Giancarlo Torresani. Fotografo, insegnante, critico fotografico. Giancarlo, posso chiederti come sei arrivato …
… alla fotografia.
Prima che alla fotografia: a Trieste. Tu sei di Schio, vero?
Aha. Allora cominciamo subito con le cose difficili. Le mie origini sono un po’ complesse: provengo da Schio, Vicenza, ma sono nato a Malles,Bolzano, fra le montagne dell’alta Val Venosta. Mio padre (militare) era lombardo, mia madre trentina; i vari trasferimenti li avevano portati prima in Alto Adige Dove sono nato), poi a Bassano del Grappa, quindi a Schio dove ho vissuto fino a qualche anno fa. Sono quindi veneto d’adozione, ma di sangue lombardo-trentino.
E Trieste?
Ho sempre vissuto, sia da bambino che da ragazzo, in zone prossime alle montagne. Per me Trieste per è sinonimo di mare, di estate, di vacanze. Amo moltissimo il mare, mi ha sempre affascinato e a Trieste ho trovato sia il mare che la montagna; cosa si potrebbe chiedere di più. Non mi sento particolarmente legato a nessuna particolare realtà, sono un “girovago” La mia stessa attività mi porta continuamente a girare tutta l’Italia. E’ un bene? E’ un male …? Chi lo sa!
E poi la festa e la vacanza sono diventate qualcosa per cui valeva la pena di venire più spesso?
A Trieste venivo spesso causa i contatti con i circoli fotografici della città. Tenevo corsi e lezioni sia al “Circolo Fotografico Triestino” sia al “Circolo Fincantieri-Wärtsilä” a seguito del ruolo istituzionale affidatomi dalla FIAF. Con la presidente Alida Cartagine del circolo fotografico, con il presidente del circolo Wärtsilä – Fulvio Merlak (come consigliere nazionale prima, come presidente FIAF poi) – con il quale mi ritrovavo spesso in giro per l’Italia, in occasione di conferenze, tavole rotonde, letture portfolio o giurie di concorsi fotografici. C’era un contatto continuo con Trieste mi ci trovavo bene e le conoscenze, e le amicizie, andavano crescendo. Era un andare e venire continuo, per me, e le occasioni di formazione fotografica non mancavano. Al circolo Fincantieri-Wärtsilä credo d’essere uno dei relatori, del corso avanzato, da una quindicina d’anni.
Quindici anni di corsi, quindi: una lunga carriera.
Quindici anni di corsi al circolo Wärtsilä di Trieste (ma più d’altrettanti prima), sempre sul tema del ritratto e del portfolio ma dall’anno scorso, ho aggiunto anche un terzo argomento, “Etica e Fotografia” che sta riscuotendo un certo interesse anche in altre sedi. Di temi, al circolo Wärtsilä, se ne trattano diversi, come molti sono gli argomenti (corsi di vario genere, conferenze, seminari e workshop) presenti nel mio programma formativo, un catalogo in continuo aggiornamento, che da oltre trent’anni porto su tutto il territorio nazionale.
Allora siccome non sei nato a Trieste, non sei legato particolarmente a nessun luogo e ti sposti spesso, ti faccio una domanda: come vedi Trieste attraverso i tuoi occhi, attraverso la tua macchina fotografica da “girovago”?
Trieste è una città straordinaria – una città che offre eventi straordinari che non sempre i triestini vedono o sentono, come ad esempio il suo essere una città multietnica, multi religiosa, il suo stesso respirare l’Oriente. Ieri, al molo Audace, ho avuto la possibilità di fotografe il rito del recupero in mare della croce secondo il rito Greco-Ortodosso. Ho avuto modo di visitare la Sinagoga … la chiesa di San Spiridione (della comunità Serbo-Ortodossa) … in tutto questo trovo un forte fascino d’Oriente. Sono stato condizionato molto dai libri Paolo Rumiz, libri che amo tantissimo: “Tre uomini in bicicletta”, “La cotogna di Istanbul”, “È Oriente”, “Trans Europa Express” altri… – mi hanno stimolato a vedere questa città come una porta aperta verso l’Oriente. E in realtà Trieste è anche Oriente: per dirti solo uno dei suoi molti aspetti: camminando per le sue vie mi sembra a volte d’essere all’estero, mi capita quotidianamente sentir parlare nelle varie lingue slave; non conoscendole non comprendo le differenze ma ne colgo la musicalità; questo non accade in altre città italiane e per me è una cosa straordinaria. E poi, la presenza dell’Università: senti parlare inglese, francese, spagnolo, vai nei pub o nelle enoteche e ti capita di sedere al loro fianco degli studenti e magari chiacchierare allegramente assieme. Per uno che arriva dalla provincia (da una cittadina come Schio) da una realtà veneta diversa, Trieste è un raccontare continuo di cose, un respirare mondi diversi. Ma non solo per me.
