Ugo Borsatti

Per prima cosa, la passione: Ugo Borsatti

Foto Omnia. Siamo con Ugo Borsatti nel suo studio fotografico, in via Gatteri, a Trieste; è sera, è quasi orario di chiusura.

Ugo BorsattiVenite, venite. Vi prendo due sedie.

Se non disturbiamo … Come si trova, con questo Mac?

Mah, mi trovo. Mi trovo con quello, mi trovo con questo – col Pc … abbastanza complicato, il tutto. Meglio il Mac del Pc forse per la mia attività, ma siccome devo tenerli tutti e due …

Allora, signor Borsatti, Stefano è il presidente di dotART, vi conoscete già. Io sono una specie di giornalista; mi fa tanto piacere incontrarla.

Ugo. Va bene. Anch’io sono una specie di giornalista. Sono uno dei più vecchi iscritti all’Ordine dei Giornalisti come pubblicista. Al tempo ero anche corrispondente di ‘Crimen – Criminologia e Polizia Scientifica’ … circolava proprio la battuta: ‘Cosa sei , uno dei Giornalisti? Non sarai mica di ‘Crimen’?’ . Cambiava continuamente, comunque: ‘Cronaca’, ‘Detective’, ‘Detective Crimen’ … solo cronaca nera, naturalmente. Avevo iniziato solo con le foto, poi mi avevano chiesto le didascalie, e poi alla fine proposto di scrivere anche i pezzi. Si. Adesso finalmente hanno riconosciuto anche ai fotografi il diritto di essere considerati giornalisti.

C’era un poco di … fastidio, da parte dei giornalisti, nei confronti dei fotografi?

Eccome. Erano due categorie distinte; rivali, in un certo senso. Una volta, il giornalista era sempre quello che faceva il pezzo; il fotografo, secondo loro, non era importante. E invece ho avuto recentemente una grande soddisfazione, al Circolo Fotografico Fincantieri Wärtsilä. Due o tre mesi fa, al termine di una presentazione al pubblico con proiezione delle mie vecchie foto, Luciano Ceschian, che è stato direttore de ‘Il Piccolo’, si è alzato e ha detto: ‘Scusate un momento, posso intervenire? Qui con noi c’è Borsatti. Mi ricordo di un pezzo che avevo scritto per il ‘Gazzettino’, descrivevo una mareggiata, lavoravo e lavoravo sul pezzo, ci avevo lavorato tanto; poi arriva Ugo Borsatti, e porta una foto, e di fronte alla foto tutto quello che avevo scritto io era improvvisamente … niente’. Mi ha fatto molto piacere. Noi avevamo lavorato assieme proprio per il ‘Gazzettino’ – per il ‘Gazzettino’ ho lavorato a lungo, per diciott’anni. C’era sempre stata, questa ‘casta’ dei giornalisti, e il fotografo era sempre stato sottovalutato, nelle sue capacità.

Ugo BorsattiDa quanti anni è in attività, Ugo?

Esatti sessanta. Al primo settembre di quest’anno. Dal 1952. Sto preparando un libro, su questo compleanno: un libro non solo fotografico. Su vari periodi. Ci tengo molto, a questo libro; sessant’anni di carriera non si compiono tutti i giorni.

E posso chiederle a che età ha cominciato a fotografare?

Ebbene, ieri era il mio compleanno …

Tanti auguri!

… grazie, grazie. E insomma un mio amico mi ha chiamato: ‘Tanti auguri per i tuoi Cinquantotto!’ – a cifre invertite, naturalmente. Sono ottantacinque appena compiuti. Ho cominciato la mia carriera tardi, se no ne avrei di più, di anni di carriera. Ho studiato per geometra, mi sono diplomato esattamente alla fine della guerra. Poi ho fatto un po’ di tutto, anche il … geometra, per il Comune di Trieste, che in quel periodo era sotto amministrazione Alleata. Poi ho lavorato per il Censimento, nel 1951 … finito quello, mi hanno preso a lavorare sulle carte d’identità per il territorio controllato dagli Alleati, che erano grandi così, azzurre, in quattro lingue … poi la fotografia. Da ragazzino avevo fatto qualcosa di fotografia, una in particolare, dopo ve la mostro …

Che cosa aveva fotografato?

