Musica 101 – oggi come ieri, una serata al Birdland

Questo articolo non vuole essere una dichiarazione politica, non vuole essere un articolo di cronaca o un commento su un tema caldo come quello delle proteste che stanno avvenendo in America per la morte di George Floyd, l’ennesimo omicidio a sfondo razziale. Questo, invece, vuole essere il racconto di una piccola storia, a tratti reale e a tratti surreale, dalla quale spero che ognuno possa trarre le proprie opinioni e sulla quale spero si possa creare una riflessione personale che ci spinga tutti a vedere le cose che accadono da punti di vista differenti. Quanto segue è la storia di come abbiamo rischiato di non poter mai arrivare ad avere una musica come quella che risuona oggi nelle nostre radio, nelle nostre teste e nei nostri cuori.

Era la sera del 25 agosto 1959 quando, fuori dallo storico Birdland Jazz Club di New York, il famoso jazzista Miles Davis si stava prendendo una pausa per fumare una sigaretta. Mentre il musicista si accingeva ad accompagnare una giovane donna bianca a prendere un taxi, questo veniva avvicinato da un poliziotto, tale Gerald Kilduff, che gli intimava di andarsene e di non disturbare la ragazza. Nello spiegare al poliziotto la realtà dei fatti, Miles Davis viene prima preso a manganellate (una sullo stomaco e altrettante sulla testa) e poi arrestato con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale: la forza delle botte gli procura una ferita da cinque punti di sutura. Verrà rilasciato solo previo pagamento di una cauzione di 525 dollari di allora (l’equivalente di quasi 5000 dollari attuali). L’artista, che pochi mesi prima aveva rilasciato “Kind Of Blue”, una delle pietre miliari della storia della discografia e della musica, rischia di rimanere ammazzato fuori da un locale in cui sta lavorando per aver commesso un solo errore: essere nero in una America che vive sistematicamente episodi di violenza gratuita, dove l’odio razziale è parte della società.

Di storie del genere ce ne sono a milioni. Eppure, quella di Miles Davis apre un dibattito di notevole importanza: e se quella sera non fosse sopravvissuto al pestaggio? Può sembrare una domanda assurda, strana, quasi schierata politicamente. Tuttavia, non mi interessa trattare la questione politica della faccenda, ma quella storica, culturale, artistica: come staremmo vivendo la musica che ascoltiamo oggi se Miles Davis fosse morto quella sera? Per chi non conoscesse l’impatto di questo artista sulla storia della musica, consiglio la lettura della sua autobiografia “Miles”, ma per dovere di cronaca farò qualche esempio: senza la sua musica non avremmo mai avuto il jazz come lo conosciamo oggi, quella musica “stilizzata”, a tratti personale. Non solo: non avremmo avuto la musica fusion, non avremmo avuto quel fortuito incontro fra rock e jazz. In altre parole: buona parte della musica psichedelica, prog e proto-fusion che viene tanto acclamata ancora oggi dal grande pubblico avrebbe avuto una veste completamente diversa da quella che gli si attribuisce oggi. Non avremmo avuto la cosiddetta “anima nera” della musica funk, con tutte le implicazioni del caso.

Può sembrare un discorso politico, ma pensare che una cosa che diamo così scontata oggi potrebbe non esistere a causa di un atto d’odio dovrebbe far rabbrividire anche il più freddo degli esseri umani. Se Miles Davis fosse morto quella sera, potrebbe non esserci mai stato il vostro artista preferito, la vostra playlist da attività fisica o la vostra canzone d’amore. Assurdo, vero? La musica nera, che si trascina dietro una lunga storia di sangue, morte e sofferenza, ha cambiato la storia della musica per sempre, questo è evidente: dalle cantilene dei campi di cotone, al jazz, dal blues al mondo hip-hop. Ma la vera domanda dietro a tutto questo è: quanto sangue deve ancora essere versato? Serve davvero dover soffocare (letteralmente) un popolo, un’etnia, un essere umano perché non si è capaci di vincere l’odio? Vorrei concludere con un pensiero estremamente personale, mentre il pianoforte che esce dalle casse del mio stereo comincia a suonare “So What”: se invece di odiare imparassimo a conoscere, a quest’ora staremmo tutti cantando per la gioia di farlo, senza chiederci quanti Miles Davis avremmo potuto perdere e senza vivere con il pensiero di aver ammazzato tantissimi George Floyd. Se vogliamo vincere l’odio, il primo passo è imparare a capire le cose, senza necessariamente ragionare per assurdo. O, come ci ha insegnato Miles, semplicemente viverle per quello che sono: cose semplici.

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