelli?

È una delizia, siamo amici. Ho lavorato sia con l’uno che con l’altro: con Paolo Bonacelli abbiamo fatto i due bambini di “Victor o i bambini al potere” (di Roger Vitrac n.d.r.) e ci siamo divertiti tanto; mentre con Giuseppe Pambieri ho fatto “Il seduttore” (di Diego Fabbri n.d.r.), però molto tempo fa.
Per cui ci divertiamo, siamo amici, i nostri ruoli sono belli. Lo spettacolo andava verificato, e l’abbiamo fatto in questi giorni: abbiamo visto che lo spettacolo piace, che va bene; quindi siamo contenti.

Mi ha colpito molto la scelta della scenografia: molto pulita dal punto di vista cromatico, l’opposto di voi che avete dei vestiti dai colori accesi, che si avvicinano a quelli primari…

Sì, perché siamo come dei vecchi, bambini…

Ed è appunto bellissimo! È una scelta del regista?

Sì, sì, sì, assolutamente.

Immagino che si sia divertita ad andare su e giù per lo scivolo…

Oddio, quando ripetevamo la scena più volte, anche no. Una sera abbiamo fatto tre filate, e alla terza io non ce la facevo più (ride), e ho detto: “Avete mai visto una signora d’età, andare sullo scivolo? No, e ci sarà un motivo…” (ride).

Ma è vero che quando si va più in là con gli anni, si ritorna un po’ bambini?

Non lo so, evidentemente ancora non sono abbastanza in là…(sorride). Io ritorno bambina sempre, perché fare l’attore è anche questo; ma nell’infantilismo, proprio no, non esageriamo (sorride).

E dal punto di vista emotivo?

Non lo so, c’abbiamo messo tanto ad essere maturi, che adesso tornare bambini, no…Diciamo che una parte di gioco c’è, perché è funzionale al mestiere che si fa, ma finisce lì.

Il tema che trattate è la terza età. Un tema molto particolare e attuale, ma poco trattato. Una volta i genitori anziani vivevano quasi sempre a casa con i figli…

Certo.

C’erano queste grandi case, che potevano ospitare anche i genitori. Oggi invece ci ritroviamo ad avere da una parte le persone anziane che vogliono essere giovanili, che a volte si vestono anche in modo…

Sì, ridicolo…

Esatto! E dall’altra le persone anziane che non possono farcela da sole e che quindi vengono messe nelle case di riposo. È difficile trovare una via di mezzo…Come mai, secondo lei, siamo arrivati a questi due opposti?

Secondo me per cinismo. Gli anziani sono respinti in qualche modo ai margini, perché non sono più produttivi. In realtà le persone che contano nella nostra società sono quelle tra i quaranta e i cinquant’anni, quelle che producono, che consumano perché hanno i soldi; il resto – bambini, vecchi – non interessa a nessuno.
In un paese a crescita zero, i bambini dovrebbero essere trattati come i fiori, dovrebbero essere la meraviglia del creato; e invece poi si sentono tutti questi maltrattamenti e cose del genere.
Gli anziani sono una ricchezza, perché portano saggezza e anche serenità, e invece sono messi ai margini, non servono più. Poi, cinicamente, si è scoperto che in realtà servono a qualcosa: sono pensionati, per cui le loro pensioni si possono usare in famiglia, sono i babysitter dei bambini. A quel punto, quando servono va bene, e quando non servono più, che si rimbambiscono, vengono sbattuti da qualche parte. È una società molto, molto cinica e su questo non ci piove. Finché conti, finché ci sei, finché i tuoi soldi servono va bene, quando non servi più, sei da buttare.

È un po’ triste, perché alla fine lo scambio tra le varie generazioni è importante…

Eh, direi!

E ormai i giovanissimi e le persone tanto anziane, neanche si parlano…

Ma neanche s’incontrano…

Ed è un peccato perché le persone più grandi possono insegnare e dare molto ai giovani. Stiamo perdendo la tradizione orale. Ormai non si apprezza più il fatto di stare ad ascoltare una persona anziana che racconta la sua infanzia, la sua vita…

L’altro giorno ho sentito in televisione una famiglia sarda che diceva: “Da noi gli anziani non sono respinti. Noi facciamo delle coltivazioni e per fare bene il nostro lavoro, ci serve l’esperienza e la saggezza degli anziani”. Insomma l’esperienza degli anziani è utile, è funzionale alla conservazione del territorio, e in questo caso all’ecologia.

Forse qui al nord, vivendo in modo molto frenetico, abbiamo perso questo rapporto generazionale…

Anche a Roma, non solo al nord. Ormai dappertutto si vive in modo frenetico e gli anziani vengono respinti. Purtroppo è triste, ma è così. Perciò quelli che sono baldanzosi come me, dicono: “Finché reggo bene e poi magari vado in Svizzera e…”; poi bisogna vedere se lo si farà, ma a questo punto uno non ha dei grandi progetti (ride).

Però è importante mantenersi attivi…

Sì, certo!

E non mollare!

Certo, non bisogna mollare, però, alle volte, la salute e altri problemi ti fanno mollare: non dipende soltanto dalla tua volontà.

Come già detto prima, in quest’epoca viviamo con ritmi quasi impossibili, e ogni tanto sentiamo la necessità di staccare e di ritirarci in campagna in mezzo alla natura. Come mai siamo arrivati a questo punto?

Perché abbiamo reso le nostre città mostruose. Io vivo a Roma il meno possibile, e devo dire, sinceramente, che Roma non è più tanto vivibile. Anche la sua bellezza, uno che ci vive tutti i giorni, non la vede più, perché è affogato dalle macchine. È troppo faticoso viverci: per fare un tragitto, anche di un chilometro, ci vuole mezz’ora, così uno si scoraggia, e si rinchiude in casa.
Non si può vivere così, non è proprio possibile. Abbiamo reso veramente le città allucinanti. Le macchine ci hanno ammazzato. Quella che era la libertà – con l’auto potevi andare dove ti pareva – adesso è una schiavitù.

Ma, in generale, tutte le cose tecnologiche alla fine…

Alla fine ci stanno ammazzando, sì veramente…

Ha un sogno, una speranza?

Di sogni ne ho, ma non tanto rivolti a me: io la mia vita me la sono fatta, e devo dire pure bene, non ho rimpianti; sono contenta della mia vita fino adesso, dopo si vedrà (sorride). Quello che vorrei è – io non ho figli, però ho nipoti, che a loro volta hanno avuto dei figli – non lasciare loro uno schifo di mondo. Vorrei che succedesse qualcosa, che ad un certo punto ci facesse dire: “Basta!”
Questo tipo di sviluppo non va bene, non ci piace, queste macchine ci ammazzano di smog, che poi ci fa venire le malattie. Le macchine elettriche ci sono, e anche le tecnologie per farci vivere meglio. Cerchiamo di vivere meglio, cerchiamo di non ammazzarci, di non soffrire per vivere male. Cerchiamo di vivere bene.

Ringrazio l’attrice Valeria Ciangottini per questa stimolante chiacchierata!

Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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