Io abitavo qui vicino, in via della Ginnastica Triestina, sulla strada che dalle caserme portava verso il centro città. Nel 1943, l’8 di settembre – ero ancora studente – ecco il proclama di Badoglio: ‘I tedeschi sono cattivi!’ E si erano arrabbiati, anche giustamente a loro modo di vedere, senz’altro. I tedeschi stavano portando giù dalle caserme dei soldati italiani, lungo la via Ginnastica e verso un presidio. Avevo una macchina fotografica che era di mio fratello, sottomano, con una strana pellicola che costava un sacco di soldi ed era difficile da reperire. Tra le persiane mezze aperte e mezze chiuse, con mia mamma che mi gridava sottovoce: ‘No! Che non sparino! Vieni via!’ , sono riuscito a scattare tre foto, che dopo sono diventate famose. Sono state pubblicate molte volte; una, ingrandita, è alla Risiera di San Sabba, e vengono mostrate nelle ricorrenze. Le prime foto importanti che ho fatto.

C’è voluto coraggio, per fotografare i tedeschi che scortavano, armati, i soldati prigionieri.

Non ci ho pensato, avevo la macchina; mi sembrava una cosa importante, ed ho scattato.

Che cosa le aveva dato lo spunto per iniziare la sua carriera?

Mio papà era un vecchio fotografo amatoriale. Scattava e sviluppava su lastra, cercava di fare delle foto belle. C’era qualcosa nei nostri geni, probabilmente, e io l’ho seguito. Dopo quelle prime foto importanti ho cominciato a cercare di lavorare, mi sono fatto la licenza – le licenze erano bloccate, perché l’Associazione degli Artigiani era riuscita a convincere il questore e fare in modo che le stesse venissero rilasciate solo in presenza di un parere favorevole degli Artigiani. Follia!

Quando ha cominciato c’erano già foto a colori?

No, proprio all’inizio, qui, negli anni Quaranta, non c’erano … la Kodachrome e l’Agfacolor sono di fine anni Trenta, quindi tutto era di reperimento molto difficile, io non avevo pellicola o tecnica di sviluppo a colori a mia disposizione. Lavoravo in bianco e nero.

Ugo Borsatti e Stefano Ambroset (dotART)Che macchine usava?

A seconda dei periodi. Rolleiflex, Leica … all’inizio avevo una Voigtlander Prominent appena uscita. L’unica 35mm con l’otturatore centrale, che mi permetteva di lavorare con il piccolo flash che avevo, il flashetto da sette chili. Ecco, questa è la mia prima foto da professionista, stavo aspettando la licenza e mancava ancora qualche giorno; stavo ammirando e rigirando la macchina, mio papà mi dice: ‘Vai, vai giù in cortile!’ – vado giù nella corte scura, non c’erano esposimetri, non avevo niente, e a occhio ho azzeccato la posizione e la fortuna del topo che stava sollevando la zampa, bastava un secondo e sarebbe risultato indistinto, una macchia e basta. Queste invece erano donne che portavano il latte … Basovizza, Trieste e ritorno. Venti chilometri al giorno, senza contare tutti i piani di scale che facevano per raggiungere i clienti. Questa invece è la mareggiata, quella di cui raccontava Ceschian, quando parlava dell’articolo che avrebbe potuto buttar via una volta arrivata in redazione la mia foto … mai viste onde alte così, veramente. Libeccio a Ferragosto.

Ugo BorsattiLa sua foto più bella?

Adesso arriva. Non so se dire la più bella; direi, la più significativa fra le mie. Il soldato che bacia la ragazza, sulla banchina del treno. Trieste nel 1954. Lei non c’è più, adesso, era andata negli Stati Uniti, li avevo conosciuti – un momento bellissimo – ed ero rimasto in contatto con loro; è stata per sempre accanto al ragazzo che l’aveva baciata.

La foto a colori le piace?

No. Cioè, si, insomma. Ma mi piace più il bianco e nero. E’ assurdo dire: ‘Non mi piace il colore’; colore, perché no. Ma io amo il bianco e nero.

Cosa cambia, fra colore e bianco e nero, a sua opinione?

