Musica 101 – quando fare i musicisti non è un lavoro vero

Questa settimana vorrei usare lo spazio che mi è stato concesso per riportare una problematica che è presente attualmente, ma di cui si parla molto poco. Due sono le cose che mi spingono a trattare l’argomento: la notizia inerente al cantante dei Ponzio Pilates, multato dai carabinieri mentre si stava recando in magazzino a recuperare i propri strumenti musicali per aver violato le misure restrittive in contrasto all’epidemia di Covid-19, e la protesta silenziosa dei protagonisti del mondo dello spettacolo, identificata con l’hashtag #iorestoinsilenzio, volta a sensibilizzare l’opinione pubblica in merito alla grave situazione cui verte l’arte dell’intrattenimento. Il tutto può essere riassunto in una frase: fare il musicista è un hobby e non un lavoro vero. Questa frase non bisogna solamente contestualizzarla nell’ambito musicale: anche il cinema, il teatro e la televisione soffrono di questa superficialità fatta di meri luoghi comuni. Inoltre, oltre a essere un insulto gratuito per milioni di professionisti, questa frase ha un peso sociale non indifferente, poiché l’intrattenimento viene dato per scontato, declassando gli artisti a figure sacrificabili. È mai possibile che la cultura venga ignorata in questo modo?

La superficialità dell’uomo medio quando si parla di cultura non è una novità: basta pensare alla gente che pirata terabyte di musica o di film e serie tv e si indigna quando si tratta di pagare un servizio come Spotify o Netflix, o alle persone che manifestano il proprio disappunto sui social con post sgrammaticati e in carattere maiuscolo quando si tratta di pagare solamente una sessantina di euro per un posto in prima fila al concerto di un’artista di fama mondiale. La banalità attribuita all’arte è forse il cancro più spaventoso della società odierna: non riuscire a comprendere il lato professionale che sta dietro un evento, un film o un disco è l’equivalente del non comprendere l’importanza dell’ossigeno per il corretto funzionamento dell’organismo umano. L’ignoranza delle masse porta all’ignoranza delle istituzioni: a tal proposito, ricordo un episodio relativamente recente dove il vanto dimostrato da una figura politica in merito al non aver più letto un libro dopo tanti anni scatenò, fra le altre cose, un forte senso di appartenenza politica da parte degli analfabeti funzionali. Lungi da me trattare questioni politiche, ma pensò che il discorso sia abbastanza chiaro: etichettare maniacalmente una società significa necessariamente creare gerarchie e creare gerarchie significa creare malcontento (per usare un latinismo, “divide et impera”). Inoltre, tale fenomeno qui riportato non è, come già detto, esclusivo del mondo dello spettacolo: si pensi ad esempio al lavoro di una persona che sta dietro al bancone di un bar, altra categoria di lavoratori trattati alla mercé della superficialità. Qual è però la differenza? Essere un barista è considerato comunque un lavoro, nonostante sia considerato (ingiustamente) come degradante da una fetta della società. Essere un musicista, tuttavia (e purtroppo), è un hobby.

Vorrei muovere un umile appello alle persone a me contemporanee: ricordatevi che gli hashtag attraverso cui, fino a qualche giorno fa, si faceva riferimento a streaming di artisti famosi, servizi di lettura digitale gratuiti, film gratuiti, eccetera e che abbiamo usato tutti sui nostri social preferiti per rincorrere un senso di normalità, non sono una cosa scontata. Il fatto che la cultura sia (e sia stata) un modo per passare in serenità la quarantena non implica che l’artista debba mettersi a completa disposizione del pubblico, senza ricevere alcun compenso o, più semplicemente, alcuna forma di rispetto. Inoltre, voglio ricordare che la voglia di ricominciare a lavorare non è esclusiva delle categorie di lavoratori come ristoratori, baristi, albergatori, eccetera: ci siamo anche noi artisti. Perché allora, come pubblico, non potete sostenere anche questa categoria di lavoratori professionisti? Vi è comodato “mangiare” finché è stato possibile farlo e ora non serviamo più? Mettetevi una mano sulla coscienza e date il giusto riconoscimento a una professione come quella artistica. Se volete sapere i costi, i sacrifici, i compromessi cui un musicista (o un qualsiasi artista) deve sottostare costantemente, provate a chiederglielo, senza troppi riguardi morali: ne rimarrete sorpresi. Aiutate questa categoria di lavoratori: non vi si chiede un compenso economico, non vi si indica una fondazione cui devolvere denaro a sostegno delle attività culturali (anche se sarebbe di aiuto); basterebbe che la smettessimo tutti con i pregiudizi e con i commenti “classisti”, favorendo così il riscatto, almeno dal punto di vista sociale. Fatto? Bene, spendete quando ci sarà la possibilità: andate ai concerti, pagatevi Spotify, comprate i libri (anche digitali, ma pagateli), dimostrate un supporto attivo a chi vi ha aiutato a scacciare la noia. Ricordate queste parole: quando il silenzio sarà più forte del rumore, sarà troppo tardi per rimediare.

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