a Paolo Conte. (racconto di Franco Bulli)
Subito. Fin dai primi passi di quella rumba Ricardo capì. Mai come in quel momento la percezione della riuscita era stata reale. Lo percorse con una scossa lunga che salì e salì, fino alla radice dei capelli tagliati cortissimi. Lo percorse ruggendo fino alle estremità delle dita e da lì passò nella pelle di Enza che rabbrividì.
I loro occhi si incontrarono su una traiettoria vibrante di emozione e di presagi di trionfo. Continuarono a ballare sotto le luci forti della pista, regali e sorridenti, in un modo che trascendeva ogni verbo di perfezione e di armonia. In un modo che era soltanto loro.
Ballavano come se niente altro esistesse. Senza nemmeno vedere le altre coppie allacciate che disegnavano evoluzioni attorno a loro. La danza era tutto il loro universo, in quei momenti. Non era più applicazione di schemi e di sequenze di figure imparate a memoria. Non semplicemente il punto di arrivo di interminabili notti passate a provare e provare sotto i neon scivolando nella polvere di un magazzino dismesso. Era librarsi nell’essenza stessa della musica e del movimento. Nessun riflesso di meccanicità si poteva scorgere nel fluire dei loro passi. C’erano soltanto la musica ed i loro due corpi. La musica ed il loro unico corpo. Impulsi nervosi che non sfioravano nemmeno il cervello, ma viaggiavano tra le membra e quel punto indefinito dove nascono le correnti e le pulsazioni istintive del ritmo. Una sincronia assoluta e profonda guidava i loro gesti, il loro spostarsi liquido nello spazio della pista.
Un’intesa che esisteva, tra loro, soltanto quando ballavano. Che era assieme confidenza, magia, sensualità, fuoco.
Amore forse. Quando smettevano di ballare restavano per un po’ a galleggiare in quell’atmosfera. Ma poi, piano, la magia si dissolveva. Tra loro restavano sguardi ormai indifferenti. Poche parole sciupate dagli anni. I segni rugginosi dell’abitudine. Il ballo però restava. Era un appiglio di resistenza, una bolla di illusione. Un rifugio.
Era anche piacere purissimo. Irrinunciabile. E nessuno dei due, ne erano entrambi consapevoli, avrebbe potuto ballare senza l’altro. Con nessun altro avrebbe funzionato. Il loro legame era tutto lì, fortissimo e fragile.
Il programma terminò senza sussulti. Finì anche il jive senza che mai l’intesa tra Ricardo ed Enza si incrinasse, senza che una sola sbavatura, un ritardo in un attacco, un’ombra in un sorriso potesse originare dubbi.
Verdetto. La seconda coppia staccata nettamente, le votazioni della giuria tutte molto alte. Questo non fu una sorpresa per Ricardo. Era più in alto che li aspettavano le sfide vere, quelle che contavano. Fuori dai soliti palcoscenici. Il Campionato Nazionale. Quella era la meta. Cinquanta coppie arrivate da ogni angolo del loro grande paese, le migliori. A rappresentare le scuole di più forte tradizione. Coppie di ballerini abilissimi, esperti, selezionate da turni sempre più difficili. Una finale a sei in una notte rovente al Rocò, il conclamato tempio del ballo. Bruciava ancora nella memoria di Ricardo il ricordo del banale incidente che un anno prima li aveva esclusi da quel confronto. Un tacco. Un tacco rotto durante la samba, in semifinale. Bruciavano ancora le lacrime sul volto di Enza.
Ora volevano fermamente arrivare lassù, al titolo nazionale. E nelle loro gambe elastiche, nei loro fianchi sciolti, nell’inarcarsi nobile delle loro schiene, nel pulsare stesso del loro sangue, lo sentivano, c’era la forza di farlo.
Ballavano ogni notte, dopo aver finito di lavorare. Tardi, qualche volta molto tardi, dopo che Ricardo era riuscito a mandare via l’ultimo cliente ubriaco dal Mocambo. Ballavano leggeri e morbidi, senza avvertire la stanchezza. Per settimane e settimane, senza mai uscire dalla loro nicchia di incanto. Il sorriso non spariva dai loro volti. Furono mesi sereni e densi, frenetici, senza soste. Provavano figure nuove, trovavano sfumature.
Si fondevano, ogni notte, a formare un’entità in cui non erano riconoscibili separazioni. Il loro amore rifiorì.
Quando terminavano di provare trovavano un ristorante all’aperto. Cenavano e poi restavano a guardarsi negli occhi, tenendosi per mano come bambini. Attorno, la calda notte della loro città profumava di mare e di fiori. Non dormivano quasi, ma nessuno dei due sapeva cosa fosse avere sonno.
