Musica 101 – talent sì o no?

Uno dei fenomeni recenti che ha cambiato e continua a imporsi nel panorama musicale è quello dei “talent”: attraverso un percorso fatto di sfide e continue selezioni, viene presentato un artista che si presuppone essere “talentuoso”, fresco, nuovo. A scegliere è anche il pubblico, coinvolto sin dalle prime fasi, che diventa parte attiva e deus ex machina all’interno dell’intero percorso del vincitore. Per quanto un sistema del genere sia incredibilmente semplice ed efficace, l’impatto di questo tipo di pubblicità artistica crea numerosi equivoci: da un lato si mette in discussione l’arte in quanto tale, creando spesso situazioni imbarazzanti come la discussione fra Ultimo e Mahmood al Festival di Sanremo; dall’altro lato, si viene a creare confusione sul concetto stesso di talento che non diventa più sinonimo di novità e ricerca ma di conformismo e progettualità a breve termine.

Il problema è che facendo così si tende a mitizzare il banale, senza alcun senso critico. Attenzione però a non cadere nella trappola della soggettività: ciò che non piace non necessariamente implica non sia importante. In altre parole, i veri artisti non necessariamente sono soltanto coloro che sanno cogliere il loro tempo e il contesto entro cui vivono. Eppure si tende a giustificare sempre più spesso scelte artistiche “sbagliate” oppure oggettivamente brutte facendo ricorso a critiche sterili, osservando realtà limitanti o, ricollegandosi al discorso, mitizzando il talento. Il nodo cruciale della questione è proprio questo: l’artista, soprattutto se incompetente, cercherà di salvaguardare il suo prodotto mediocre a ogni costo e il pubblico, traviato da una logica marcia e distruttiva come quella dell’industria musicale, perderà man mano il proprio senso critico.

È evidente che la logica del talent è mutata dalla ricerca del nuovo al continuo riproporsi di modelli: se cinquanta anni fa la possibilità di diventare popolari a livello musicale era data dalla capacità di proporre musica sempre più originale, oggi tale requisito corrisponde a un misero 50% del lavoro. L’artista non è quindi più in grado di saper rispondere alle critiche più aspre, di saper artisticamente farsi valere, giustificandosi con frasi tipo “haters gonna hate” (letteralmente, “chi vuole odiare odierà”). Viceversa, come pubblico non si è più in grado di saper distinguere fra un buon prodotto e uno mediocre, poiché la fiducia che si è acquista guardando il nostro artista preferito crescere va oltre l’espressione musicale.

I talent sono quindi un problema? No, ma è necessario fare una specificazione: non sono un problema in quanto identificano un’evoluzione pubblicitaria efficiente che, col passare del tempo, ha cambiato la promozione culturale a tutto tondo; allo stesso tempo sono un problema perché anestetizzano l’individuo e la fruizione, ponendosi come sintomo di una logica di mercato estremamente consumistica. La verità sta quindi nel mezzo: chi ascolta deve essere capace di saper scindere fra un prodotto buono o cattivo; un buon artista deve essere in grado di giustificare o rinnegare le proprie scelte artistiche, senza nascondersi dietro frasi fatte o luoghi comuni; un’industria musicale intelligente deve saper creare un talent che promuova l’impegno e il duro lavoro degli artisti, distaccandosi completamente dall’erronea equazione che talento e genio siano la stessa cosa. Talent sì o no? La risposta definitiva è positiva, a patto che sia la dimostrazione dello studio, dell’impegno personale e della crescita artistica, nell’ottica di avere un’influenza positiva sull’ascoltatore medio. In caso contrario, come direbbe Mara Maionchi, «per me è no!».

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