Un parallelo tra “la tv del dolore” e la tragedia classica

Uno dei fenomeni più endemici della contemporaneità è rappresentato dalla cosiddetta “Tv del dolore”: basta accendere un televisore in qualsiasi ora del giorno per trovare almeno un paio di programmi che eviscerano chirurgicamente fatti di cronaca nera, violenze, soprusi, permeando la narrazione della sofferenza provata da vittime e persone vicine. Esiste una vera e propria metodologia di rappresentazione di questo dolore mediatico che è stata anche oggetto di studio da parte di organi competenti; alcuni elementi diventano essenziali per una efficace comunicazione verso il pubblico, in modo da fidelizzarlo e catturarne l’attenzione dall’inizio alla fine del programma: è necessario, ad esempio, adottare una raffigurazione strumentale del dolore, ottenuta attraverso un’esibizione voyeuristica di pianti, volti affranti; i racconti dei fatti di cronaca nera sono effettuati poi con eccessi patemici, condendo le immagini con testi allarmanti, musiche ed effetti sonori che solleticano l’immaginazione dello spettatore, creando una suggestione empatica con le vittime, anche grazie alla commistione di realtà e finzione, che si confondono, non permettendo più di distinguere dove finisce l’informazione oggettiva e dove inizia la ricostruzione.

Euripide, "Medea", allestimenti scenici del Teatro Greco di Siracusa realizzati da Massimiliano e Doriana (Fuksas, 2009)

Euripide, “Medea”, allestimenti scenici del Teaotro Greco di Siracusa realizzati da Massimiliano e Doriana       Fuksas, 2009
Il tema del dolore e della cronaca nera è dall’origine dei tempi uno dei principi fondamentali dell’intrattenimento: basti pensare alla tragedia greca, uno dei generi letterari di più ampia fortuna della storia antica. La tragedia greca nasce in età classica, V secolo a. C., ad Atene, allora non solo capitale politica ma anche culturale e sociale della Grecia. La tragedia aveva allora un ruolo così centrale nel costume della città da essere consacrate ufficialmente durante le Grandi Dionisie, feste cittadine che duravano sei giorni ed erano aperte da un complesso cerimoniale in cui si celebrava la benedizione da parte della divinità, Dioniso Eleutèreo; le feste avevano un’importanza strategica anche dal punto di vista politico in quanto venivano letteralmente messi in scena i privilegi ed i benefici che la ‘polis’ accordava alla comunità in un’ottica di bene comune: ad esempio venivano fatti sfilare gli orfani dei caduti in guerra; venivano esposti i tributi pagati dalle città alleate; venivano premiati i cittadini più meritevoli: si trattava essenzialmente di una manifestazione del potere imperialistico e militare della ‘polis’ ed un monito nei confronti dei nemici. Da queste informazioni si può intuire la grande rilevanza della tragedia che era l’intrattenimento principale durante le Dionisie: tre tragediografi avevano a disposizione ciascuno un giorno intero per mettere in scena una tetralogia, composta da tre tragedie ed un dramma satiresco.

Pasolini, "Edipo Re", 1967

                                                                       Pasolini, “Edipo Re”, 1967

Tutta la popolazione poteva assistere e le attività lavorative erano sospese in modo che tutti avessero la possibilità di sedere sulle gradinate della cavea dell’Acropoli.
In genere venivano rappresentate storie note al pubblico, attinte dalla mitologia (la saga degli Atrìdi, le disavventure di Edipo e della sua progenie, vicende di dei e semidei, le conseguenze della guerra di Troia), il talento degli autori stava ne rappresentarle in modi nuovi, attraenti e soprattutto attualizzando le tematiche, rendendole attinenti al contesto politico vigente. Attraverso la propria poetica ogni tragediografo rappresentava il dramma dei personaggi, esponendo la loro estrema fragilità umana di fronte all’inesorabilità della ‘týche’, la sorte, che non guarda in faccia a nessuno, tantomeno ai nobili natali (spesso infatti ad essere rappresentato era il destino infelice dell’alta società, perché «le storie luttuose dei grandi commuovono di più», Euripide, “Ippolito”). Molto spesso la rovina dei protagonisti era tuttavia sancita dalla loro ‘hýbris’, la tracotanza, che li porta a peccare: l’uomo, accecato dalla propria fortuna compie misfatti ed empietà solo per soddisfare il proprio desiderio, provocando la sciagura indotta dal dio per punire l’arroganza di un essere finito che vuole sfidare la divinità.

