Stefano Cescon, giovane artista, è nato a Pordenone; vive a Fontanelle(Treviso) e si è diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Vittorio Veneto nel 2008. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia sezione Pittura, completando poi gli studi all’Accademia Cignaroli di Verona.
Perché ti sei iscritto all’Istituto d’Arte?
Sono sempre stato interessato alla pittura; mi sembrava l’unica scelta possibile. Da piccolo l’unica cosa che sapevo fare bene era disegnare. L’Istituto d’Arte me l’ha fatta perdere per strada, la passione …ho perso tempo, diciamo, non scrivere questo però!
Non ti ha dato gli stimoli che cercavi?
Non avendo formazione in ambito di arte contemporanea sei legato ad impostazioni classiche; è colpa del sistema scolastico?
L’ultima argomento che hai studiato di arte?
De Chirico; era l’ultima cosa davvero interessante.
E dopo, all’Accademia, hai potuto studiarla?
Si. Ho seguito Arte Contemporanea, primo e secondo esame, ma ho scoperto successivamente che l’arte contemporanea si impara con l’esperienza pratica e visiva e non dalla teoria. Poi, se un artista ti piace, ti documenti, ma l’interesse per la pratica pittorica non nasce leggendo libri. Nasce guardando le opere di altri artisti, è un po’ come rubare il mestiere dal tuo vicino di banco.
L’arte stimola l’arte quindi?
Si, ogni artista cita per dare forza al suo lavoro dal lavoro altrui, in un certo senso non c’è niente di veramente “originale”, essendo noi inseriti in un determinato contesto culturale é normale che prendiamo a piene mani da un bagaglio di informazioni visive che appartengono al passato o alla contemporaneità, in modo consapevole o meno l’artista è solo un veicolo espressivo del contesto in cui vive.
Figurativo o astratto?
Di base figurativo. La pittura per me non si distingue tra figurativo o astratto, le due cose possono integrarsi. Ciò che mi interessa in questo momento nella ricerca è integrare il corpo umano con lo sfondo in cui si svolge la scena.
Come hai iniziato questa ricerca di integrazione tra sfondo e figura?
Quando dipingi non c’è mai un passaggio, un distacco, te ne accorgi perché hai scoperto casualmente una nuova strada, un nuovo linguaggio. C’è un momento in cui provi a seguire una strada che non hai ancora battuto. In questo momento sto cercando di staccarmi dall’immagine di partenza perché mi da’ dei limiti: mi sento legato alla sua rappresentazione reale, mentre vorrei dare più forza alla pittura, al gesto ad una forma che sia libera dal supporto che uso, che ho sempre avuto e che mi ha dato lo stimolo visivo, come una fotografia. Sto scoprendo come le immagini fotografiche di bassa qualità mi aiutino in questo percorso, e mi sento più libero nella sperimentazione (è un ‘modus operandi’ – una maniera di operare).
Lo stato d’animo influenza i quadri?
Sicuramente, credo in certi casi si possano riconoscere le fasi legate al sentire dell’artista in un’opera pittorica, tante opere nascono dallo spaesamento , dalla non chiarezza, dalla confusione. L’ultimo quadro l’ho fatto perché mi sono sentito bloccato dal punto di vista pittorico, mi son sentito di non dover seguire degli schemi mentali, ero insoddisfatto e ho realizzato una piccola tela cinquanta per quaranta, un formato perfetto per schiarirsi le idee. I formati più piccoli li uso come se fossero una riflessione. Un artista deve dipingere il più spesso possibile, se lavori ogni giorno la tua pittura si evolve anche se non ne sei consapevole. Adesso sono di fronte ad una tela, parto dipingendo e il risultato finale cambia in corso d’opera in base alle intuizioni che la stessa può darmi.
Quando capisci che un quadro è finito?
Quando seguo il mio metodo tendo a risolvere l’immagine in maniera veloce, più tempo ragioni sull’opera più tende a diventare costruita.
Fai schizzi prima di iniziare un quadro?
