Camminando per il centro città e lasciandosi guidare dal fascino misterioso di Trieste, è quasi inevitabile imbattersi in una piccola stradina, vicino al Teatro Romano, un po’ abbandonata e riparata dalla frenesia e dal correre quotidiano, dove il Teatro Filodrammatico si fa spazio tra il decadimento.
In questa viuzza alquanto insolita, meglio conosciuta come via degli Artisti, al numero 9/B c’è il laboratorio dell’orafo Maurizio Stagni. È impossibile resistere dall’entrare a curiosare: la poesia dell’artigianato conquista ogni mente sensibile al bello.
Un posticino molto pittoresco, impregnato d’arte, è il luogo nel quale Maurizio Stagni lascia che sia la sua creatività a plasmare gioielli che non sono semplicemente degli oggetti, ma dei messaggi, dei portatori di significato, perché anche l’arte orafa è comunicazione.
Maurizio, come mai ha scelto l’arte orafa?
È una combinazione un po’ strana: frequentavo l’Università e nel contempo facevo dei lavoretti per una ditta che si chiama “Annicchiarico”. Alla fine sono rimasto in questa ditta e ho rinunciato agli studi. Tuttora faccio l’orafo.
Ha frequentato un’istituto d’arte, prima di diventare orafo?
No, a casa si è sempre disegnato e di conseguenza questa voglia di costruire, di disegnare, di fare, è rimasta.
Esiste un’accademia dell’arte orafa?
Purtroppo non esiste un’accademia, non esiste un’attività di insegnamento al di fuori degli istituti d’arte che però stanno chiudendo: ormai le ore di laboratorio sono sempre di meno.
Ci sono delle scuole, come quella a Vicenza, che hanno dei corsi di oreficeria, però non c’è un’accademia post laurea, un’accademia a livello universitario per diventare orafi. Di conseguenza ho lavorato prima come artigiano, facendo riparazioni, piccole creazioni, montature, smontaggi e riutilizzo di pietre, poi sono andato a lavorare per Renato Chicco e infine ho aperto il mio laboratorio. In negozio ho avuto delle collaborazioni con degli altri dipendenti, tra i quali Marzio Nale, che è un orafo davvero in gamba.
C’è una regola precisa che gli orafi devono seguire?
No, non c’è una regola precisa, però si tratta di artigianato, quindi di tecnica, di saper fare le cose, di progettare, di saper disegnare e disegnare qualcosa che sia individuale. Il problema grosso dell’artigianato è che molto spesso si segue l’industria, si guarda cosa viene fatto, si copia. Fare un percorso creativo originale è complicato, perché nessuno vuole investire nei progetti creativi.
Oggigiorno è tanto cambiato il mondo dell’oreficeria rispetto a quello di una volta?
Sì, perché non ci sono più margini; i laboratori rimangono in piedi in maniera magica, non certamente con uno studio finanziario che mantenga in piedi tutto: costi, guadagni e ricavi. C’è molta poesia. Dico sempre ai clienti che non pagano tanto l’oggetto, quanto l’esistenza di una bottega. È meglio che si dimentichino della parola artigianato, che ci dimentichino, in quanto, ogni volta che si parla di artigianato, pensando che questo sia una qualità italiana, poi si affonda, perché si paragona l’artigianato alla grande industria – noi abbiamo gli stessi obblighi della grande industria, ma non abbiamo nessuna agevolazione.
Tanti vendono anche tramite internet. Anche lei lo usa?
Sì, tanti lo utilizzano, ma, nel mio caso, siccome sono pezzi unici e piccole produzioni, l’e-commerce non ha senso; mentre ha senso avere una buona pagina su Facebook, un sito, dove si crea l’idea, l’immagine di quello che è un orafo. Poi esistono le e-mail, WhatsApp; esiste tutta una serie di contatti per cui diventa molto più facile disegnare, spedire, fare. Oggi, in un giorno, la merce arriva, quindi è praticissimo. Internet è molto utile; è un’evoluzione dell’artigianato che è necessaria. Bisogna esserci.
Una volta si usava comprare il classico ciondolino per il battesimo o per la comunione. Oggi, siccome le tradizioni si sono quasi perse, la gente che viene da lei cosa compra?
Compra una comunicazione; compra la possibilità di comunicare un momento, che può essere il matrimonio, il compleanno, l’anniversario, ma anche un momento qualsiasi. Chiede un valore aggiunto all’oggetto che di per sé, non deve per forza essere fatto di materiali preziosi. Noi lo facciamo in argento e in oro, però potrebbe essere anche in altro materiale. Il cliente, da noi, compra quello che non trova nell’industria. Il nostro è un lavoro un po’ diverso: si dà un valore aggiunto alla comunicazione, si crea un oggetto per la persona, ma non per questo ci si mette dei mesi – può essere fatto anche in tre giorni. Oggi non si tiene tanto conto della ricorrenza, quanto del desiderio di esprimere qualcosa.
