My Way: intervista a Teddy Reno

Teddy Reno MY WAY 2013-2014 Trieste

 

Teddy Reno, nato a Trieste nel 1926, è un cantante, attore, discografico e talent scout.
Ha festeggiato i suoi settant’anni di carriera e ottantotto anni di vita con un recital dal nome “My Way”, tenutosi in piazza Verdi a Trieste, lunedì 18 agosto 2014, alle 21.00.

Che aria si respirava a Trieste, quando c’erano gli alleati?

Una bellissima aria: gli alleati, con la vittoria, avevano determinato la fine della guerra e di tutte le atrocità che soprattutto i tedeschi avevano fatto, fino a quel momento, ma anche quelli della Repubblica di Salò, nelle ultime fasi della guerra. Quindi, l’arrivo degli alleati ha rappresentato il ritorno alla libertà. Nei nove anni, in cui Trieste è stata governata dal Governo anglo-americano, non è mai successo niente di grave. Gradatamente Trieste è ritornata alla normalità, e nel ’54 è poi tornata all’Italia.

E che tipo di musica si ascoltava nel periodo della guerra a Trieste?

Fino alla fine della guerra si sentivano alcune grandi melodie italiane, magari di cinquanta, cento anni prima, come “O sole mio”, “Non ti scordar di me”, “Mamma”, eccetera, e poi i tedeschi avevano lanciato una canzone che si chiamava “Lili Marlene”, che diventò un grande successo e tutti la cantavano. Poi verso la fine del ’43 mi sono allontanato da Trieste…

Come mai aveva lasciato la sua città?

Mi ero dovuto allontanare, in fretta e furia, con tutta la famiglia da Trieste, perché mentre mio padre era cattolico, mia madre era di estrazione ebraica – si era sposata con mio padre solo civilmente – ma le famigerate Leggi Razziali – iniziate da Hitler e riprese poi anche da Mussolini dal ’38 in poi – guardavano anche alle origini di una famiglia. Io sono nato cattolico – sono stato battezzato nella chiesa di Sant’Antonio Nuovo a Trieste – e invece, solo per il fatto che mia madre fosse di estrazione ebraica, per le Leggi Razziali, io ero ebreo; e allora abbiamo avuto la segnalazione che stavano per prendere me e mia madre e portarci in campo di concentramento. Mio padre era direttore generale di una delle più grandi industrie conserviere d’Italia: l’Arrigoni, che era di proprietà del fratello di mia madre: Giorgio Sanguinetti – anche lui d’estrazione ebraica – che possedeva diciassette fabbriche in tutt’Italia, di cui mio padre era il direttore generale e quindi conosceva molte persone. Fu così che qualcheduno della questura di Trieste fece una soffiata a mio padre, avvisandolo del pericolo che stavamo correndo: se non ci avessero avvertiti, saremo finiti a Buchenwald, o ad Auschwitz, i famosi campi di concentramento. Siamo scappati nottetempo, e siamo andati via da Trieste; siamo rimasti lontani dalla nostra città praticamente per due anni: il ’43 e il ’44. Nel ’44 ho cominciato la carriera di cantante esibendomi al Teatro Novelli di Rimini: avevo diciotto anni; e poi, a causa della guerra, siamo rimasti nascosti in una tenuta agricola che avevamo nel Basso Ferrarese, nella zona di Codigoro. Proprio sul finire della guerra, quando mancavano poco più di quattro mesi alla fine del conflitto – conclusosi nell’aprile del ’45 – e più esattamente, i primi giorni del dicembre del ’44, sono arrivati i fascisti di Ferrara e volevano arrestare, praticamente, tutta la mia famiglia, e portarla nel carcere di Codigoro. Erano capitanati dal capitano Jannuzzi che, tutto sommato, era un uomo di cuore; quando mi ha visto mi ha chiesto: “Tu cosa vuoi fare da grande?” E io gli ho risposto: “Voglio cantare!” E lì per lì ho improvvisato l’inizio di una celebre romanza dell’Aida di Verdi, che si chiama “Celeste Aida” e loro sono rimasti tutti sorpresi dalla mia voce – inizialmente, pensavo di diventare un cantante lirico, non un cantante di musica leggera.

E poi…com’è andata a finire?

