Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie hanno di fatto aperto le porte a una più facile diffusione della musica di autori del passato e del presente, anche sconosciuti. La moltitudine di brani e versioni differenti individuabili in rete, come si può notare facilmente, è potenzialmente infinita: “deluxe edition”, “remastered” e “country-release” sono solo alcune delle etichette che compaiono all’interno dei metadati delle nostre playlist preferite e ci permettono di godere delle varie declinazioni di un prodotto discografico (per fare un esempio, le tracce bonus incluse in edizioni d’oltreoceano sono elementi sintomatici di quanto espresso). Queste considerazioni, tuttavia, valgono all’interno della cosiddetta “musica di consumo”, della musica leggera in tutte le sue sfaccettature. Ma la musica classica?
Esiste una duplice valenza nel genere “classico”: esso è sì di intrattenimento, di consumo (si veda la tradizione operistica, per fare un esempio), tuttavia possiede caratteristiche riconducibili al concetto di “colto”. Parlare oggi di musica colta, o intellettualistica, può sembrare un controsenso, dato che gli stessi Beatles, esempio iconico della musica leggera, vengono studiati all’interno delle aule dei Conservatori e delle Accademie musicali poiché portatori di grosse innovazioni tecniche ed estetiche della musica del XX secolo. Eppure il carattere serioso prevale sulla reale applicazione finale di questa musica: le Passioni o le Messe di Johann Sebastian Bach, ovvero quella musica con finalità liturgiche pratiche e concrete, oggi vengono eseguite raramente in contesti sacri, spostando così l’attenzione alla sala da concerto e alle sue consuetudini “di consumo”. Le stesse esecuzioni filologiche, dove ensemble ripropongono musica “antica” mediante strumenti e tecniche esecutive ricostruiti filologicamente, sono il perfetto esempio di questa duplicità: quel fascino romantico dell’antico riproposto “così come era all’epoca” sposa la ricerca intellettuale e il consumo di quel “futuro antico”, parafrasando Branduardi, che non ci saremmo mai aspettati di ascoltare.
È evidente che si creino delle oscenità imbarazzanti: playlist come “relaxing piano music” o “classical chill” invadono la distribuzione digitale e non, accozzando periodi, stili, funzioni ed estetiche completamente diverse fra di loro. Il rischio è quello di distruggere un modello interpretativo nel tentativo di rincorrere quelle infinite traduzioni sonore di cui si accennava all’inizio: a tal proposito, un noto giornale italiano ha pubblicato recentemente come inserto le Variazioni Goldberg di Bach nelle due versioni registrate da Glenn Gould. L’interprete è famoso per i suoi “scricchiolii” e “mugolii” durante la registrazione, diventati parte integrante non solo di quelle take, ma dell’intera estetica del pianista: questo giornale ha deciso di creare un prodotto fresco, pulito ma completamente artificiale e di fatto sbagliato, applicando filtri di soppressione del rumore e uccidendo l’interpretazione unica di Gould.
La musica classica ha un piano di lettura “in più” rispetto alla musica leggera, ovvero quello dell’apertura a più possibilità di lettura, come fossero tante “cover” dello stesso brano: tuttavia, il brano originale non esiste, almeno non nella sua forma sonora. Quando ci si approccia all’ascolto casuale di musica, sarebbe bene evitare questo approccio per la musica classica. Esistono differenze fra un Abbado e un Bernstein, esiste un percorso che è più simile all’LP che ai singoli brani spezzati: la conoscenza anche solo di questo concetto basta per recuperare e apprezzare le radici della nostra cultura e del nostro essere “musicali”.