Di lasciare un segno…
Sì. Il nostro lavoro consiste nel far sorridere, per trenta secondi, la persona che riceve il regalo. Dopodiché la magia si esaurisce; la persona poi tiene l’oggetto addosso, quindi porta con sé anche un messaggio. Questo è un po’ il nostro lavoro.
L’oggetto più richiesto?
Non c’è un oggetto più richiesto, ma certamente quello che risolve facilmente i problemi: il ciondolo, perché non ha bisogno di grandi supporti e dà lo spazio per fare quello che ho appena detto.
La sua è una clientela giovane o più matura?
Ho cambiato la clientela lentamente nel tempo. Ora ho persone abbastanza giovani, anche perché, quando lavoravo in negozio, ogni mattina aprivamo “Il Piccolo” per vedere che cliente avevamo perso (sorride) – erano tutti molto anziani. Oggi, inoltre, anche le persone anziane non fanno più i regali di un tempo, perché le nostre esigenze sono cambiate: siamo più orientati verso l’elettronica, i viaggi…
Quando nasce questo laboratorio, in via degli Artisti?
Questo laboratorio nasce sedici anni fa. Io lavoro da trentasette-trentotto anni e il mio primo laboratorio l’ho aperto più o meno trent’anni fa.
Come mai ha scelto questa zona per il suo laboratorio?
È una zona ideale, è in centro città, però un po’ discosta: noi non possiamo pensare di avere il flusso di un negozio, altrimenti non avremmo il tempo per lavorare.
Penso che presto cambierò, anche perché faccio altre attività ed è giusto dare un’immagine in evoluzione. E poi ho l’età giusta per farlo.
Dove si trovava il suo primo laboratorio?
In via San Maurizio, in piano. Lì ho cominciato; poi ne avevo uno in via Romagna, era una galleria d’arte d’oreficeria, purtroppo in anticipo sui tempi. Successivamente ho fondato un’associazione nazionale e con quella ho aperto questo laboratorio in via degli Artisti, dove ho fatto delle esposizioni con gli altri colleghi, cose che non faccio più: ora, chi viene in bottega, vede solo gli oggetti che realizzo io.
Ho visto che fa anche cartoline e oggetti vari che raccontano questa città…
Sì, faccio parecchie cose di questo tipo. Ho realizzato molti gadget come le cartoline, i magneti. Il negozio Witz li vende un po’ in esclusiva. In realtà fare questi oggettini mi ha aperto le porte ad un altro lavoro, quello di organizzare uno spettacolo dal titolo “La Bora”, dove ci sono delle letture, della musica, la degustazione di prodotti locali e le mie immagini: 140 disegni. A breve uscirà un’antologia che li raccoglierà assieme a dei testi in esclusiva di Boris Pahor, Dušan Jelinčič, Pietro Spirito, Francesco De Filippo e Veit Heinichen. Questa antologia sarà in quattro lingue: italiano, sloveno, tedesco e inglese. Anche se l’inglese non ci appartiene come territorio, rende la lettura comprensibile ad un pubblico più vasto.
Abbiamo scelto quattro lingue per uscire e rompere un po’ il concetto di lingua riservata.
L’ispirazione per questo libro è “la tomba dei Fabiani” con iscrizioni in tre lingue – sloveno, tedesco e italiano – che si trova in Slovenia.
Per realizzare i disegni di questo libro ha utilizzato il computer?
No, tutti i disegni sono fatti a matita. Il computer non è stato utilizzato volutamente, perché è come un ritorno a quella che è la mano. Non importa che la successione di immagini sia perfetta, come se fosse un meccanismo compiuto. È più una mano, un desiderio di illustrare le cose in un certo modo.
Con immediatezza e spontaneità…
Sì. Ci sarà un’altra parte di disegni, che diventeranno poi dei timbri, che invece è mediata dal computer, tant’è vero che sono in un bianco e nero pulito, senza ombre di grigio.
Come mai ha realizzato lo stampino per i biscotti con l’immagine di Vittorio Sgarbi?
Da tempo faccio gli stampini per i biscotti. L’occasione è nata durante l’EXPO, quando Sgarbi ha inaugurato la libreria di Saba a Milano. Chi organizzava l’evento non sapeva cosa regalare a Sgarbi e alla fine gli ha regalato il biscotto. Lui si è molto divertito ad auto-mangiarsi. Da lì è partito il progetto che seguiamo ormai da tempo, dal titolo “Biscotto unico”. Sto preparando anche le sagome di Saba, Joyce e Svevo. Sarà una produzione Eppinger.