Ci hanno portati nel carcere, dove siamo rimasti dodici giorni. Durante l’ora d’aria, per i detenuti cantavo tutte le canzoni italiane in voga in quel momento: “Ba ba baciami piccina” – una canzone lanciata da Alberto Rabagliati – poi “Il primo pensiero d’amore”, oppure, andando più indietro ancora, “Non ti scordar di me”, “Mamma”…Mentre camminavo, cantavo, e anche le guardie fasciste, che ci sorvegliavano, cantavano con me. Così sono diventato popolare in questo carcere di Codigoro. Praticamente, durante quest’ora d’aria, facevo una specie di show per i detenuti.
Un giorno, mentre stavo nel carcere – era di 4m x 4, e dove, al posto dei letti, c’era un pagliericcio alto un metro – il Capitano Jannuzzi mi aveva fato chiamare nel suo ufficio, e mi aveva detto: “Canti tutti i giorni per gli altri, adesso devi cantare anche per me”; così siamo diventati quasi amici. A guerra finita e persa dai fascisti, dopo essere rientrato a Trieste, la moglie di Jannuzzi mi aveva chiamato per dire che stavano per processare suo marito fascista – rischiava la pena di morte – e ci aveva scongiurato di correre lì – era proprio il giorno prima dell’udienza – per testimoniare a favore del marito: lui con noi si era comportato in maniera umana, e non potevamo non riconoscerglielo, così abbiamo detto la verità, salvandogli la vita.

Durante la sua permanenza, nel Basso Ferrarese, prima di finire in carcere, quale musica ascoltava?

Nel periodo in cui stavo nella nostra tenuta agricola, e cioè dalla fine del ’43 fino a tutto il ’44, in tutta l’Italia del Nord, era in vigore un bando firmato dal feldmaresciallo Kesslering – era il comandante in capo di tutti le armate tedesche del Sud Europa – che diceva testualmente: “Chiunque sia trovato, in flagrante ascoltazione della radio nemica, sarà fucilato sul posto”. Io stando da solo in questa tenuta, lontano da occhi e orecchi indiscreti, sentivo continuamente la radio americana, e mi sono imbattuto in uno che era famosissimo in America già da prima della guerra, un certo Frank Sinatra. Lui è stato, per così dire, il mio professore d’inglese: era l’unico cantante che faceva capire tutte le parole che cantava. Avevo anche i dischi linguaphone per imparare l’inglese, perché ormai s’era capito che la guerra stava per finire, e stavano per arrivare gli alleati.

Quando è ritornato a Trieste, ha continuato a cantare?

Quando sono tornato a Trieste, sono diventato l’interprete del colonnello Jakobson, il quale presiedeva tutti i mass-media della Venezia Giulia: Radio Trieste, Il Piccolo; insomma tutti i mass-media dipendevano da questa sovrintendenza del colonnello Jakobson. Facendo l’interprete, guadagnavo dei bei soldini, perché pagavano in dollari. A volte alla sera, quando uscivo a cena con il colonnello, continuavo a cantare – avevo la fissa di cantare (ride) – e lui diceva: “What a great voice! That’s great!” Lui era americano, parlava l’americano, che è un po’ diverso dall’inglese d’Inghilterra; mi faceva cantare, e io cantavo ovunque, anche nelle trattorie, oppure all’Hotel de la Ville. Jakobson mi aveva presentato ad un’orchestra che girava per le truppe americane in tutta Europa, che si chiamava “Teddy Foster Band”. Si era ammalato il cantante dell’orchestra – una peritonite fulminante – e non potevano debuttare ad Aviano, ma siccome io conoscevo tutte le canzoni americane – per due anni avevo sentito la radio inglese e la radio americana, tutti i più grandi cantanti: Bing Crosby, Duke Ellington, tanto per citarne qualcuno – dissi: “What’s the problem? I can do that!”, e così ho debuttato ad Aviano, al posto di questo cantante, con l’orchestra di Teddy Foster, ed è stato un successone! Lui mi ha preso fisso, e abbiamo girato per un anno e tre mesi per tutta l’Europa, dovunque ci fossero le truppe anglo-americane. Ecco, così sono diventato un cantante.

Mi racconta le origini del suo cognome?