E noi, noi triestini, siamo meno provinciali?
Nella vostra triestinità, forse lo siete; ma esserlo in Veneto, piuttosto che a Palermo, a Genova o dove si vuole, è una parte della cultura; è un qualcosa che, in fin dei conti, si vuole e si può mantenere. Al di là di questo particolare aspetto, guardando l’insieme, io sento a Trieste qualcosa di molto più ampio, più aperto rispetto ad altre realtà. Prendi, ad esempio, l’ampia offerta culturale: i Teatri, il Verdi, il Rossetti, il Miela, i Musei, le innumerevoli sedi ed eventi espositivi… un locale come il “Pane quotidiano” aperto 24 ore, dove poter prendere un caffè, non l’ho visto in nessun’altra città. Un’altra mia passione è la musica, come puoi sentire dallo stereo… il Jazz in particolare. Quando posso frequento il “Circolo del Jazz Thelonious”. A Trieste, la musica non l’ascolti soltanto: la vivi. Ecco, per un esterno come me, questi aspetti hanno dello straordinario; chi ci è nato ci è abituato, forse li avverte meno o li vede come normali. Non è poi così normale poter sentire il maestro Muti – con un’orchestra internazionale – suonare nella splendida piazza Unità d’Italia. Eventi di questa levatura a Trieste, più o meno importanti, se ne vedono spesso.
Peccato per il caos. Non condivido il modo di guidare dei triestini, il traffico, i pochi parcheggi. Preferisco allora andare a piedi o con il bus. Qualche difficoltà in più per i miei spostamenti, sia nel nord che nel sud d’Italia dove mi reco spesso per la mia attività. E’ difficile muoversi via da qui e raggiungervi; fino a Venezia ti muovi con facilità – giri l’Italia, ti sposti. Da Trieste a Venezia ci sono centocinquanta chilometri di autostrada non sempre facili da percorrere.
“Citazioni”
L’incontro con la fotografia. Quand’è accaduto?
Ho incontrato la fotografia trentacinque anni fa, a Schio. Prima di avvicinarmi alla fotografia, oltre ad insegnare, dipingevo, e mi piaceva molto. Riuscivo a fare tre o quattro mostre personali all’anno con un ricambio del sessanta, settanta per cento. Ero molto attivo, abbastanza conosciuto nel campo; frequentavo un gruppo di pittori che si riuniva nei locali CRAL, messi a disposizione dall’azienda Lanerossi, per le attività ricreative dei dipendenti. Era un’epoca molto diversa da quella odierna, erano i “mitici” anni Settanta; insegnavo a scuola, dipingevo, c’incontravamo tra pittori per organizzare mostre o partecipare ai concorsi.
Un bel giorno, vuoi per la latitanza di dipendenti Lanerossi, vuoi per le difficoltà dell’azienda, ci viene comunicato che dovevamo lasciare la sede. Lasciare la storica sede del “Teatro Jacquard”, con il suo bel giardino, ci dispiaceva molto, era un posto bellissimo. Si fa avanti, in quel momento, un gruppo di appassionati di fotografia: il “Circolo Fotografico Scledense”, nato da poco ma formato da diversi dipendenti Lanerossi; l’azienda decide di dare loro la sede, e i due gruppi – pittura e fotografia – per un breve periodo si alternano nell’occupazione della sede.
Per alcuni mesi vivo la mia passione per la pittura in un contesto nuovo, quello della fotografia. La sede era grande e i fotografi trovarono il modo di allestire una camera oscura. Come insegnante di materie tecniche ero molto interessato, la fotografia m’incuriosiva anche da un punto di vista pratico e così, aderendo al nuovo gruppo, iniziai a sviluppare negativi, a stampare il bianconero e a fare esperimenti; pratiche bellissime che poi riproponevo nelle mie classi.