Ma è fantastico! Una bellissima idea.
Ho sempre creduto molto nel turismo e nella possibilità di aprire delle realtà per i turisti, di fare delle cose per loro. Credo che in città si faccia ancora troppo poco.
“La Bora” nasce da una vecchia storia di una mia cara amica, la proprietaria della Galleria trart – dove prossimamente farò la mia prima mostra personale di disegni e quadri. Lei aveva organizzato un evento dal titolo “Ritorno.Vento, Confine, Mare”. Noi siamo una città di confine, un confine perso e ritrovato, abbiamo, il mare, la bora. Da ciò è nata in me la voglia di fare uno spettacolo dedicato a questo nostro vento, che per noi è una cosa scontata, ma per chi non lo conosce, può essere una scoperta; fino ad oggi si è fatto pochissimo: c’è solo un piccolo museo dedicato alla bora, dove sono esposte alcune foto degli anni ’50 e ’60. Questo progetto è stato curato da Rino Lombardi, che mi ha dato una grossa mano nella realizzazione del mio lavoro sulla Bora.
Nonostante tutto, fa piacere vedere che ancora qualche artigiano resista…
Sì, tenacemente! Però il mondo ci mette i bastoni tra le ruote; si fa fatica ad andare avanti. È stato sempre difficile, per gli artigiani, per gli artisti. Hanno sempre avuto il bisogno di avere dei finanziatori.
Mancano i mecenati.
Sì, mancano i mecenati, ma manca pure la gente che ci crede. Il lavoro delle botteghe artigianali non è come quello dei negozi, dove i costi e i ricavi sono chiari. L’artigiano a volte impiega tante ore per realizzare un oggetto, ma alla fine non le mette in conto tutte. In conclusione, la bottega e il negozio, sono due realtà diverse. Questo bisogna ben capirlo.
Tornando alle sue creazioni: se uno le chiede un anello, qual è la prima fase?
La prima fase è concentrarsi per capire dove si vuole andare: se si vuole un anello di gioielleria, quindi con pietre e metalli preziosi o se invece si vuole un anello che sia un racconto. Si decide, si sviluppa quest’idea, poi si fa una bozza insieme al cliente, e se le idee sono chiare si prosegue; se invece c’è qualche dubbio, si va avanti nella progettazione comunicando attraverso WhatsApp o altro e quando si trova il disegno giusto, a quel punto si costruisce l’oggetto.
Che strumenti utilizza?
Sono ormai zen: uso un seghetto, un trapano, delle lime, un laminatoio e un cannello da fusione. Con il passare degli anni, anche avendo a disposizioni tutte le macchine possibili ed immaginabili, utilizzo la fusione a cera persa: una tecnica molto semplice, come la pittura ad olio, che si può aggiustare, se si sbaglia. La cera ti permette di aggiungere, togliere, sistemare; quando hai fatto l’oggetto, fondi.
La lastra, invece, è un po’ simile alla matita: se sbagli devi rifare tutto e ci metti un bel po’ di tempo. È il trasferimento diretto da quello che tu disegni all’oggetto.
Più o meno, quante ore ci mette?
Adesso posso ridurre abbastanza il tempo di esecuzione, perché lavoro sulle mie linee, che si ripetono. Ho un mio codice: fiorellini, pesci, cuori…
Ha una base…
Esatto. Saranno mille disegni, ma sono quelli con i quali si riesce a fare tutta la comunicazione possibile. Per fare un oggetto dall’inizio alla fine – fusione, laminatura, costruzione e finitura – non si può impiegare meno di tre-quattro ore. Un anello non si crea in un’ora e mezza: la lastra va tirata; ci sono tanti procedimenti.
Un esempio di oggetto realizzato con la cera?
Sono quelli che presentano dei ringrossi, delle morbidità. Per dare questo effetto in lastra, bisogna partire da un pieno e poi limare; facendo in questo modo si perde troppo tempo e perciò conviene farli a cera persa. Gli oggetti fatti a lastra, invece, sono più puliti, dalle forme piuttosto geometriche.
Per la fusione a cera persa, si prende la cera, si comincia a modellarla, dopodiché si fa una fusione in gesso. C’è un procedimento per cui la cera viene sciolta e rimane un alveolo, nel quale si inietta il metallo; poi c’è tutta la finitura. Mentre, in lastra, si disegna lo stesso disegno sulla lastra e per questo bisogna averlo nella mano.
Bisogna disegnarlo al rovescio?