Come ho già detto, sono nato cattolico e sono stato regolarmente battezzato, mio padre era italianissimo, ma di antica estrazione austriaca e in quel momento si chiamava Merk; infatti quando sono nato io, nel ’26, mi chiamavo Merk. Merk von Merkenstein, invece, era il nome della famiglia, però nel 1932, il Duce Benito Mussolini, ordinò l’italianizzazione di tutti i cognomi di origini slovena o austriaca: mio padre prese il nome Ricordi; per cinquant’anni io sono rimasto Ferruccio Ricordi, per tutti quanti, oltre che Teddy Reno, in arte. Poi quando, nel ’68, per ragioni personali – il padre di Rita non era troppo contento del nostro matrimonio – io e Rita, siamo andati a vivere in Svizzera, nella Svizzera italiana – il Canton Ticino – le autorità elvetiche, hanno cancellato il provvedimento che mi aveva tolto il cognome originario e così ho potuto riprendere il cognome Merk.

Cosa mi racconta di Lelio Luttazzi?

Nel ’47, al rientro dalla tournée con la “Teddy Foster Band”, visto che ero riuscito a mettere da parte un po’ di soldi, sono partito per Milano con l’intento di fondare la CGD (Compagnia Generale del Disco). Ho preso gli uffici in Galleria del Corso 4 e poiché era dicembre, sono rientrato a Trieste per le feste. Un giorno mentre ero nei pressi dell’Hotel de la Ville – il secondo albergo di Trieste dopo l’Excelsior – ho sentito qualcuno che suonava: era Lelio Luttazzi.
Allora sono andato da lui, e gli ho detto: “Cos’te fa? Come xe? (i triestini dicono “come xe”). Lui era stufo di fare il piano-bar per gli americani: era già da due anni, dalla fine della guerra, che per guadagnarsi da vivere faceva il piano-bar. A me piaceva moltissimo come suonava: aveva il jazz dentro di sé, così come l’avevo io. E così ghe go dito: “Te vol vegnir in zerca de fortuna con mi a Milan? Perché sto fondando la CGD”. Ha accettato e il primo gennaio del 1948 siamo partiti per Milano. Lelio nel frattempo si era sposato con una certa Magda Prendini – la prima moglie, la seconda si chiama Rossana. Quando è arrivato a Milano, gli ho trovato la casa, e poi l’ho scritturato come una specie di braccio destro artistico: faceva tutti gli arrangiamenti per me e per tutti gli altri cantanti; poi ci siamo presentati alla Rai, per fare concerti. Abbiamo fatto un sacco di tournée in Italia nei principali teatri, e siamo diventati amici fraterni. Nel ’53, quindi cinque anni dopo la fondazione della CGD, lui ha lasciato la moglie per andare a Roma con la segretaria, una certa Giancarla Mandelli – sorella di quella che sarebbe diventata la famosa stilista Krizia.
In seguito, ogni tanto, abbiamo fatto delle altre collaborazioni. Dopo il trasferimento a Roma di Lelio, ho preso altri maestri fissi per la CGD, ma continuavamo a vederci: andavo a trovarlo a Roma, uscivamo, andavamo al cinema, andavo a dormire anche a casa loro; insomma, siamo sempre rimasti amici. Lui è diventato poi una delle colonne della Rai: faceva gli spettacoli del sabato sera. Però, tutta la fase iniziale della carriera mia e di Lelio, che è durata sei-sette anni, l’abbiamo fatta insieme: lavorando giorno e notte, giorno e notte io e Lelio.

Com’era Lelio Luttazzi come persona?

Lelio Luttazzi era un uomo intelligentissimo, gli piacevano molto le donne: si è sposato due volte, e ha avuto molti filarini – mi ricordo che tanto tempo fa s’era preso una cotta anche per Maria Scicolone, la sorella di Sophia Loren. Era portato per la musica, in particolare per quella di estrazione jazzistica. Con me, alla CGD, Lelio ha avuto la possibilità di fare quello che non avrebbe potuto fare in nessun’altra casa discografica, perché, in Italia, nessuno avrebbe mai osato fare delle canzoni cantate in inglese, e lui invece ha avuto anche l’abilità di fare degli arrangiamenti che ricordavano vagamente un grosso arrangiatore di Sinatra, che si chiamava Alex Stordahl. Lelio Luttazzi ha introdotto in Italia un sistema d’arrangiamento musicale americaneggiante. Dal’48 al ’54 siamo stati insieme mattina e sera, ventiquattro ore su ventiquattro: siamo andati in Egitto, al tempo di Re Faruq – quando l’Egitto era ancora in mano ad un re – abbiamo visto le piramidi, andavamo a donne (ride) come si suol dire. Abbiamo avuto un’amicizia proprio strettissima, che poi è rimasta. Quando Luttazzi è andato via dalla CGD, ho scritturato Gianni Ferrio, che fra l’altro è diventato anche lui un grossissimo nome, perché, dopo Lelio, è stato lui a prendere il sabato sera. In un certo senso, porto fortuna alla gente, no?
Lelio è poi tornato a vivere a Trieste, in piazza dell’Unità d’Italia, in un appartamento che gli piaceva moltissimo. Ricordo che quando nel 2010 mi avevano avvisato della sua morte – ero in vacanza in Spagna, sull’isola di Maiorca, con mia moglie Rita Pavone – è stato uno dei momenti più brutti della mia vita. Da quando ero andato a vivere in Svizzera, non ci frequentavamo più tanto, e quindi non ci si vedeva più da anni, ma quando si è fatto e vissuto tutto ciò che abbiamo fatto e vissuto noi due, si rimane amici fino all’aldilà e spero anche nell’aldilà. Quando sarò in Paradiso, proporrò a Lelio di fare il Primo Festival degli Angeli…continuerò a fare il talent scout anche lì…(ride)