Quanti anni d’insegnamento?
Trentasette anni; come insegnante di materie tecniche, prevalentemente nella Scuola Media di primo grado.
E l’insegnamento della fotografia fatto da te agli adulti, agli altri fotoamatori e fotografi? Quando ha avuto inizio?
Nell’ambito del “Circolo Fotografico Scledense”, vista la mia esperienza nelle arti figurative, mi viene chiesto un incontro sulla storia dell’arte e della fotografia in diapositive. Allora mi documento, inizio a fare alcune riproduzioni sulla storia della fotografia, preparo la serata … La cosa riesce bene, si diffonde la voce, al punto che altri circoli della provincia di Vicenza me la richiedono… Non l’avessi mai fatto!
Pennelli e tele in cantina, e da quel momento… solo foto, lucidi e diapositive. Lascio la pittura per la fotografia che occuperà tutto il mio tempo libero. L’esperienza scolastica acquisita, e la nuova passione per la fotografia, hanno favorito l’avvicinamento all’insegnamento di questa materia.
Poi è arrivata la FIAF, la “Federazione Italiana Associazioni Fotografiche”. Dopo gli incarichi provinciali e regionali, l’incarico a direttore del “Dipartimento Attività Culturali” (dal 1999 al 2008), a direttore del “Dipartimento Didattica” (dal 2010). Esperienze che mi hanno dato tantissimo, mi hanno permesso di dare e di apprendere moltissimo, di viaggiare e di conoscere personaggi importanti. L’incontro con l’artista e designer Bruno Munari , persona meravigliosa – in occasione di un corso di aggiornamento per insegnanti – mi avvicina alla fotografia stenopeica: una fotografia fatta senza fotocamera, attraverso un minuscolo foro, che subito introduco nelle attività scolastiche con sommo piacere dei ragazzi. Mi aprono delle finestre immense, porto l’esperienza in classe, inizio a costruire e a far costruire le scatole ai ragazzi della mia scuola per fare, assieme a loro, le fotografie senza macchina fotografica.
Semplici scatole di cartone, con un piccolo foro al posto dell’obiettivo, con della carta fotografica al loro interno al posto della pellicola, mi permettono di ottenere buoni negativi di carta da tramutare (con stampa a contatto) in positivi. Ai ragazzi piaceva da matti, a dire il vero piaceva anche a me perché lo trovavo un divertimento utile.
L’incontro con Ando Gilardi , in un altro corso di aggiornamento, mi introduce negli aspetti sociali della fotografia aprendomi nuovi orizzonti. Un dissacratore, un critico eccezionale, pungente in certi momenti; sempre provocatore. E poi … tanti altri: Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Mario cresci, Nino Migliori, Francesco Cito, solo per citarne alcuni. Mario Giacomelli , il grande artista fotografo scomparso nel 2000, non si muoveva mai da Senigallia (sua città natale) eppure riuscii a portarlo a Schio per ben due volte. Giacomelli diceva: “La fotografia è una cosa semplice. A condizione di avere qualcosa da dire”. La fotografia intesa come linguaggio perché (se non hai niente da dire) quella semplicità a cui Giacomelli si riferiva, altrimenti si riduce soltanto a un mero gesto meccanico. Buona parte degli argomenti da me trattati è inserita in quel contesto: usare la fotografia per dire qualcosa, le esprimere le proprie idee, i propri punti di vista, i propri sentimenti e… perché no… anche le proprie emozioni, e non semplicemente per fare ‘clic’.
Roland Barthes.
“La Camera Chiara” . Il ‘punctum’; quello che ti colpisce, che ti punge. Piuttosto dello ‘studium’ – della preparazione.
Assomigli a Barthes, in un ritratto che ti hanno fatto.
Ah, la foto con la pipa. Si è vero. A quella foto sono legato in modo particolare. Contrariamente a quanto sembra, non è una foto posata, è una foto di Stefania Adami, una fotografa di Castelnuovo di Garfagnana (LU). Eravamo in Trentino Alto Adige per un foto-trekking in Val di Fassa. Eravamo seduti a chiacchierare di fotografia, durante una pausa, all’esterno di un rifugio; una bella giornata di sole. Stefania ascoltava e scattava foto. La sera si avvicina e mi dice: “Oggi ti ho scattato delle foto, le vuoi vedere?” – “Certo, molto volentieri”. Mi presenta le sue foto e mi colpisce il suo particolare punto di ripresa, un punto di vista diverso dal solito: dall’alto verso il basso, cosa che raramente si consiglia di fare. Uno scatto particolare, ricordo che mi aveva chiamato e che l’avevo guardata mentre mi fotografava, ma non le avevo dato molta importanza… ora invece apprezzo molto quel suo scatto e glielo rammento ogni volta che l’incontro.
