Oltre lo sguardo. Ovvero: perché è importante andare alle mostre di fotografia.
Steve McCurry. Come si fa a recensire una mostra di un personaggio come Steve Mc Curry?
È uno dei fotografi viventi più importanti che ci siano e viene sempre più spesso presentato come “iconico”. Fotografie come ‘Ragazza Afgana’ (diciassette anni dopo questo scatto sappiamo che si chiama Sharbat Gula) sono arcinote, e il lavoro eccezionale per Magnum e National Geographic lo ha reso uno dei fotografi più riconoscibili che ci siano, per taglio ed emotività.
Non ho alcuna speranza e nemmeno ritengo il titolo per parlare delle foto di Steve Mc Curry. Questo penso mentre vado. Ma non posso non scrivere di quello che vedrò. È, forse, il mio fotografo preferito, e ho una certa emozione a confrontarmi con le sue foto stampate in grandi dimensioni e non su un libro o, peggio, sullo schermo di un computer. Ho deciso di andarci armato di occhi e pancia. E naturalmente di una macchina fotografica.
La mostra, che durerà fino al 6 aprile 2015, si trova alla Villa Reale di Monza, un luogo che meriterebbe, anche senza l’opportunità di una mostra, una visita attenta. Si tratta di più di cento foto in un percorso che permette, grazie all’ausilio di una audioguida, di essere accompagnati dal commento di McCurry stesso.
L’impatto con la mostra è forte, soprattutto venendo da una giornata invernale brianzola, cioè bianca di nuvole e umidità che appiattiscono i colori.
A metà della rampa di accesso alla mostra, sulla scala di ingresso monumentale in stile neoclassico, si staglia, alto almeno quattro metri, il volto di uno sciamano della tribù Rabani, una delle foto più celebri e conosciute di McCurry e scelta anche come immagine di copertina. Occhi intensi, barba e capelli tinti di arancione brillante: se si voleva creare un impatto forte con il visitatore, il risultato è pienamente riuscito. Osservo alcuni visitatori entrati subito dopo, e questi ripetono il mio stesso comportamento: si allontanano, si avvicinano e poi si allontanano ancora per osservare quella fotografia, quasi trascinati.
L’esposizione si sviluppa lungo il corridoio di una delle ali della villa, e nelle stanze attigue, affrescate, tutte recentemente restaurate. Lungo il corridoio, una serie di vecchie scale a pioli, assemblate in lunghezza in modo contorto, sostengono le foto, mentre nelle sale strutture altrettanto semplici ed asciutte si ergono al centro, a volte sostenendo le grandi fotografie sfuggendo al perpendicolare, costringendo l’osservatore ad uno sguardo che non può essere distratto. Lo spettatore spesso si vede costretto a cercare la fotografia; non ci passa accanto.
L’allestimento curato dal designer Peter Bottazzi, se funziona molto bene nella maggior parte delle sale (ci sono un paio di eccessi di ardimento stilistico), va un po’ meno bene nel corridoio. L’intento di non sovrapporsi troppo né all’architettura dello spazio della Villa, tantomeno alle fotografie dai colori esplosivi, è chiaro, e riesce; in termini di accessibilità per lo spettatore, va un po’ meno bene, mi ritrovo più di una volta in un cul de sac di visitatori attratti dalla stessa foto e il senso in cui si sviluppa il percorso (perché un percorso preciso c’è) scompare. E questo è il mio unico appunto alla mostra: non accoglientissima, anche se esteticamente riuscita. Non sono un designer, non sono un architetto, non voglio fare il pretenzioso, ma se ricordo bene uno degli elementi saldi del design dal Novecento – l’attenzione alla razionalità – a tratti, vacillo.
McCurry cattura. L’intensità dei suoi colori, dei visi che ha trovato e raccontato; la traccia del suo viaggio trentennale, praticamente ovunque nel mondo.
