Questa settimana mi trovavo nel mio paese, Tarvisio, al confine con Austria e Slovenia. Ogni anno il 5 dicembre c’è la manifestazione dei Krampus, un’antica tradizione di origine nordica legata religiosamente alla figura di San Nicola, dove bene (il santo) e male (i diavoli) rappresentano le due sfere morali dell’essere umano. Fin da quando ne ho memoria, mi sono rimaste impresse due cose della tradizione: il rumore assordante dei campanacci che accompagnano i Krampus e il poema sinfonico “Una notte sul Monte Calvo” di Mussorgsky del 1867 diffuso a tutto volume per le strade. Non importa l’età, non importa il luogo o il periodo dell’anno dove mi trovo, ma quando sento anche solo uno di questi due eventi sonori sussulto, poiché associo immediatamente questi suoni a questa tradizione e a tutto ciò che comporta. La domanda sorge quindi spontanea: quanta influenza hanno i suoni nella nostra vita?
Ogni suono ci comunica qualcosa. Questa è una lezione che la storia del cinema, del teatro e dello spettacolo hanno insegnato a ciascuno di noi, in maniera più o meno dichiarata: l’opera lirica, come la “Tosca” di Giacomo Puccini andata in scena pochi giorni fa al Teatro della Scala di Milano, è forse uno degli esempi più lampanti di musica che tesse le fila della rappresentazione, commentando e sottolineando gli stati d’animo dei personaggi e fornendo allo spettatore la chiave per comprenderne le azioni e le scelte. Similmente, anche nel cinema avviene la stessa cosa, dove però la musica dialoga e convive con il rumore, al fine di far entrare lo spettatore ancora di più nell’atmosfera generale della pellicola: si prenda ad esempio una delle tante scene in steady-cam di “Shining” di Stanley Kubrick, dove il piccolo Danny si muove all’interno dei corridoi dell’Overlook Hotel con un triciclo. Qui, il suono prodotto dalle ruote del giocattolo è incredibilmente amplificato e cambia a seconda del materiale del pavimento (legno, moquette, eccetera) in un susseguirsi di rumori che, quasi musicalmente, sottolineano l’immensa e contemporaneamente claustrofobica solitudine dell’hotel. Esempi di questo tipo si possano ritrovare ovunque nel vivere quotidiano. Bisogna aggiungere che l’evoluzione umana ha involontariamente creato un “bagaglio sonoro” talmente codificato da essere universalmente riconosciuto da tutti: una sirena o il pianto di un neonato, pur essendo suoni differenti per composizione, sono molto acuti e forti di volume e quindi associati all’allerta, così come i suoni molto gravi e profondi di un terremoto o del brontolio di un leone nascosto dietro un cespuglio pronto a cacciare.
Questa codifica vale anche per la musica? La risposta è relativa a seconda del periodo storico preso in esame: il Novecento, ad esempio, ha messo in discussione molte delle convenzioni musicali, come nel caso dell’impressionismo musicale di Claude Debussy (che usa il pianoforte come “colore”, dove le sfumature armoniche e melodiche assomigliano alla tecnica pittorica degli impressionisti francesi come Monet, Degas e Renoir) o dell’atonalità di Arnold Schönberg (dove non esiste, appunto, un centro gravitazionale dei rapporti melodici e armonici, una tonalità di riferimento). Eppure, già in epoche antiche si trovano delle convenzioni ben codificate: ad esempio, nella “Repubblica” di Platone, precisamente nei libri sulla fondazione dello Stato ideale, si trovano indicazioni su quale musica bisogna fare e ascoltare affinché si venga a creare una corretta educazione dei cittadini. Tuttavia, una delle codifiche più significative e che ancora oggi influenzano molta della musica che si ascolta è quella della “Teoria degli affetti”, una vera e propria forma retorica del fare musicale: meraviglia, amore, odio, tristezza e desiderio sono solo alcuni degli aggettivi che vengono accostati alle varie proto-tonalità maggiori e minori delle composizioni dall’Umanesimo in poi. Inoltre anche il trattamento musicale suggerisce e muove uno o più “affetti”: una scala discendente, ad esempio, rappresenta il lamento amoroso, come si può sentire da Henry Purcell (“Il lamento di Didone”, dal “Didone ed Enea” del 1689) a Ray Charles (“Hit The Road Jack”, singolo del 1961). A tal proposito, uno dei compositori forse più interessanti a tal proposito in Italia è stato Claudio Monteverdi, i cui libri dei madrigali sono l’esatta rappresentazione di questa teoria e di cui si consiglia l’ascolto con lettura del testo di madrigali come “Hor che ‘l ciel e la terra” e “Lamento della ninfa”.
Monteverdi può essere una delle possibili risposte alla domanda fatta all’inizio di questo excursus: sì, i suoni (anche non organizzati) influenzano molto il vivere e le esperienze che si vivono. Se non fosse così, si perderebbe anche solo l’importanza di un inno nazionale o di un canto della Messa, così come si sentirebbero album natalizi anche a Ferragosto: bisogna quindi prendere coscienza che la musica ha sempre una parte rituale, anche quando questa è ascoltata per evadere da uno stato d’animo specifico. Tale procedimento crea immagini simili nella mente dell’essere umano. Non ci credete? Cosa succede in “Fantasia” della Disney del 1940 durante “Una notte sul Monte Calvo”?
NOTA: Per un’approfondita comprensione del discorso, si consiglia di premere sulle parole evidenziate.