Uno scatto in bianco e nero è più difficile. Io ho sempre fatto quasi esclusivamente foto di cronaca, comunque, non foto artistiche. Qualche foto artistica l’ho fatta, ma poche. Come dicevo il colore mi piace, è assurdo dire di no. Quando andavo in vacanza, scattavo e facevo diapositive.  Il bianco e nero, a parte il fascino particolare, che piace molto alla gente, ha un valore … quando hanno iniziato a vendere le prime macchinette Instamatic, tutti si sono sentiti un pò fotografi, è accaduto molto prima del digitale. ‘Che belle foto!’ , e mettevano lì i figli, uno con indosso la maglietta rossa, la figlia con la maglietta gialla. ‘Ah che belle, tutte colorate!’ Appunto. Un poco troppo colorate. Quando si lavorava con la Rollei, se si fotografavano in bianco e nero gli alberi si vedevano dei bei grigi, quasi tutti uguali, e allora si doveva cominciare a capire l’uso del filtro. Si doveva tradurre la foto, in poche parole – tradurre il colore in bianco e nero. Capire e giocare con le ombre.

Non posso dire che odio il colore; poi però mi arriva un cliente, e mi dice: ‘Io ho la mia macchina digitale, con cui faccio delle foto bellissime!’  … in automatico, tutto esagerato, colori che non hanno niente di reale. Non mi piace, no. Con la digitale è tutto più semplice ma manca la comprensione.

Ugo Borsatti - Foto OmniaE della fotografia digitale che cosa pensa?

Un’enorme conquista. Ho solo una cosa contro il digitale: la durata. Non c’è supporto. La gente non stampa più, e quindi … un giorno, la foto se ne va. E’ perduta.

Ad esempio con un mio collega, una sua cliente, che viaggiava molto … pacchi di fotografie. Un giorno, lei gli chiede: ‘Ma adesso, tutti hanno queste macchine fotografiche digitali … non potrei prenderne una anch’io?’ – ‘Signora, se vuole, perché no’. ‘Allora bene bene, adesso metto in computer, poi le mi mostra come si fa, m’insegna come si guarda …’ – ‘Va bene, signora’. Dopo, fatto tutto, per molto tempo il mio collega non la vede più, la signora. Un giorno, l’incontra di nuovo e le chiede: ‘Come va?’ – ‘Oh, che bello, è magnifico, ogni sera mi guardo le mie foto sul computer, è stupendo, più di duemila già, bellissimo!’ – ‘Ma, signora … qualche stampa, la fa?’ – ‘Oh si, farò … ma per ora no, è così bello vederle là!’. Fin che un altro giorno, dopo altro tempo, suona il telefono … ‘Ascolti, sa: devo aver toccato qualcosa sul computer. Non vedo più le foto. Potrebbe passare ad aiutarmi?’ … ‘Signora, sa che non le vedrà mai più, le sue foto? Si è rotto il disco’. A momenti, lei sviene. ‘Ma ha stampato qualcosa, signora?’.

Non aveva stampato una sola foto; neanche una. Io ho i miei negativi, di sessanta e più anni fa. C’è stata una grandissima riduzione, nella quantità di stampe che si fanno: si fotografa tantissimo, con il digitale, ma si stampa sempre meno. Se ti fai almeno qualche stampa, una ogni tanto, come quelle che facevi dal tuo rullino di ventiquattro foto … quelle ti restano.

Io ho cominciato con il digitale due o tre anni fa, ho fatto qualche servizio, per lo più lavoro con le mie foto d’archivio. Più di qualcuno, che ha cominciato fin dall’inizio con il digitale e non ha stampato mai, ha perso tutto. Ha preso il suo vecchio CD dal cassetto e non ha trovato più nulla, niente, il computer non lo legge più. Questa è l’unica cosa del digitale che non mi va; dei supporti magnetici io non mi fido. Forse un giorno sarà risolto, questo problema ma per ora voglio dire a tutti: stampate le vostre foto più belle, non tenetele solo là dentro.

Ugo Borsatti ed Ennio DemarinQuante foto ha in archivio?

Il mio archivio di negativi l’ho ceduto alla Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste, con una clausola che me ne consente l’utilizzo. Poi la Fondazione l’ha passato in comodato d’uso al Comune di Trieste. Io ci avevo già lavorato tanto, quasi quattro anni, cercando di riorganizzarlo e documentarlo … il mio archivio è questo, sapete, questo che vedete qua. Questi libriccini, che tengo sempre con me. Appunti, e appunti di ogni giorno di lavoro che ho fatto, con i riferimenti alle foto: ‘gimcana motociclistica’, ‘pubblica sicurezza’ … ‘ballo’, vedete, qui ‘P’ sta per ‘Ballo dei Poligrafici dello Stato’, si tenevano al Jolly in quegli anni. ‘V’: ‘Veglia della Gioventù Ebraica’. ‘Carnevale’. ‘Acegat’. ‘Sindaco’, con i nomi dei sindaci. Questi appunti li ho caricati sul computer. Sono trecento e cinquanta mila negativi. Per farvi capire, voi siete giovani, non avrete mai sentito parlare del caso Montesi …

Certo. Wilma Montesi. La ragazza uccisa a Roma, negli anni Cinquanta. C’era stato un grande coinvolgimento dei media.