Passarono come in una favola attraverso tre fasi interregionali, vincendole. La purezza del loro ballo suscitava più ammirazione che invidie. La loro fama li precedeva.
Quando ormai mancavano soltanto poche settimane alla finale nazionale, nelle scuole di tutto il paese i loro nomi erano i più ripetuti. Non si era mai visto ballare così, si sentiva dire. L’attesa per quel Campionato ebbe un motivo nuovo di impazienza.
Una sera, due giorni prima di partire per la capitale, da soli sulla polvere del magazzino, volevano provare ancora.
Un’ultima volta.
Alle prime note del mambo Enza si fermò.
“Cosa succede?”
“Non lo so.”
“Stai bene?”
“Sì, è solo che…”
“Che?”
Il tono della voce di Ricardo era intriso di preoccupazione. La scrutò con occhi allarmati. Enza si guardava attorno, come cercando una risposta nella polvere, sui muri screpolati del magazzino, nelle ragnatele degli angoli.
“Non so!”
Aveva urlato, Enza, coprendo la musica che traboccava dagli altoparlanti. Gli occhi già lucidi. Ricardo la abbracciò.
“Non è niente, disse, riproviamo.”
Fecero ripartire il nastro. Arrivarono le note. I primi passi.
Di nuovo Enza sottrasse la mano dalla stretta sicura di Ricardo con uno strattone. Si allontanò di due metri, si coprì il volto con le mani e iniziò a piangere.
Ricardo spense il vecchio registratore, sedette nella polvere, le braccia a cingere le ginocchia. La guardò da sotto in sù.
“Calmati. Siediti qui.”
Lei gli si sedette al fianco, ma restò rigida nell’abbraccio di lui.
“Non sono io, Ricardo.”
“Cosa significa?”
“È nel tuo passo.”
“Nel mio passo cosa?”
“Ho avvertito qualcosa. Qualcosa che è cambiato. Come… come un’inquietudine.”
“Non capisco…”
“Nemmeno io. Ma non ti sento più. Non sento più niente. Sei diverso. Sei altrove. Cosa è stato, Ricardo, cosa è cambiato?”
“Niente. Non è cambiato niente. Forse sei stanca.”
“No, Ricardo. Non è stanchezza. È qualche cosa, tra me e te, che si è inceppata o si è spenta.”
Restarono in silenzio. A lungo. Fu ancora Enza a parlare, guardandolo con gli occhi ormai asciutti da cui partivano strisce nere di rimmel sciolto.
“C’è un’altra.”
“Non scherzare.”
“C’è. Non puoi negarlo. Non a me. Lo so, lo sento.”
“Non c’è, lo sai benissimo. Non c’è mai stata.”
“Eppure io lo sento. Dammi la mano. Ecco, la vibrazione nella tua mano non è più la stessa.”
“Ma cosa dici?”
“Dico che tu hai ballato con un’altra donna. Dimmelo. Dimmi che l’hai fatto. Dimmelo perché ormai è finita. Io non potrò più ballare con te.”
Ricardo per forse un minuto non parlò. Fissava un punto di nulla davanti a sè. Incredulo. Smarrito. Quando aprì bocca le parole caddero fuori una attaccata all’altra.
“Non può essere, Enza. È pazzesco. Pazzesco.”
Scosse la testa. Deglutì.
“Senti. Stamattina, uscendo di casa, nell’atrio ho incontrato Esmeralda, sai quella ragazzina mulatta, quella dell’ultimo piano, quella magra magra, con lo sguardo triste. Mi ha chiesto se eravamo pronti, se ce l’avremmo fatta. Tutto il quartiere parla di noi, lo sai. Ho detto di sì, che eravamo prontissimi. Mi ha sorriso. Signor Ricardo, mi ha chiesto, signor Ricardo mi fa un regalo? Un regalo grande? Le ho chiesto cosa volesse. Me li fa provare due passi di Paso Doble? Solo due passi. La prego. E mi guardava con quegli occhi neri, grandi e tristi. Come potevo dirle di no? Così le ho mostrato due passi e glieli ho fatti provare. Solo due passi, capisci? Solo due passi.”
Enza si alzò, non disse una parola. Prese da una seggiola un maglioncino e senza nemmeno cambiarsi le scarpe uscì dalla stanza. Non si voltò. Non sbattè la porta.
Ricardo vagò fino all’alba. Andò a guardare il sole spuntare dal mare. Non riuscì a piangere. Mezz’ora più presto del solito, mentre il primo sferragliare dei tram trapassava l’aria tersa del mattino, aprì il Mocambo e attese i primi clienti.
Franco Bulli