Si, faccio lo schizzo, parallelamente ricerco sul Web, su Google immagini che hanno attinenza con quelli che faccio, immagini che ritengo interessanti. Ad esempio poco tempo fa mi sono imbattuto in un volto plasmato dalla chirurgia estetica, sotto i ferri: mi interessa come il volto si disgrega, si presenta ogni volta in maniera diversa. Trovo immagini che presentano il volto o il corpo in maniera diversa.
La ricetta della tua pittura è?
Stimolo visivo e casualità.
E i titoli, come li scegli?
I titoli si danno quando pensi che ci stiano a pennello. Ma non penso al titolo quando dipingo; è l’opera che ti rivela quando c’è bisogno di una riflessione in più, perché alcune volte l’opera basta a se stessa e il titolo non serve. Il titolo è qualcosa in più che agevola l’opera e il suo messaggio ma a volte la può danneggiare.
Dimmi qualche titolo delle tue opere che ti viene mente?
‘Sign of the time’.
Com’è nato?
È nato casualmente, ascoltando un brano musicale degli anni 80. Stavo dipingendo, e mi sono accorto che nell’immagine si notava un’onda, una chiazza data dal colore diluito che tende a dissolvere il volto. Lo stesso volto sembrava fosse stato sottoposto ad una partizione, sembravano due persone unite nello stesso volto, l’espressione sui due volti era diversa ma faceva parte dello stesso volto. Nella terza parte quest’ultimo è dissolto dalla forza cromatica; perché questo titolo mi chiederai… perché questo quadro è come se fosse un processo in divenire: il tempo porta ad un dissolvimento e ad una trasformazione del personaggio. Il segno del tempo appunto.
Il titolo del dittico ‘Mr. Charles Seaboldt’ viene dal film ‘Detachment – Il distacco’, Charles è uno dei personaggi del film, mi ha colpito, mi piaceva la sua personalità. Ho fotografato un frame e l’ho riportato in pittura. Il titolo non nasce da metodiche standard, o ti nasce spontaneo o non ha senso di esistere.
Cosa pensavano della tua pittura all’Accademia?
Il primo anno dovevo trovare una mia strada; il secondo anno ho cominciato a fare i primi ritratti, ma seguivo una ritrattistica di stampo classico, era un limite per me. Dopo l’Accademia mi sono sentito libero di esprimermi come volevo, con autocritica, ogni pretesto era utile per imbrattare una tela, L’Accademia mi ha insegnato a non cadere in stereotipi, a non accontentarsi, a capire la direzione in cui la tua pittura ti può portare. All’Accademia comunque non importa veramente cosa dipingi, ma come riesci a dare una tua interpretazione.
Cosa pensi della fotografia?
Non mi dispiace. La concepisco come qualcosa di più concettuale, è una rappresentazione del reale e quindi è legata al mondo fisico, ma ci sono anche fotografie che lo superano grazie alle nuove tecnologie. Io non ho le basi. La pittura la sento più spontanea, e posso avere accesso alla costruzione dell’immagine; non sono costretto ai limiti tecnici della fotografia, non vorrei sbagliarmi ma credo che la fotografia richieda una certa concettualizzazione dell’immagine perché possa essere densa e carica di significati. La pittura mi aiuta a descrivere più velocemente l’idea che ho in testa. Oggigiorno la fotografia ha più spazio all’interno del mondo dell’arte contemporanea rispetto alla pittura però; dal punto di vista del mercato la ragione ti impone di lavorare con la fotografia, per onestà espressiva scelgo la pittura, non sento l’esigenza di sperimentale la fotografia.
Quindi c’è ancora spazio per la pittura?
Credo di si, la pittura ha ancora qualcosa da dirci, ma non deve essere schiava del mercato bensì espressione dell’artista che la produce, non bisogna guardare la singola opera – che rende riconoscibile l’artista – ma il suo percorso, è li che l’artista da’ l’idea di cosa intende per pittura.
Non devi fare quello che non senti.
Serena Bobbo centoParole Magazine © 2014 – riproduzione riservata
Stefano Cescon ha partecipato alla mostra bi-personale a Casa Cima da Conegliano con l’artista Piero Paolo Lucchetta curata da Carlo Sala.
Vincitore nella sezione Pittura di “Satura Prize” 2013.
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