Bravi. Era stato uno scandalo che aveva coinvolto, dopo il ritrovamento della ragazza morta sulla spiaggia, a Roma, a Torvaianica, politici e personaggi di spicco dell’epoca. Per dirvi, il fatto di conservare i negativi, e gli appunti, quanto valore ha. Ho conosciuto un fotografo che buttava via i negativi! Una cosa da brivido.

C’erano questi balli, vi dicevo, al Jolly … aveva una taverna, sotto, e c’era una ragazza, una Entreneuse, forse; se non lo era, era comunque sempre là, frequentava l’ambiente. Corinna Versolato. Mi ero segnato il nome, forse perché avevo fatto foto per lei, o con lei assieme agli americani … avevo questo nome sul mio libretto. Dopo tanti anni, caso Montesi: su un giornale esce un articolo: ‘Suicidio a Torino’. Questa ragazza, Corinna, si era buttata dalla finestra. Nella sua agenda, avevano trovato nomi collegati al caso Montesi e a quello che era successo. Io ricordavo il nome, ma non ricordavo da dove, e allora, attraverso il mio archivio personale, eccolo: il Jolly! Corinna Versolato. Ed ecco anche i riferimenti ai negativi, numero di serie, data. E ho venduto numerose foto di quella ragazza. Era una ragazza che non conoscevo, era un viso anonimo per me, purtroppo, ma mi ero segnato il suo nome e il fatto che l’avessi ritratta in quelle foto. Chissà quante di queste cose ho ancora in archivio, che non sono emerse e che non sono mai state sfruttate.

Trecentocinquantamila negativi.

Si, circa trecentocinquantamila. Non è una cosa da niente, organizzarli. Poi ho anche le diapositive, anche quelle da catalogare, organizzare. Devo finire.

E non ha mai avuto una reazione del tipo: ‘No, basta! Ho fatto tanto’?

No.

Che consigli darebbe, a chi si avvicina alla fotografia?

Ah, consigli. Non è facile. E’ così vasto, come mondo, la fotografia. Dipende.

Io ho sempre fatto cronaca. Intendo dire: ho fatto un pò di tutto nella mia vita professionale, oggi ho fatto due fototessere. Ma la cronaca è stata la mia vocazione. Se non c’è la passione vera, lavorare soprattutto in cronaca e con i quotidiani è un grande sacrificio. Raccontare ai giovani che si avvicinano al giornalismo fotografico che cosa dovevo fare io, che cosa dovevano fare i miei colleghi per fare una foto – soprattutto a Trieste, la piazza in cui una foto veniva pagata … niente. E’ difficile farlo capire, oggi, nell’epoca digitale. Le cose che facevi, per avere il tuo nome sul giornale. Per i lavori più importanti, come quelli con la Ginnastica Triestina, la Triestina Calcio e il Teatro Verdi, c’era De Rota, un lavoratore instancabile. Ricordo poi che ‘Giornalfoto’, che aveva iniziato l’attività due anni prima di me, aveva acquisito quasi il monopolio su tutta la città. ‘Giornalfoto’ lavorava molto con Manlio Granbassi, redattore de ‘Il Piccolo’. A ‘Il Piccolo’ avevo fatto anche causa, per una questione di utilizzo di foto sportive: una partita nel corso della quale la Triestina aveva segnato sette gol. In quei tempi si lavorava molto anche dietro la rete, e avevo fatto delle discrete foto. ‘Il Piccolo’ era un pò il ritrovo di tutti i corrispondenti sportivi, non c’era ancora la televisione, era nei primi anni.

Ugo BorsattiQuanto costava, fare fotografie?