L’audioguida ti accompagna con la voce di McCurry in sottofondo a quella del traduttore, e mi ritrovo spesso a cercare di cogliere il suo tono d voce più che ad ascoltare la narrazione di dove, di come, dei retroscena di uno scatto, della storia che narra. Mi accade per l’inconfessabile dubbio che alcuni dei suoi scatti fossero solamente prodotti ben costruiti ma non davvero sentiti. La realtà è ben diversa, e mi tranquillizza, rendendomi certo al cento per cento di quello di cui ero quasi completamente sicuro: sono tutte foto cercate con estrema emotività e molto sentire, perché è quello che si percepisce ascoltando il suo tono di voce.
Ovunque ci si imbatte in foto che già immaginavi sue – e che si rivelano effettivamente tali. Emotività, contrasti marcati e una grande capacità di cogliere i volti, lasciando l’impressione di una complessa narrazione in ogni segno del viso o un una certa nota in uno sguardo. Sono soprattutto ritratti di povera gente, di persone che lavorano, che hanno una idea distantissima dalla nostra di cosa sia vivere: dignità forti a cui McCurry rende omaggio e con cui ci mette in contatto, costringendoci a confrontarci in maniera non asettica con angoli di un mondo che non vedremo mai, sormontati dal nostro stesso cielo. Guardandoli, una frase come “Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te” suona assolutamente naturale, per nulla forzata.
Soffermarsi sulla descrizione delle foto presenti non ha senso particolare quanto ne ha invece evidenziare il come questo evento sia la dimostrazione dell’importanza che ha andarle a vedere, le mostre fotografiche, appena se ne ha l’opportunità – senza limitarsi a conoscere i fotografi che a buona ragione possono essere considerati “maestri” attraverso Internet o l’editoria.
L’impatto di una foto stampata è completamente diverso. Coinvolge e stupisce, amplifica le sensazioni che una fotografia può dare e che pensavamo circoscritte in una banale osservazione del bello o della capacità narrativa che ci viene da una raffigurazione in scala ridotta. Servisse una dimostrazione racchiusa in una sola foto, basterebbe quella che McCurry ha scattato nel 1991 e che didascalicamente si intitola “Cammelli e giacimenti di petrolio, Kuwait 1991”. L’immagine dei giacimenti di petrolio in fiamme che eruttano fuoco e fumo nero di sfondo ad una colonna di cammelli che scappa, a seguito della ritirata irachena nel conflitto col Kuwait, in cui furono dati alle fiamme tutti i pozzi petroliferi che capitavano a tiro, rende perfettamente l’idea dell’immane disastro ambientale di quel periodo. Lo fa anche guardando la foto a dimensione schermo, ma un pannello di un metro e venti per un mento ti ci proietta dentro.
Ogni singola foto ci racconta di come ogni singolo reportage sia sì ragionato, pieno di metodo e pianificazione, ma anche – e soprattutto – di come il McCurry sul campo sia in grado di essere empatico con il contesto e la gente che incontra. Cartina di tornasole di tutto questo è un servizio effettuato per il calendario Lavazza (presente tra gli sponsor): foto bellissime, preparate e splendidamente scattate, con la capacità di cogliere le sfaccettature ed i colori del mondo, e ancor più del sud del mondo – ma non hanno la stessa forza narrativa e soprattutto lo stesso impatto emotivo delle altre. A livello di puro sentire, di semplice ascoltare la suggestione di una narrazione e di un pathos, non hanno, queste selezionate per il progetto Lavazza, la stessa forza delle altre.
Fuori dalla mostra, gli occhi pieni che ricordano ancora i colori, e l’ inevitabile, ineluttabile voglia di viaggiare (non di andare in vacanza). Perché è bella, perché è Mc Curry (si, sono un po’ partigiano), perché la mostra è la dimensione migliore in cui osservare una foto in un formato che le renda giustizia.
E vi lascio con una piccola curiosità. Tra le foto è presente anche un ritratto di Robert De Niro scattato nel 2010 con l’ultima pellicola Kodachrome che sia mai stata prodotta, uscita dalla fabbrica nel 2009. Mc Curry, che la considerava in assoluto la miglior pellicola mai prodotta e la sua preferita, ottenne che l’ultima fosse sua. E la utilizzò per fare un servizio su New York. E sui Newyorkesi.
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