Riqualificazione di Piazza Della Libertà: una riflessione.

Di Giulio Campos

 

Procedono i lavori in piazza della Libertà per il restyling complessivo dell’area, come annunciato da tempo e come i triestini hanno potuto rilevare per due sgradite sorprese che questi hanno recato con sè, forse inevitabilmente: i disagi del traffico e la scomparsa di un filare di alberi di alto fusto davanti all’edificio del Silos.
In mezzo all’area ora sottosopra si erge il fabbricato della vecchia stazione delle autocorriere, trasformata una trentina d’anni or sono in teatro col nome di Sala Tripcovich. Sul suo destino -abbattimento o restauro- si è acceso un dibattito piuttosto interessante, non tanto per la solita partigianeria più o meno isterica in merito ad qualsiasi argomento, faziosità nella quale gli italiani sembrano indulgere con vera passione, ma per la riflessione che porta sul concetto di tutela, su cosa cioè vada tutelato, con quali criteri e perchè, molto al di là della vicenda in questione.
La Sala Tripcovich sorge nell’area di Piazza della Libertà, già Piazza della Stazione, un’area urbanizzata relativamente tardi, come abbiamo visto nella passeggiata (Articolo QUI), a partire dalla metà dell’Ottocento e più segnatamente negli anni Sessanta e Settanta di quel secolo. Sono gli anni di gloria dell’Eclettismo, in architettura, quelli in cui le città europee si rinnovano profondamente, Haussmann inventa la Parigi dei boulevards, a Vienna il Glacis (l’enorme spianata attorno alle mura) scompare sostituito dalla Ringstrasse ecc. Per motivi legati alla difficile morfologia del luogo e al prezzo dei terreni edificabili, la città di Trieste in gran crescita resta provinciale rispetto a tutto questo. L’urbanistica dei borghi che sorgono è quella intensiva di speculazione (pensate alla zona da Chiadino a Barriera, attorno all’Ospedale e prima ancora al Borgo Franceschino, quello attorno al Viale dell’Acquedotto (oggi viale XX Settembre). Le poche piazze sono spazi irregolari di risulta dove differenti ‘griglie’ stradali si incontrano (piazza S.Giovanni, piazza della Zonta, piazza Dalmazia). A Trieste, in soli due episodi la magniloquenza ‘internazionale’ della nuova architettura e urbanistica eclettica ottocentesca si realizza pienamente: piazza della Stazione (Libertà) e piazza Grande (Unità d’Italia). Non a caso sono due piazze: realizzare una strada altrettanto rappresentativa sarebbe stato troppo costoso: via del Torrente (Carducci), coperto il torrente, stenterà sempre ad acquisire il volto di rappresentanza che si voleva, chiusa in fondo dalla strettoia di via del Solitario e via dell’Arcata (all’altezza di oggi si trova il Mercato Coperto). Il nuovo tentativo di un ‘boulevard’ monumentale messo in atto dal fascismo (via del Teatro Romano) naufragherà per la carenza di interesse privato e investimenti, per poi venire stroncato dal conflitto mondiale, lasciandoci in eredità un’opera inconclusa e la perdita della parte più significativa della Trieste medievale.
Non a caso due piazze, quindi, e non a caso due piazze in particolare: quella maggiore, dove insistono i palazzi del potere ma soprattutto quelle due che fanno da ‘biglietto da visita’ della città cresciuta, una come accesso monumentale dal mare, l’altra come accesso da terra (la stazione di Trieste è stazione di testa, capolinea della linea che mena a Vienna e ispirata nell’aspetto, ma in dimensioni minori, alla stazione di testa viennese, andata poi distrutta nel secondo conflitto mondiale).
Piazza della Stazione viene risolta urbanisticamente sin dall’origine con due ampi giardini cancellati , prima aperti sul mare, poi chiusi verso il porto dall’accesso monumentale al medesimo. Su di essa si ergono le dimore imponenti e lussuose di alcuni dei più ricchi magnati dell’epoca, greci e sloveni soprattutto, costruite in quello stile eclettico decisamente austriaco che dà oggi forse più di altre peculiarità l’aria ‘europea e internazionale’ di Trieste.