Tanto. Soldi non ne avevo. E l’attrezzatura, poi. Avevo ottenuto un prestito di quattrocenticinquantamila Lire … la banca me ne aveva date trecentocinquantamila e il resto – centomila Lire – l’aveva tenuto come anticipo sugli interessi, per dare un’idea di cos’era il valore del denaro. Un operaio guadagnava cinquantamila Lire al mese, nel 1960. Cento Lire la benzina. Con quelle trecentocinquantamila Lire avevo comperato la macchina fotografica – dopo ve la mostro: centotrentacinquemila Lire. E il flash – quello da sette chili – ce l’ho ancora, con una torcia grandissima. Centosettantacinquemila Lire. Con questo prestito ero riuscito ad avere i ‘due pezzi’. Poi avevo preso a noleggio un proiettore e comperato due bacinelle per lo sviluppo.

Andava a caccia di foto e di notizie?

Eccome. Sognavamo i telefoni, noi fotografi … in America avevano i telefoni in auto. Forse. Una volta ero andato sopra i Filtri, a Santa Croce: era caduto un piccolo aereo, le due persone a bordo erano morte, carbonizzate … vado su, con la mia Vespa, scatto e torno a casa. Appena tornato a casa, mi dicono: ‘Ha chiamato il giornale, c’è stato un incidente mortale a Sistiana!’ , e via, torno a Sistiana con la Vespa. E dopo di nuovo indietro, per sviluppare: rapidamente, al buio, a occhi chiusi, ‘Uno, due …’ conta fino a sessanta e poi via, fissaggio rapido – fissa, lava, ventilatore, con la pellicola ancora mezza bagnata, verso il laboratorio per la stampa … ‘Oh! La pellicola è bagnata!’ ‘Eh, questo sono riuscito a fare … è un poco grattata, mi scusi’. Sviluppo, stampa, asciugatrici. Se avessi avuto il telefono cellulare … ho tante foto che sono ingiallite, ormai, perché non erano stampate per durare, era sufficiente che rimanessero in buone condizioni per qualche giorno. Sono recuperabili, comunque, lavorandoci. Poi portavi tutto al giornale. Il giornale non aveva il fattorino, e allora porta di corsa direttamente al treno delle dieci e venti, spedisci con la posta ‘fuori sacco’. Non so se esiste ancora. Era una busta per i giornali, che veniva consegnata rapidamente, senza attendere lo smistamento generale. Per le cose più urgenti, c’erano le telefoto, costose e di più bassa qualità. Solo … mezz’oretta di trasmissione, e arrivava dall’altra parte, sempre che non cadesse la linea. Quando giocava la Fiorentina, mi ordinavano sette telefoto: e se qui a Trieste mi pagavano cinquecento Lire per ciascuna foto, da Firenze me ne davano tremila. E con quel servizio di sette foto quasi mi pagavo la rata del mese.

Se dovessi parlare a un giovane fotografo gli direi che la prima cosa è la passione. Oggi, il discorso della stampa e dello sviluppo è molto meno pesante. Non è facile neppure oggi, forse è ancora più difficile: non era facile mai, ma oggi la fotografia è un mestiere che va quasi scomparendo. Tantissimi miei colleghi hanno chiuso, anche più giovani di me; anch’io chiuderei lo studio, se non avessi queste mie foto per il novanta per cento di repertorio, d’archivio. E le storie che raccontano.

Sviluppa ancora le sue foto personalmente?

Si, in bianco e nero. Qui in studio, qui dietro, guardate.

Le foto dei giovani le piacciono? Quelle che ha visto recentemente?

Vi dico la verità. Queste foto molto elaborate, trasformate, che ho visto ultimamente… con il bianco e nero, anche noi lo facevamo, un ritocco: più scuro di qua, più chiaro di là. Modifiche. Raddrizzavamo le linee. Era una specie di Photoshop. Più difficile da fare che sul computer, perché ci voleva manualità, abilità nel mestiere. Però era solo per correggere un pò le foto. Ma quelle foto che ho visto di recente, completamente trasformate, nei colori, nelle proporzioni … no. Non mi piacciono. Tutto sta nei limiti che ti poni. Devi tenerti un pò dentro i limiti. Puoi anche fare cose astratte, puoi fare quello che vuoi con le tue foto – certo che puoi, nessuno te lo impedisce. Andavo in vacanza, giocavo anch’io coi colori, con tutto, ve l’ho detto. Ma l’esagerazione non è fotografia, e quel ‘troppo’, quell’ ‘ esagerare anche l’esagerato’ , no, non mi va.

Un consiglio?