Fin dalla fondazione della CGD, lei ha sempre scoperto nuovi talenti. Cosa mi dice della sua attività di talent scout?

Nella mia vita ho avuto due anime: quella del cantante e attore e poi quella di talent scout e discografico. Agli inizi della CGD ho lanciato cantanti che poi sono diventati famosi, come Jula De Palma, Betty Curtis, Johnny Dorelli. Per molti anni ho lavorato come attore e come cantante, poi è arrivata la seconda parte della mia carriera. Tutto è iniziato sui Castelli romani, quando ero assessore alla cultura del comune di Ariccia, che è una località vicino a Castel Gandolfo – residenza estiva dei papi. Ecco, lì è venuta fuori la mia seconda anima, che è quella di scoprire giovani talenti. Mi sono inventato la Festa degli Sconosciuti, e lo slogan della manifestazione era: “Perdete la S”, ossia “Da sconosciuti diventate conosciuti”. A questi ragazzi io non dicevo che sarebbero diventati famosi, ma almeno un po’ conosciuti sì; era comunque una buona opportunità per loro. La Festa degli Sconosciuti è stato il primo grosso talent show, anche televisivo, prima di tutti gli altri – adesso ce ne sono tantissimi. Sono stato il primo a fare questo talent show per i giovani. La prima che ho lanciato è stata Rita Pavone, che ha vinto la prima edizione del concorso nel ’62. Nel ’63 ha vinto Dino – un bel ragazzo di Verona – che ha avuto una buona carriera anche se non paragonabile a quella di Rita o di altri. Poi ci sono stati Shel Shapiro e i The Rokes, che è stato il primo gruppo rock italiano insieme con l’Equipe 84, poi il cantante Mal.
Nel ’68 ha vinto un ragazzo romano, che ho seguito in tutti i suoi primi passi, che si chiama Claudio Baglioni. Claudio Baglioni ha iniziato la carriera scrivendo una canzone per Rita, in Francia, che si chiama “Bonjour la France”, ed è stato un successone: hanno venduto novecento mila copie. All’epoca lui era ancora totalmente sconosciuto in Italia, invece quando venne sulla Tour Eiffel per festeggiare le prime quattrocento mila compie vendute, tutti i francesi esultarono. Lui aveva circa 17 anni, era un ragazzino, e in Francia lo chiamavano Monsieur Baglionì, dicevano “C’est fantastique chanson” e lo trattavano come un grande maestro. Era il 1972, Claudio non aveva fatto ancora niente in Italia e aveva deciso di lanciare il suo primo successo: “Questo piccolo grande amore”, che fu un grande successo e da lì è poi diventato il Baglioni che tutti conosciamo. Però tutti i passi iniziali li ha fatti con me: io gli ho fatto fare il contratto con la RCA italiana per lanciare la canzone, che lui aveva scritto, ma che aveva cantato Rita in Francia. Così s’è fatto un nome e ha anche guadagnato dei bei soldini come compositore, e poi si è auto lanciato, perché, era intelligentissimo, ha saputo amministrarsi molto bene, ed è tutt’ora uno di quelli che richiama tanta gente nei teatri. Per esempio, la ragazzina di diciannove anni, che ha cantato durante il mio concerto a Trieste, ha le qualità in sé, per poter diventare una showgirl: sa recitare molto bene, sa ballare, e sa anche cantare. Lei – Elisa Riccitelli – è la mia ultima scoperta, per il momento; poi non so se diventerà famosissima oppure famosa, o soltanto nota, questo lo deciderà il destino.
Anche Sylvia Pagni, che mi ha accompagnato musicalmente durante il mio recital, è stata una mia scoperta; al pianoforte è davvero bravissima. Purtroppo, nessuno l’aveva presa in considerazione prima di me. Ormai lavoriamo già da sei anni insieme, sia in Italia che all’estero. Siamo diventati talmente affiatati, che lei mi fa perfino delle domande giornalistiche, durante lo spettacolo, per farmi spiegare le cose. Io ho inventato questa forma di talk show musical: in parte racconto delle cose, e in parte canto delle gran belle canzoni americane, italiane, e napoletane. C’è davvero un grande affiatamento fra me e Sylvia Pagni.