Qual’è la tua fotografia? Che tipo di fotografo sei?
Se mi chiedi quale tipo di fotografia preferisco, da un punto di vista personale, posso risponderti: la fotografia che ha un aspetto etico, la fotografia di reportage, di viaggio. Sono le mie preferite. Cercare di tradurre con le immagini le proprie impressioni, le emozioni ricevute più che la semplice descrizione del luogo. Non è semplice, non sempre ci si riesce. Comunque posso dirti che la fotografia è per me una buona compagna di viaggio.
“Argentina”
Quali colori metti nelle tue foto?
Io nasco ‘bianconerista’, però il colore mi piace; anzi ti dirò che la fotografia a colori a mio avviso è più difficile di quella in bianco e nero … sembra una provocazione, ma nella fotografia in bianco e nero anche un soggetto brutto può apparire bene. Il bianco e nero semplifica la vita al soggetto… e anche al fotografo.
Con il colore è diverso, perché l’armonia non emerge facilmente, spesso è incompleta. Stona soprattutto quella che non appartiene alla natura; la natura sa come armonizzare i colori, ma dove c’è l’intervento dell’uomo spesso e volentieri i colori non mancano di armonia, diventano elementi di distrazione nei confronti del del soggetto. Se scatti a colori ti appaiono prima gli aspetti esteriori di quelli interiori del soggetto che volevi raccontare. Nella foto di reportage e nella foto naturalistica non bisogna alterare il contesto; questo è anche uno dei motivi per cui mi piace la post-produzione in Adobe Lightroom: perché non snatura la foto.
Con il bianco e nero è più facile, il contenuto rimane protagonista. Nel colore, è il vestito che prevale, e quindi la forma. Se vuoi far emergere la sostanza, esprimere un’idea, far riflettere… ti devi impegnare di più.
Colore e bianconero, nella didattica, sono altra cosa. Quando insegni fotografia, quando leggi le foto altrui per capire cosa trasmettono, occorre valutare con la medesima intensità, con la stessa attenzione, sia il colore che il bianconero, sia il ritratto che il paesaggio, senza lasciarsi prendere dal gusto personale. Un semplice lettore non sempre riesce a capire cosa voleva dire il fotografo. Occorre fare un percorso dove il continuo studio, il confronto e una costante esperienza sul campo, diventano i compagni di viaggio di questa particolare materia.
Riprenderai a sviluppare le tue foto in bianco e nero, un giorno?
Ti dirò: le macchine (analogiche) sono qui e si vedono, l’ingranditore e la carta fotografica sono nell’altra stanza; aspettano solo di trovare lo spazio giusto, una più idonea collocazione.
La post produzione?
La post-produzione fa parte della creatività è una importante componente espressiva che appartiene a chi opera nell’ambito della fotografia; e un fotografo, un fotoamatore, devono essere liberi di muoversi come meglio credono nelle loro intenzioni espressive. Quindi, in un contesto artistico, la post-produzione è sicuramente importante. Personalmente sono dell’avviso che certi interventi di post-produzione in fotografia siano eccessivi; perché tutto dev’essere perfetto, dove sta scritto? Al contrario, nell’ambito dell’immagine nelle arti figurative e in certe installazioni che vanno oltre il linguaggio fotografico, penso che il fotoritocco e l’alterazione possano essere accettate.