Un consiglio. Adesso voglio proprio fare il … ‘vecchio’ e voglio dirvi: le macchine digitali sono bellissime, ma imparate a non schiacciare troppo il bottone. Non scattate troppo. Non ha senso. Una volta c’erano quei … cassoni della Kodak: ‘click’ – otto fotogrammi sei per nove, poi ne sceglievi una. Qualcuno scattava anche con quelle. Però cercavi comunque di rispettare le regole, il sole dietro le spalle no, il palo in mezzo alla testa no. Controllavi la luce prima di scattare, magari con l’esperienza se non con l’esposimetro. Con il digitale, adesso, chi scatta mette in quello scatto ancora meno attenzione di chi scattava con le Kodak da otto fotogrammi. Tanto puoi togliere il palo dalla testa dopo, puoi recuperare il sovraesposto, e via … ‘tac-tac-tac’  … ma la foto è sbagliata lo stesso. Non è buona.

Posso farle una foto?

Certo. Perché chiede. Faccia; è più spontaneo.

Nel nostro percorso attraverso i Peccati Capitali: che cos’è, per lei, l’Ira?

Accidenti, mi mettete in crisi, adesso! Io sono un fotografo, non un filosofo … fotograficamente, l’Ira? La violenza? Ricordo un’immagine: la polizia che carica, che mi viene addosso. Era durante uno sciopero dei Marittimi, era tutto tranquillo; gli anni Cinquanta, il 1956 o il 1957 credo. La nave Saturnia, il transatlantico. Loro scioperavano, c’era abbastanza gente. Il questore di Trieste – Buttiglione, il papà dell’onorevole Rocco – telefona a Padova, ‘Mandate su la Celere!’. Sono là: fotografo la nave, con tranquillità, serenità, i mezzi della Celere – le Jeep – poco più avanti, schierati. Improvvisamente, i tre squilli di tromba, il commissario che indossa la fascia tricolore: ‘Carica!’ – e iniziano a disperdere la folla. Gli scioperanti erano tranquilli, però, e non capivo il perché di quella carica, forse non avevo visto qualcosa. Anni difficili. Un uomo della Celere si sporgeva dalla Jeep, e colpiva, a destra, a sinistra … di quel giorno, ho la foto. Poi smonta dal mezzo, mi guarda e corre verso di me: mi prende, mi strattona per strapparmi via la macchina fotografica. Avevo la Rollei quel giorno. I dimostranti accorrono, e mi danno una mano. Mi spingono da parte, e riesco a venirne fuori con per danno solo con la camicia strappata, urlando: ‘Stampa, stampa!’ , con il mio tesserino in mano. Lui arriva di nuovo, e ci prova ancora, a strapparmi la macchina, ma riesco ad andar via, e finisce là. Sembra.

Sul giornale: ‘Il Borsatti era alla testa dei manifestanti, e li aizzava contro la Polizia’.

Tribunale, denunce, testimoni ne avevo quanti ne volevo su come erano andate veramente le cose. Una doppia Ira. L’ira del poliziotto che per qualche motivo ce l’aveva con me. E la mia, nei confronti di chi aveva scritto cose non vere. Il questore Buttiglione se ne andò poi in Sicilia, per un altro mandato; il poliziotto lasciò il servizio.

Chi è Ugo Borsatti, secondo Ugo Borsatti?

Il migliore che c’è su tutto, in fotografia. No, è una battuta, naturalmente.

Ma è anche vero. In questa carriera, che ci auguriamo molto lunga ancora.

Eh, sono appena sessant’anni di carriera, ho ancora tante cose da fare. A prescindere dalle battute … Ugo Borsatti è un uomo che è innamorato del suo mestiere. Della ‘professione’, come la chiamavo. Un uomo che fin che può, sarà sempre qua. Venite a vedere le macchine!

Roberto Srelz © centoParole Magazine e dotART Magazine – riproduzione riservata

Ugo Borsatti, nato nel 1927, scatta le sue prime foto importanti nel 1943: una colonna di soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Le rare, forse le uniche, immagini di quei tragici giorni. Nel 1952 diventa professionista; si specializza poi in fotogiornalismo, è corrispondente di molti giornali ed agenzie, tra cui il ‘Corriere della Sera’. Per vent’anni è fotografo ufficiale del ‘Gazzettino’ e del ‘Messaggero Veneto’. Nel 1964 una sua foto viene esposta al MOMA di New York. Borsatti si può incontrare nel suo studio di via Gatteri, a Trieste dove stampa ancora il bianco-nero tradizionale; è stato membro delle giurie dei concorsi dotART.

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