È veramente brava, anche con la fisarmonica…

La fisarmonica la suona benissimo, e penso che faremo delle cose anche con la fisarmonica. L’unico che ha suonato questo strumento così bene è stato Gorni Kramer – il più grande e noto maestro della Rai. Nessuno è mai riuscito, secondo me, ad imitarlo, l’unica che c’è riuscita, in buona parte, è proprio Sylvia Pagni. Faremo insieme anche delle cose discografiche, e poi c’è questo disco dedicato a Papa Francesco, che in piazza, a Trieste, ha avuto un grosso successo.

Sì, è proprio una bella canzone. Mi parli di questo brano…

La canzone arriva al pubblico, è un tango argentino un po’ modernizzato, ma non è quello definitivo: quello che abbiamo fatto sentire è un provino, adesso verrà messo a posto l’arrangiamento, ci saranno dei bambini che canteranno. E poi verrà lanciato in tutto il mondo contemporaneamente in cinque lingue: italiano, spagnolo, francese, tedesco e inglese….
Questo è un tango le cui parole hanno un grosso significato: parla di una nuova umanità che dovrebbe cacciare via tutti i mascalzoni che ci sono, in tutti i campi. Il mondo dovrebbe andare avanti, e non ci dovrebbe essere gente ricchissima e gente poverissima; il senso della canzone è un po’ questo.

È una specie di inno alla speranza…

Sì, un inno alla speranza. Speriamo in questo Papa, che è veramente una persona eccezionale: io c’ho parlato, ed è un uomo fuori dal comune, di una semplicità disarmante…

Lei ha incontrato tante persone importanti, c’è qualcuna che le è rimasta più impressa nella mente?

Dei personaggi importanti, quello che mi è rimasto più impresso nella mente, è stato il Papa con la sua incredibile semplicità. È l’uomo che mi ha colpito più di tutti…

Che emozione ha provato a cantare a Trieste, la sua città natale?

Ero molto emozionato e cercavo di fare, ogni tanto, una battuta scherzosa, proprio per calmarmi internamente; ma indubbiamente, alla fine dello spettacolo, ero un po’ distrutto (ride). Il pubblico mi ha accolto in una maniera favolosa. Più affettuosi di così, non potevano essere, e quindi ho avuto una grande emozione anche proprio per il calore del pubblico. Finito lo spettacolo tutti quanti sono venuti a stringermi la mano, e mi hanno chiesto: “Quando te torni a Trieste?”.

E cosa ama di più di questa città?

Innanzitutto i triestini, e poi, se dobbiamo proprio fissare un punto, se non altro perché domina Trieste, il Castello di San Giusto.

Ringrazio il cantante Teddy Reno per la sua gentilezza, disponibilità e simpatia.

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

 

2 commenti su “My Way: intervista a Teddy Reno”

  1. Dopo aver letto l’intervista a Teddy Reno (Ferruccio Ricordi), mi rendo sempre più conto come lui si possa definire uno dei principali protagonisti della canzone italiana dal dopoguerra in poi, prima come cantante, poi come discografico e talent scout. Insieme a lui Lelio Luttazzi, altro personaggio importantissimo nel campo musicale triestino e nazionale, e loro due, in società, fecero davvero grandi cose. Molto interessante l’intervista a Teddy di Nadia, che, come al solito, ha saputo “scavare” nella persona intervistata, traendone confidenze e notizie, molte delle quali finora affatto note.
    Trieste, in occasione del recente concerto, ha dimostrato ancora una volta il suo grande affetto per Ferruccio, cosa sottolineata con commozione da Teddy verso la fine dell’ intervista.
    Per concludere, lettura piacevole per le notizie contenute, non solo musicali, ma anche storiche.

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