Spesso sono invitato a far parte di giurie in concorsi fotografici dove spesso si pone il problema della post-produzione. Mi è sempre piaciuta l’idea del “Festival della fotografia etica” che si tiene a Lodi a cura del Gruppo Fotografico Progetto Immagine. È un festival che propone un’idea di fotografia “impegnata”, capace di raccontare storie connesse con le persone, con il contesto e con l’informazione allo scopo di dare spazio ad azioni e progetti di valore sociale raccontati attraverso il linguaggio fotografico. In questo concorso sono ammessi solo file RAW, trattati solo con Lightroom, che bene si avvicinano alle pratiche della camera oscura. In camera oscura si va a migliorare il soggetto, non a snaturarlo. Oggigiorno, invece, la post-produzione (fatta con altri software e sistemi applicativi – Photoshop) spesso e volentieri portano il soggetto e la ripresa fotografica in un’area che non gli appartiene. Se per i fotografi creativi Photoshop e gli strumenti digitali sono molto importanti, non altrettanto si può dire per la fotografia analogica dove la creatività è più limitata. Pur rispettando le scelte creative ho difficoltà a chiamare fotografia certi prodotti che sono ben lontani da quelli che io ho conosciuto in passato..
Recentemente ci sono state delle prese di posizione proprio su questo, e anche in concorsi fotografici internazionali molto importanti come il ‘World Press Photo’ l’eccesso di post produzione è stato proibito o ridotto a un livello definito: ‘ammissibile’. Secondo te, è veramente possibile definire un ‘ammissibile’, stabilire una linea di confine?
Non è facile rispondere. Posso farti degli esempi. Nella fotografia naturalistica, il rispetto del contesto è fondamentale: la foto del leone che sembra balzarti addosso dalla foresta nel corso di un reportage, mentre in realtà è stato fotografato in un parco zoo, non può essere ammessa. Se un fotografo, in fase di post-produzione, toglie dalla foto elementi di contestualizzazione e fa sembrare che sia accaduto (o che ci sia) qualcosa che invece non c’è stato equivale a mentire. Il fotografo mostra qualcosa che non è vero. Se si vuole mostrare la natura, si fotografa la natura, non la si ricrea in ambiente artificiale.
Nel settore del reportage vale lo stesso principio, perché il reportage è una rappresentazione del reale per definizione: devi mostrare al tuo pubblico quello che vedi. Anche se è risaputo che la fotografia non è la realtà, ma la scelta di una parte della realtà che il fotografo intende mostrare, una porzione di quella realtà vista in un certo modo, è una sua interpretazione. Però, quantomeno, nel reportage devi cercare di essere vicino a quello che è l’aspetto autentico di ciò che stai osservando. Ci sono stati molti problemi, e molte foto truccate, anche in contesti di grandissima importanza proprio come il ‘World Press Photo’: il lupo che saltava e che in realtà era ammaestrato… persone che non erano quelle che sembravano nella foto ma attori ingaggiati proprio per riprodurre una certa scena … ahimè per gli autori… queste cose sono state scoperte, e non ci hanno fatto una bella figura. La questione è che il normale lettore non ha gli strumenti d’indagine idonei per capire, gli strumenti per determinare se un’immagine è o non è corrispondente alla realtà. Qui s’innesca un problema importante: quello dell’etica fotografica e del potere dell’immagine. Una foto ha una grandissima potenza comunicativa: se si tratta di un’immagine costruita ad arte, con un certo scopo, puoi capire quali possano essere le conseguenze. O le conseguenze di un uso improprio.
È difficile, il lavoro del giurato e del critico.
Difficilissimo. Nel momento in cui non hai la certezza che il fotografo sia stato corretto, si va perdendo il limite fra il lecito e il non ammissibile, come fai a capire? Certo, puoi ingrandire un particolare dell’immagine per vedere se ci sono o no eventuali tracce di manipolazione; puoi leggere i contenuti del file per vedere come e quando è stato scattato. Ma come fa una giuria che si vede arrivare centinaia, migliaia, d’immagini? Non c’è sempre il tempo sufficiente, non ci sono sempre le condizioni.
Abbiamo detto della post-produzione che, se troppo spinta, va bene nei contesti creativi nei quali la fotografia è un tramite ma non un fine. E’ anche vero che sempre più spesso si vede il confine della fotografia spostarsi verso le arti figurative; gli aspetti più terra terra delle difficoltà di valutazione non si incontrano comunque nel contesto artistico, ma nei concorsi competitivi, in quelli in cui partecipi per una medaglia o per un premio. In quei concorsi l’importante è stupire: la giuria normalmente non ha il tempo di valutare correttamente, e quindi devi fare in modo che la tua immagine gli resti impressa nella memoria, così la vede subito e la ricorda; e l’immagine può colpire per la forza del soggetto ma anche perché è stata applicata a essa una post-produzione particolarmente studiata, concepita per quello scopo. Si vede di tutto, si cade, o ci si fa coinvolgere volontariamente, in questo gioco a volte divertente, che non ha nulla a che fare con la fotografia. Io la penso così.
