Auschwitz - Vincenzo Russo (reportage)

Non è un’opinione: Auschwitz.

«C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.»

Questa citazione di Primo Levi appare nel libro di Ferdinando Camon “Conversazioni con Primo Levi”, e mi risuona in testa, a volte come un sussurro lontano, a volte come una affermazione stentorea, sin da quando ho visitato Auschwitz,  e quindi  non potevo che iniziare  mettendola nero su bianco.
Il campo di sterminio simbolo della Shoah è una costellazione, un vero e proprio arcipelago di strutture a cui noi generalmente ci riferiamo inserendolo tutto in un enorme scatolone con sopra l’etichetta “Auschwitz”. Questo scatolone che giace ben aperto poco distante da Cracovia, mi rendo conto scrivendo di quanto facilmente nella memoria collettiva dell’Europa si tende a semplificare.
I più quando pensano al campo di sterminio per antonomasia lo immaginano come un unico edificio. Pochi pensano a due edifici. Pochissimi sanno che si trattava di un insieme di oltre quarantacinque tra campi e sottocampi. Tra questi Monowitz, l’Arbeitslager, il campo da lavoro, quello dove resistette Primo Levi sino all’arrivo dell’armata rossa.

Auschwitz non era un edificio o un complesso di edifici. Era un metodo. Era mobilitazione merci. Era smaltimento rifiuti.

L’Auschwitz simbolo, quello della scritta in ferro battuto ”Arbeit macht frei”, è una ex caserma dell’esercito polacco adibita a campo di prigionia e sterminio, dove muoiono tra le quindici-ventimila persone e dove vi si inizia a raffinare il metodo scientifico di eliminazione, che porta fra le altre cose alla sperimentazione dello Zyklon B – che oltretutto era, a parer mio non a caso, inizialmente un antiparassitario.

Auschwitz è anche il nome tedesco che viene immediatamente dato alla cittadina di Oświęcim, come a dire che un progetto costruito con estrema cura ha bisogno di un nome nuovo, che possa assumere immediatamente solo e unicamente il valore evocativo dello scopo del progetto.
A meno che non ci si costruisca una solida preparazione di partenza, ogni visita al cosmo Auschwitz merita probabilmente una guida, a rischio di beccarsene una saccente e frettolosa che non prende minimamente in considerazione l’idea che un essere umano che lì si rechi abbia bisogno di un minimo di lentezza per sostenere l’impatto con un orrore simile. La visita guidata prevede come luoghi Auschwitz ed Auschwitz Birkenau ed io, entrando, prego di non ritrovarmi assieme a visitatori che lì si recano senza portare con sé nemmeno un briciolo di empatia o peggio: visitatori che cercano una gloria che fu – qualsiasi gloria – e non la memoria di un orrore.

Auschwitz è claustrofobica. Poco spazio tra una palazzina e lì altra, folate di vento che sollevano un terriccio rosso come i mattoni che qui sono il materiale più usato, che poi riconosci pure nelle case vecchie del paese.
Auschwitz Birkenau è immenso, terribile. Dimostrazione che la scomparsa di ogni briciola di umanità non sia necessariamente legata al caos, ma che anzi, credo abbia più spesso un aspetto ferocemente ordinato da una geometria che atterrisce e lascia muti.
Quando mi ci ritrovo dentro sono avvolto da un silenzio terribile. Ogni altro suono, sia esso lo scalpiccio lento e basito degli altri visitatori o la voce bassa ed insieme penetrante della guida, scompaiono. Vengono ingoiate dalla immensità del cielo e dell’orizzonte della pianura polacca. Lo sguardo pare diventare un grandangolare in uno spazio amplificato dalla scarsità di alberi, dalle geometrie delle baracche di legno, dalla spina dorsale della linea ferroviaria che portava direttamente al centro del campo gli internati.
Mi vengono in mente le conversazioni senza fine fatte con un revisionista tempo fa. Il suo essere assolutamente impermeabile ad ogni logica. Al tempo non avevo ancora visitato Auschwitz ed ero solamente attrezzato di statistiche, ma ahimè con chi nell’adolescenza si arma solamente della volontà di voler “essere contro” non servono a gran ché. E anch’io ero adolescente, di idee opposte ma con un risibile desiderio di sostenere un contradditorio che oggi troverei solamente uno spreco di energie che, appunto, solo un adolescente può permettersi.

Auschwitz va respirato. Va sentito.

L’esigenza di staccarsi dalla massa quando arrivi nel deserto di Birkenau è una impellenza fisica. Si avverte il bisogno di restare avvolti e strattonati dal silenzio che questo luogo produce nella sua capacità di annegare ogni altro suono nell’immenso orizzonte spoglio che lo circonda.
Solamente un suono cattura l’attenzione.
Il canto degli uccelli. Ghiandaie, credo. Che improvvisamente attraversano il cielo emettendo il loro cicaleccio stridulo e piacevole. È questo un suono che ti porta lo sguardo al cielo e ti lascia sgomento.
Le luci basse della mezza stagione che colorano tutto di un rosso lieve, l’erba che diventa improvvisamente di un verde più intenso, le nuvole che paiono essere scogli microscopici in un mare immenso. Perché davvero se l’orizzonte della pianura polacca è immenso, il cielo è quanto di più prossimo all’infinito abbia mai visto.

Così, quando ho alzato lo sguardo attratto dal canto degli uccelli, ho realizzato quanto fosse bella quella giornata.
Il sole basso dava a tutto un colore caldo e vivido, le ombre lunghe e distese con dolcezza, il verde intenso che staccava dall’azzurro brillante di quel cielo appena solcato da nuvole che parevano essere messe li apposta per essere tinteggiate dal calare della luce.
Ho realizzato che quella magnifica giornata, quel cielo stupendo, almeno una volta avrà sovrastato così come oggi quello che era l’inferno in terra, il cantiere di una necropoli di almeno un milione e mezzo di anime stritolate persino nella facoltà di gridare di dolore.
Ho pianto un po’, confesso a rischio di apparire melenso e melodrammatico.
Ma è così.
Il dolore attanaglia chiunque la dentro, senza bisogno di pensare alla statistica, alle cifre.
Auschwitz è un luogo che dimostra che la sofferenza è a volte una sostanza che riesce a impregnare il suolo, ad aggredire l’empatia con una quieta violenza.

Questo almeno ho provato io.

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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