Uno sguardo a piazza della Libertà prima dell’ultimo recupero degli anni Novanta, vede: il giardino a mare sparito e sostituito dalla mole della Stazione delle Corriere. Il giardino a monte diviso in due da una strada asfaltata: un lato occupato dall’edificio della Mensa (ora demolito), l’altro infestato da bancarelle per gli acquirenti di oltre confine, di fatto sottratto alla fruizione dei cittadini che non vi si avventurano e fonte di un panorama non proprio idilliaco. La piazza è illuminata da lampioni altissimi al neon da parcheggio in stile vagamente sovietico, di rara bruttezza ed è uno spazio quasi ‘alieno’ al tessuto urbano cittadino.
La comprensione della valenza di quello spazio come ‘biglietto da visita’ per il viaggiatore -cosa vera oggi come centocinquant’anni fa- e la generale attenzione per il recupero urbano hanno portato a una situazione nettamente migliorata, cui oggi la Giunta Comunale intende mettere ulteriore mano, risolvendo i nodi rimasti e le criticità emerse nel frattempo.
Uno dei nodi, come si è detto, è la Sala Tripcovich: fermiamoci ed osserviamola spassionatamente. L’edificio è una costruzione utilitaristica realizzata con un’edilizia non monumentale ma povera, in modo persino eccessivo per quelle che erano in genere le ambizioni del Regime a Trieste, e sorge il dubbio che una certa ostilità a quei tempi verso quell’ambiente urbanistico possa aver avuto qualcosa a che fare con ciò. Nonostante qualcuno vi abbia ravvisato, non senza un po’ di snobismo, caratteristiche di alta architettura non è un’opera memorabile certamente. La mano comunque sapiente di Nordio si nota solo in alcune soluzioni, come la mancanza di una vera e propria facciata verso la strada e la risoluzione del problema della pesantezza visiva dell’hangar. Nonostante il volume inferiore, il fabbricato più importante e curato è quello dell’entrata e biglietteria, realizzato con una ampia curva dove il tema -allora modernissimo- delle finestre a nastro è risolto, per povertà di mezzi, con una successione di finestre verticali affiancate divise da sottili pilastri. La parte più voluminosa della stazione, l’hangar delle corriere, viene lasciata volutamente sottotono, aperta sui due lati per il passaggio delle medesime. Un dettaglio elegante era il grafismo dei tre sottili fasci littori verticali a metà della facciata dell’hangar (più o meno dove ora c’è lo stemma cittadino) che con proporzioni assai indovinate interrompevano la pesantezza e l’orizzontalità eccessiva della costruzione, un tocco semplice e elegante di risolvere otticamente quel volume (naturalmente stiamo parlando del lato estetico senza alcun riferimento a ciò che quei simboli rappresentavano).
Di tutto ciò resta poco o nulla: la selva di sovrastrutture metalliche per l’impianto di areazione sopra il fabbricato passeggeri, la chiusura dell’hangar con un tentativo di monumentalizzazione forse divertente ma assai goffo, la sparizione del grafismo sul fronte hanno del tutto alterato le proporzioni che avevano senso, pur nella povertà utilitaristica della costruzione, proprio nel loro delicato equilibrio. Il degrado e il gusto discutibile, pur nella sua ironia, della ‘facciata’ con la tenda teatrale o dell’interno ‘finto-neoclassico’ fanno il resto. Vero è che la Sala Tripcovich è stata assai utile, pare avesse un’acustica non pessima, e ad oggi non è stato eretto un convincente sostituto. Questo, penso, è un argomento valido per il suo mantenimento. L’argomento artistico, estetico e conservativo invece, non pare avere alcun senso e questo, personalmente, lo trovo estremamente interessante e meritevole di analisi.