Ora insegni anche Photo Editing. Perché? Da cosa nasce?
Nasce da un’osservazione che personalmente ho avuto modo di fare negli anni, nasce da una convinzione rafforzata sulle difficoltà che il fotografo trova nello scegliere le proprie immagini.
Il fotografo non riesce a scegliere, tutte le sue foto – o perlomeno una buona parte di esse – gli sembrano buone, belle; non è imparziale. E anche quando riesce finalmente a staccarsi da una parte di esse vede le altre con un’ottica molto condizionata, perché ricorda ciò che stava dietro a quell’immagine. Vedere con gli occhi non è come vedere con la fotocamera: per raccontare, bisogna imparare a guardare senza farsi influenzare. Come dicevamo prima, mentre parlavamo dell’insegnamento e delle attività didattiche.
Ho ideato, e progettato, un workshop specifico per quanti si avvicinano o si sono avvicinati alla fotografia per capire, migliorare, modificare la propria scrittura, per produrre e pubblicare storie e racconti fotografici. La realtà è più sorprendente e più misteriosa della nostra stessa immaginazione. La lettura dell’immagine – attraverso i segni, attraverso gli elementi importanti contenuti in una foto – è la prova per verificare se l’emozione che si voleva trasmettere con la foto arriva o non arriva a destinazione. Se quegli elementi importanti sono presenti solo nella mente del fotografo (perché ricorda la scena) e non nella sua foto, questi non potranno essere trasmessi a chi guarda, e quindi è meglio non selezionarla.
La conoscenza della tecnica fotografica è importante per un fotografo?
La tecnica è importante in funzione dell’espressione artistica fotografica, perché ti aiuta a dire meglio. Ma non in funzione di sé stessa. E’ importante se ti permette di esprimere meglio quello che vuoi dire. La profondità di campo ti aiuta a vedere; l’assenza di profondità di campo ti spinge a immaginare. Se però nella foto non c’è nulla, la padronanza della profondità di campo non serve a niente. Scriveva Eugene Smith: “A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?”.
La tecnica, nel tempo, la si può imparare, migliorare. Il desiderio di dire qualcosa, un’adeguata profondità di sentimento esulano dalla tecnica, questa è una strada parallela che non deve essere smarrita.
“Scatti diVersi”
Che cosa diresti ai giovani e molto giovani che vogliono fotografare? Cosa suggeriresti ai tuoi ragazzi delle medie, se fossi ancora con loro e ti chiedessero qual è la strada migliore per iniziare?
Direi loro di andare in biblioteca. Prima di prendere una macchina fotografica in mano, andate in biblioteca, e leggete. Leggete tanti libri, non libri di tecnica fotografica ma libri sui fotografi e sulle loro opere. Scoprite tanti fotografi e avvicinatevi alla fotografia attraverso l’opera di chi ci ha lasciato una traccia, perché riuscendo a capire come hanno realizzato le loro immagini, chiedendosi il perché le hanno fatte e guardando il come, si entra in una grande palestra di fotografia che non ha equivalenti. Tiziano Terzani scriveva: “Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea”.
Ai giovani fotografi direi chiedetevi il perché delle cose. La passione è la cosa più importante, più importante dell’intuito, anche della sensibilità talvolta, e va unita alla costanza e alla volontà di raggiungere un buon risultato; non il ‘miglior’ risultato ma il risultato che vogliamo, che perseguiamo.
Il tuo fotografo preferito?
… e come faccio a risponderti? Tutti.
Dimmi il primo che ti viene in mente, che ti emoziona.
In questo momento penso a Josef Koudelka: nel suo lavoro si può leggere la speranza, la persistenza dell’attività dell’uomo a dispetto della sua fragilità, l’interesse sul paesaggio liberato dalla presenza dell’uomo. Ma penso anche a William Eugene Smith che realizzò in Giappone uno dei suoi reportage più importanti – Minamata – in cui denunciò i tragici effetti dell’inquinamento da mercurio sul genere umano. Fotografi che con le loro foto vanno oltre il visibile, diventando simbolo, spingendoci a riflettere.
Ecco: riflettere con e sulle foto. E’ questo.
8 gennaio 2014 a Trieste – di Roberto Srelz