Musica 101 – l’intelligenza artificiale come artista

Recentemente, mi è capitata sotto mano una notizia a mio parere affascinante e, allo stesso tempo, sconvolgente: si tratta di un video divulgativo di un programma di machine learning chiamato Jukebox, attraverso cui è possibile generare musica completamente nuova partendo da materiali pre-esistenti. Nel caso di questo progetto (e di questo video specifico), il brano di riferimento è “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, diventato ormai popolare nella collettività essendo un vero e proprio meme di internet. I risultati proposti sono affascinanti: il video presenta iterazioni completamente diverse dalla composizione originale, alterando il materiale di partenza e sfociando in “musiche che non esistono”, in versioni del brano completamente nuove. Ed ecco l’aspetto sconvolgente, poiché la domanda sorge spontanea: è questo il punto di svolta della produzione musicale da qui al prossimo futuro? Potremmo riferirci un domani a un computer come oggi ci riferiamo a Beethoven o a Rick Astley?

Cominciamo con una constatazione: questo approccio alla composizione non è affatto nuovo. La stessa casa di produzione dell’algoritmo alla base di Jukebox, OpenAI, lo dice nella presentazione del progetto sul proprio sito web. Infatti, nel corso dell’evoluzione digitale, sono stati implementati numerosi strumenti molto simili a Jukebox, sia a fini di studio che per pura commercializzazione. Per fare degli esempi, basta pensare ai numerosi progetti di ricerca dell’IRCAM di Parigi che, sfruttando l’intelligenza artificiale, mirano al trovare soluzioni in merito all’analisi dei brani, alla composizione o alla produzione musicale; oppure si pensi alle numerose librerie di pacchetti offerti da EastWest, Arturia o EzDrummer che puntano al facilitare la produzione musicale casalinga e non (a tal proposito, l’intero album “Ziltoid the Omniscient” di Devin Townsend del 2007 è stato creato a partire dai pattern di batteria campionati in EzDrummer) o a programmi come iZotope che permette di “isolare” intere sezioni strumentali e vocali un brano finito, senza remixare il progetto in multitraccia. L’evoluzione naturale di questo approccio digitale è stata, ovviamente, l’automazione delle pratiche di composizione: ecco allora che, in programmi di composizione come Sibelius e Finale, esiste la possibilità di arrangiare “automaticamente” una data linea melodica, o che programmi di registrazione come Logic e GarageBand mettono a disposizione un batterista virtuale che segue passo passo cosa svolge un altro strumento. Ed ecco come, già dai tempi della tecnologia MIDI, si “insegna” a dei calcolatori (o a dei computer, al giorno d’oggi) come scrivere un brano nello stile di Bach, Beethoven o, nel nostro caso, Rick Astley.

Le possibilità offerte da Jukebox (e dall’impiego dell’intelligenza artificiale in generale) pongono, tuttavia, alcuni problemi di non semplice soluzione. In questo caso specifico, al pari della tecnologia dei deepfake, la questione più scottante tralascia l’aspetto musicale per focalizzarsi su quello legale: se un brano come “Never Gonna Give You Up” viene riarrangiato completamente da un computer (partendo da una performance reale) e viene messo in commercio, sussiste la questione non solo del diritto d’autore ma della tutela della performance registrata. Infatti, nonostante il brano di partenza sia irriconoscibile, si viene a creare una performance che “non esiste” e che di fatto non può essere tutelata. Inoltre, Rick Astley “canta” il testo in un modo che non ha mai concepito, prestando la sua voce a una cosa a cui potrebbe non aver mai dato l’autorizzazione. La cosa, come è evidente, crea dei paradossi a livello giuridico (ed economico) non indifferenti. Tralasciando, tuttavia, l’aspetto giuridico e il fatto di modificare digitalmente una performance rendendola irriconoscibile, sussiste tuttavia una questione più “romantica” e morale in senso artistico: chi è l’autore, il computer o chi ha creato l’algoritmo? E, in ogni caso, da cosa nasce la sua estetica, il suo modello compositivo? Esiste un’estetica di riferimento? Possiamo davvero parlare dell’intelligenza artificiale come compositore?

Personalmente, sono dell’idea che ci si stia nuovamente avvicinando a un modello utopico del fare musica, o più generalmente arte: come accaduto con l’avvento della polifonia, della dodecafonia o della composizione elettronica, un modello nuovo non può escludere a priori gli altri. L’essere in possesso di nuove (e infinite) possibilità non è sinonimo di semplificazione del lavoro o di progresso: l’artista deve essere sempre in grado di porsi in maniera tale da sviluppare un processo critico e dialettico oltre che compositivo in senso lato e può farlo in mille modi, dal più semplice e immediato al più laborioso e complesso. Prendendo in prestito le parole del compositore Ernst Krenek a proposito delle strutturalmente complicatissime composizioni elettroniche degli anni Cinquanta: «Ascoltando alcuni di questi lavori, mi sento come se un pittore mi mostrasse la sua tavolozza con una vasta quantità di colori, al quale direi: “Bellissimo – ma ora perché non li usi per farci un quadro?”». L’intelligenza artificiale può sicuramente diventare uno strumento importante e innovativo, un tool stimolante e nuovo, ma non si sostituirà mai al “flusso artistico” del musicista o del compositore. Se fosse così, oggi non staremmo piangendo Little Richard, Florian Schneider, Krzysztof Penderecki o Ezio Bosso, per fare qualche nome. Per quanto l’esperimento di Jukebox apra nuove frontiere in merito agli stimoli musicali, ci saranno sempre musicisti e persone che faranno arte: sta solo a noi essere consapevoli del rischio che stiamo correndo se cominciamo a confondere gli strumenti del comporre con la composizione in quanto artigianalità, in quanto pratica. Inserire dati in un computer per “addestrare” l’intelligenza artificiale a creare linguaggi nuovi è un esperimento che, preso in prospettiva di stravolgere la creazione musicale, è di base fallimentare; utilizzare ciò che questo approccio ci restituisce, al contrario, può essere visto come il futuro della produzione, purché utilizzato responsabilmente, come ulteriore strumento artistico.

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