Nel corso degli articoli di questo format si è spesso delineato un sottile confine fra “leggero” e “serio”. La musica, come è ovvio, è materia di grande complessità la cui storia si basa anche sul continuo scambio fra popolare e intellettuale: si pensi alle sperimentazioni elettroniche del secondo Novecento che hanno portato alla costruzione di sintetizzatori come quelli di casa Moog resi famosi da icone della musica rock come Keith Emerson e Rick Wakeman o da gruppi pop come i Kraftwerk; volendo fare una considerazione più storica, si pensi alle tradizioni del canto liturgico e l’avvento delle prime sperimentazioni polifoniche, dove i canti popolari prendono in prestito melodie gregoriane per usarle come “tenor” (la voce su cui viene costruito il contrappunto melodico) e la musica sacra che comincia a sfruttare la polifonia come esaltazione intellettualistica della Parola. La domanda sorge quindi spontanea: esiste (o è mai esistito) un confine netto e preciso fra musica leggera e musica seria, fra popolare e intellettuale?
Ancora una volta, si fa riferimento alla prima puntata di “C’è musica e musica” di Luciano Berio, e più precisamente a un’intervista fatta al compositore Paolo Castaldi che, interrogato su questa dicotomia del fare musicale, dice: «Si potrebbe naturalmente intendere dal punto di vista puramente nomenclatorio, musica “leggera” e musica “non leggera”, cioè “seria”, cioè la musica senza aggettivi. Allora la prima bisognerebbe che fosse discussa come fatto sociologico, piuttosto che come fatto musicale, perché a parere di molti – e un po’ anche mio – non è veramente musica perché, per definizione, musica è quella che è fatta secondo i gusti di chi la compone, mentre invece la musica commerciale non è fatta secondo i gusti di chi la compone ma secondo il gusto di chi la deve consumare, cosa che è in conflitto col concetto stesso di composizione». Eppure esiste un lato “serio” del commerciale, evidente al consumatore medio: per portare alla luce un esempio molto recente, da qualche settimana è disponibile il nuovo singolo di Billie Eilish “everything i wanted”, dove la giovane e talentuosa cantante diciassettenne racconta di aver sognato di suicidarsi lanciandosi dal Golden Gate Bridge senza che nessuno si accorga di questo suo gesto, senza nessuno che la pianga o che la ricordi. Nel corso della storia della musica pop ci sono, infatti, numerosi brani o concept così seri, quasi psicanalitici e incredibilmente personali. Un caso noto all’ascoltatore medio è la rock-opera “The Wall” dei Pink Floyd, dove il protagonista, alter-ego del bassista Roger Waters, vive nell’ordine la morte del padre durante la battaglia di Anzio nella seconda Guerra Mondiale, il bullismo da parte dei professori, la morbosità della madre, un matrimonio sfortunato e gli abusi di alcool, sesso e droghe tipico dello stereotipo della rockstar. Di esempi così se ne trovano a milioni: si pensi ai testi di personaggi come Lou Reed, Kurt Cobain e Ian Curtis o a quel blues quasi macabro quanto sofferente degli anni Trenta.
Tornando sull’affermazione di Castaldi, è evidente come per “musica” egli intenda in realtà un concetto più alto, quello di “arte”. Tuttavia, gli esempi riportati ricadono in questo concetto, poiché i brani o i dischi di cui sopra non riflettono esclusivamente un gusto commerciale, bensì sono il mezzo attraverso cui l’artista esprime sé stesso a prescindere dal successo del brano. È possibile quindi valutare il “pop”, che è sempre stato considerato “musica leggera”, come una categoria a parte che può essere a sua volta suddivisa in “leggera” e “seria”? In realtà, questa domanda è una mera provocazione: la musica, infatti, non dovrebbe essere percepita come una massa scindibile in compartimenti stagni precisi e netti. La forza di questo tipo di espressione artistica è proprio quello di poter giocare con le diverse sfumature dell’essenza umana: la suddivisione, per dirla alla Nietzsche, fra apollineo (il razionale) e dionisiaco (la pulsione animale) è limitante dato che sussistono sovrapposizioni fra questi due mondi. In altre parole, la musica è l’equivalente del colore grigio, ovvero quella tonalità cromatica che tende ai suoi due estremi, il bianco e il nero. Il “vero” grigio, ovvero l’esatta ripartizione di bianco e nero, è difficile da cogliere e ricreare a occhio, poiché occorrono dosaggi accurati fra i due estremi: quanto è possibile scendere nel dettaglio, senza approssimarne i valori? La risposta è infinitamente. Tornando al nostro discorso, è possibile parlare di “pop serio” e “pop leggero”, ma il punto è un altro: questi due aggettivi non sono due facce della stessa medaglia, ma poli attraverso cui la dialettica musicale sottende. Un confine netto fra i due poli è relativo e inutile: non è proprio questa condizione relativistica il vero motore della manifestazione artistica?