Ricapitoliamo. Abbiamo una struttura, povera ma non spregevole, opera di un architetto locale di una certa importanza. Non è il suo capolavoro, nè una struttura originale o monumentale, pur avendo avuto -specie da nuova- alcuni punti di pregio. Si tratta dunque di un’edilizia utilitaristica, di impianto economico, pesantemente manomessa ed alterata negli anni e in condizioni di conservazione alquanto precarie. Che ne dobbiamo fare?
Se ancora il secolo XIX demoliva senza troppi patemi testimonianze anche rilevanti del passato nella certezza di ‘poter fare di meglio’, il secolo XX è stato il secolo della demolizione selettiva: in genere per favorire la speculazione edilizia, solo ‘certa’ architettura aveva diritto a sopravvivere, il resto (cioè quella minore e tutto quello che veniva dopo il neoclassico, considerato l’ultimo stile degno di tutela) poteva sparire tranquillamente. Il fascismo, ma quasi ancor più la Repubblica hanno manomesso senza rimorsi i tessuti urbani delle nostre città in nome del progresso e del miglioramento. Lo scempio di Via della Conciliazione a Roma va a compimento appena negli anni ’50, nel 1956 Achille Lauro a Napoli fa abbattere i filari di lecci secolari in piazza del Municipio snaturandola in nome di chissà quale ‘moderno’, la città di Milano vandalizza e stupra il suo cuore storico fino agli anni 80, sedotta dall’estetica del nuovo,
Il XXI secolo sembra invece ripiegato su sè stesso: ogni testimonianza pare degna di essere tramandata. Bastano cinque decenni e una struttura, anche infima, diventa ‘rilevante’. Se i nostri padri avessero ragionato così quasi nulla delle città, dei capolavori dell’arte che ci circondano e ci riempono d’orgoglio esisterebbe. Anche qui, a Trieste, quando camminate per piazza Unità, pensate che preferireste avere invece il piccolo puzzolente Mandracchio, la povera torre sghemba del Porto, le casipole e la dimessa chiesetta di San Pietro al posto della piazza che amiamo? Non credo. Eppure, tutte queste -oltre ad avere un loro fascino- erano importanti testimonianze medievali, che oggi sarebbero intoccabili più di un cucciolo di Panda. Davvero è questo che vogliamo? E cosa ci dice di noi, dei nostri anni, delle nostre capacità? Non dico che si può aggredire e picconare tutto impunemente, ovviamente no, anzi. Ma questo conservatorismo puzza di morte, non c’è scampo. Guardiamoci allo specchio e riflettiamoci bene.
Quanto alla Tripcovich, la questione è ancora più strana. Della sua demolizione, si parla da decenni, negli ultimi dieci/quindici anni con insistenza. Eppure, in tutto questo tempo, le voci che si sono levate dalla Soprintendenza e dalla cultura in genere, si sono solo soffermate sui meriti o demeriti, veri o presunti, della struttura. Possibile che nessuno abbia inquadrato il dilemma nella sua reale natura? La questione non è, non è mai stata ‘tuteliamo o meno la ex Stazione della Autocorriere’. La questione è : tuteliamo essa o lo spazio urbano di pregio, rilevante storicamente, quasi unica testimonianza triestina dell’urbanistica e dell’architettura dell’Eclettismo europeo che la Stazione delle Corriere, volutamente, andò a manomettere?
Chi scrive non ha un’opinione netta, a favore o contro. Ci sono buoni motivi per entrambe. Quello che si vorrebbe, è che il problema fosse posto correttamente, discusso serenamente adducendo motivazioni serie e congruenti.
La Tripcovich, antieconomica da salvare (pare) e bruttina, molto probabilmente alla fine cadrà. Speriamo che un sostituto valido emerga prima di allora. E siàmole grati comunque: persino da rudere chiuso e abbandonato, a distanza di decenni, ci ha dato ancora motivo per riflettere sull’ambiente e su noi stessi. E’ nata in un tempo che dell’ambiente storico, del contesto, si curava poco o niente: ora sta a noi dire come ci interfacciamo a questo oggi, perchè lo facciamo e con quale visione del futuro e di noi stessi.

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