NonnoPiero (dieci anni di meno).

NonnoPiero, detto come se fosse un nome proprio composto da queste due parole dette tutte attaccate, così mi viene da chiamarlo.

Di lui ho un solo ricordo, di una volta che mi ha portato alle giostre, me e un altro mio cugino più piccolo ed estremamente più vivace. Io, che non brillavo di spirito di iniziativa, specialmente nella disobbedienza, mi sono fatto trascinare dal mio più intraprendente cuginetto. Insieme ci siamo divertiti come matti, nostro nonno un po’ meno. La sua faccia scavata e magra, così curiosamente rassomigliante a quella di Gianmaria Volonté, non lasciava intendere niente di buono una volta che, ripreso il controllo della situazione, ci stava riportando a casa. Ma NonnoPiero  adorava tutti i suoi numerosi nipoti. Così, invece di una punizione ci ritrovammo in mano un gelato.

Di lì a poco è morto, prima ancora che io potessi essere un po’ meno bambino, così da poter accumulare qualche altro ricordo diretto di lui.

Ma alcune storie su di lui mi sono state raccontate, e sono contento che facciano parte di me.

Mi è ritornato prepotentemente alla memoria il giorno in cui sono andato a vedere un concerto presso quelle che un tempo erano le officine Breda a Sesto San Giovanni, gloria del tempo che fu per la siderurgia italiana.

Lui lavorava li, venendo ogni giorno da Bergamo.

NonnoPiero aveva simpatie socialiste. Socialiste di quelle che Craxi non se lo sognavano neanche nel peggior incubo.

Uno sciopero a quel tempo era una cosa seria. Voleva dire rischiare il posto, voleva dire picchetti seri e botte da orbi con la polizia, o peggio: con squadre di picchiatori assoldati dai padroni. Ma mio nonno aveva già una famiglia numerosa caricata sulle spalle e ai picchetti lo facevano passare, che per lui uno sciopero era un lusso, come il cinema alla domenica o la schedina del totocalcio. E lui entrava…gli piangeva il cuore ma entrava.

Di li a poco però per lavorare servì la tessera del partito, di quel partito delle adunate oceaniche, del partito unico, dell’  ”impero”. E quella non l’ha voluta proprio fare…non se l’è sentita. E il lavoro lo ha perso.

Si arrangiò: ambulante, lavoretti vari, sempre con l’acqua alla gola e sempre però con dignità.

La parola stress a quel tempo non esisteva, ma se potessi tornare indietro e spiegargliela lui mi direbbe (in bergamasco ovviamente): – Cazzo sì che ero stressato! –

Lavoro poco, quattro figli e la guerra che è una nuvola a nera all’orizzonte… Se poi ci metti pure una specie di borsanerista, culo e camicia (nera) col “partito”, che ti fa intuire una velata, pesante minaccia ai figli, allora scoppi. E Lui scoppiò. Mani al collo, zuffa, urla… quel che qualsiasi uomo sano di mente farebbe se gli minacci la famiglia. Pagò.

Pesantemente.

Fu denunciato e segnalato ai servizi psichiatrici.

Al tempo in manicomio ci finivi con estrema facilità, e come spesso accade nelle dittature ci finisci spesso per motivi politici, anche se sei solo un povero cristo e non un pezzo grosso. E se non avevi i soldi altro che idromassaggio e bagni di fieno e riposo. E se non c’era qualcuno che si interessava a te non ne uscivi con facilità. Potevi non uscire mai.

Un anno, e l’elettrochoc. Perché Basaglia non c’era ancora e l’elettrochoc era somministrato con la facilità con cui oggi viene somministrata la tachipirina.

E tutti quelli che mi vengono a dire che l’elettrochoc è troppo demonizzato gli dico solo che lui è morto a seguito di un ictus, e che i medici si sono stupiti di come il suo sistema nervoso fosse di dieci anni più vecchio del corpo. L’elettrochoc gli ha rubato dieci anni di vita.

Non oso pensare cosa era là dentro. Posso appena immaginare anche solo la sensazione di impotenza. Tu la dentro e la tua famiglia fuori. So che ne ha parlato poco o niente di quel periodo, che si è tenuto tutto dentro, sotto quella faccia austera e segnata dal freddo della mattina da pendolare in Brianza.

Ma in quell’anno in bilico, sospeso sul nulla di un luogo che può cancellarti lui rimane l’uomo che è. Conosce un ragazzino con un piccolo ritardo che è lì solo. Soli e deboli in un luogo come il manicomio immagino sia uno stillicidio di sofferenza, di incapacità di comprendere perché ti accada quel che accade. Per tutto un anno mio nonno se ne prende cura, lo protegge. Le cose, poche, che gli vengono portate durante le visite…cibo…giornali. Le divide con lui e gli sta vicino. In quel tempo di caos, dopo un ingiustizia e in mezzo a quella sofferenza non perde il senso della compassione, dell’etica.

Fa quel che umanamente ritiene giusto: aiuta un debole.

Dopo un anno di pressioni e richieste dei familiari, mio nonno riesce ad uscire da li. La guerra, la confusione…. E perde le tracce di questo ragazzino. Credo sia un altro dei suoi silenziosi rammarichi.

Personalmente credo che quei dieci anni di vita li abbiano rubati anche a me, togliendomi la possibilità di conoscerlo meglio, lasciandomi solo il rammarico di averlo solo conosciuto come nonno, e non come uomo. E allora mi aggrappo a questa storia, che non si perda, che mi aiuta a capire un po’ meglio cosa sia l’etica, di come abbia un senso…un valore Di come anche di fronte al nero più nero possa essere una piccola luce che ti permette di orientarti quando rischi di smarrirti.

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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