Charles-André van Loo, "Mademoiselle Clairon en Médée", 1760

                          Charles-André van Loo, “Mademoiselle Clairon en Médée”, 1760

La maledizione si può tuttavia abbattere sull’uomo anche perché questi è troppo fedele alla sua natura e non si concede la salvifica ‘metàstasis’, il cambiamento del proprio animo, che lo condurrebbe ad essere riconosciuto come parte integrante del consorzio umano dell’ordine naturale: è il caso dei personaggi sofoclei, caratterizzati da un’esasperazione della statura eroica che li configura come degli ‘outsider’ della società e li condanna ad una dimensione di isolamento e dolore. In epoca più arcaica, la tragedia risente di una forte concezione religiosa arcaica secondo la quale il destino dell’uomo è soggetto allo ‘phthònos theôn’, all’invidia degli dei, che non permettono ai mortali di elevarsi al di sopra dei limiti ben definiti della loro condizione umana e li fanno precipitare nell’infelicità. L’unica via di fuga che ha l’uomo davanti un incontrollabile odio divino è il raggiungimento della saggezza attraverso la sofferenza (il celebre concetto del ‘pàthei màthos’), uno dei cardini dell’ideologia eschilea.

Charles Francois Jalabert, "La peste di Tebe", 1842

                                          Charles Francois Jalabert, “La peste di Tebe”, 1842
La rappresentazione del dolore è quindi uno degli elementi fondamentali della tragedia classica, che viene messo in scena attraverso un elaborato linguaggio composto da forme ritualizzate, senza tener conto di differenze di sesso, età, classe sociale: i personaggi, dopo aver raggiunto la consapevolezza dell’ineluttabilità del loro tracollo e dopo aver perso ogni speranza di una favorevole soluzione, si abbandonano ad un ossessivo lamento della propria sofferenza, senza trattenere nulla, come se la vocalizzazione del loro male rappresentasse un principio di espiazione e sollievo: «per chi si trova nella sventura dolci sono le lacrime, dolci i lamenti luttuosi e la poesia che contiene dolori» (Euripide, “Troiane”). In questo consiste essenzialmente la poetica del dolore e della catarsi tragica e la drammaturgia diventa uno strumento funzionale all’educazione del cittadino che assiste alla sciagura degli eroi: attraverso l’esibizione della sofferenza dei personaggi il pubblico è indotto ad identificarsi in essi e a sentirsi coinvolto in quei drammatici destini; trovandosi di fronte alla contemplazione della nuda vita di uomini dotati di una indicibile grandezza morale privati della fortuna e della felicità, lo spettatore si conforta per i propri piccoli mali e per l’esiguità della propria sofferenza, innescando un percorso di riqualificazione del proprio destino.

Pasolini, "Medea", 1969

                                                                      Pasolini, “Medea”, 1969
Si può quindi intravedere una sorta di analogia tra la cosiddetta “TV del dolore” e la tragedia greca, in quanto l’esibizione del dolore è in entrambi i casi un metodo di intrattenimento e tocca le corde dei cuori, suscitando una compartecipazione al dolore, tuttavia se nella tragedia attica il fine del dolore era educativo e liberatorio, il dolore rappresentato dalla televisione si esaurisce nel suo morboso voyeurismo, indicendo sterili indignazione e sdegno, che si concludono non appena il contenitore mediatico passa da una notizia all’altra, magari passando da una tragedia umana ad una parentesi di frivolo ‘divertissment’, lasciando solo il vuoto spirituale e morale, perdendo ogni valenza didascalica propria della tragedia attica.

Giulia De Luca ©centoParole Magazine – riproduzione riservata

 

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