No, ciò non è importante; bisogna però averlo nella mano, perché sull’oro non si riesce a disegnare come si disegna sulla carta. La mano crea il disegno, poi si segano fuori i pezzi che in seguito vengono saldati e così si costruisce l’oggetto. Rispetto alla fusione a cera, questa è una tecnica molto più pulita, più asettica. E in più c’è la garanzia che ne esce un pezzo unico.
Vedo che utilizza anche smalti…
Sì, uso smalti sia a freddo che a caldo. Sull’argento, molto spesso, vengono usati gli smalti a freddo, che vanno comunque portati a 70-80 gradi – gli altri smalti arrivano a 820-850 gradi. Hanno tre spessori diversi, più il quarto che è la lucidatura. È una tecnica che si sta perdendo, perché è troppo costosa, però io la continuo ad utilizzare. Oggi si usa di più l’argento e di conseguenza lo smalto a freddo; non avrebbe senso fare qualcosa in oro con questo tipo di smalto: se un oggetto è in oro, è meglio usare lo smalto a caldo.
Il suo codice che elementi comprende?
Un po’ di tutto: gatti, persone, cuori, lettere, case…
Le cose della quotidianità…
Sì. Un anello può essere fatto con un fiore, due cuori, due iniziali, due volti, che siano il lui e il lei. Questa potrebbe essere un’idea per un anniversario.
Quindi un accostamento di più elementi alla fine dà un messaggio…
Esatto! Per esempio, se mettiamo il mare, la barca, il pesce, il nome di lei, potrebbe essere per un compleanno. La composizione ogni volta è diversa…
È un po’ come quando da piccoli si ha l’alfabeto segreto…
Sì, perfettamente! Per la Bora, i segni sono oggetti, persone che volano. Adesso, per il compleanno di una mia amica, sto realizzando una cartolina dove c’è la sua casa e lei con una pianta e una pentola – elementi che descrivono le sue passioni.
È interessante riuscire a comunicare attraverso immagini su un gioiello che quasi sempre è un oggetto piccolo…
Sì, il disegno dev’essere prezioso…
Anche molto pulito…
Certo, altrimenti non si riesce a capire il messaggio. Anche un oggetto piccolino, mettendoci poi le iniziali, un cuore, diventa di valore.
Lei organizza anche eventi. Ha qualche collaboratore?
Ho due amici: uno che s’intende di musica, ma è un ingegnere navale, molto impegnato in giro per il mondo, e un altro che si occupa della promozione dei prodotti del Carso. Avevamo incominciato con delle serate di flamenco, associate a prodotti del territorio; questa promozione dei prodotti tipici è andata avanti con lo spettacolo de “La Bora”. Adesso stiamo cercando di mettere assieme un’associazione, anche se io cerco sempre di utilizzare realtà già esistenti sul territorio.
Avete già qualche spettacolo in cantiere?
Sì, a novembre “La Bora” va a Padova; poi, probabilmente, faremo qualcosa con Eppinger, in occasione della presentazione degli stampini per i biscotti; infine ritorneremo con “La Bora” da Bajta. Questo spettacolo, grazie anche ai nuovi testi, è divento una realtà da sviluppare. Abbiamo pure in preparazione uno spettacolo sui vini, sul cibo.
Lei ha lavorato anche per il cinema, ne “La sconosciuta” di Tornatore…
Più che aver lavorato, mi sono divertito molto con Tornatore. Mi sono occupato della consulenza. Siccome Claudia Gerini nel film interpreta la parte di un’orafa, mi è stato chiesto di ricostruire sul set un laboratorio con tutte le mie cose, i miei disegni.
Tornatore è una persona divertente e molto interessante. Ho lavorato con loro per un paio di mesi. Dato che ero il loro consulente, potevano chiamarmi in qualunque momento. Un giorno mi ha telefonato l’aiuto regista dicendomi che Tornatore mi voleva subito – giravano in via Carducci. Quando sono arrivato, c’era un silenzio incredibile. Tutti quanti erano fermi: mi stavano aspettando. Tornatore voleva sapere cosa poteva dire l’attrice nel caso avesse finito un lavoro su una catena. Gli ho risposto: “Non so, la grumetta, la maglia inglese…”. La parola “grumetta” gli è piaciuta tanto e perciò mi ha chiesto in che contesto poteva utilizzare questo termine. Gli ho suggerito: “È pronta la grumetta, ho finito di saldarla…”.
Era tutto bellissimo! Ero presente alla riprese, a questa cosa assolutamente finta, ma quando Tornatore mi ha fatto vedere le immagini, per avere il mio consenso, io stesso che avevo visto che tutto quanto era finto, quando l’ho visto sullo schermo, mi è sembrato vero. È una magia! Capisco perché chi fa cinema non può fare a meno di farlo.
Abbiamo lavorato tanto. Tornatore è venuto a vedere la bottega, si è appassionato al mio lavoro, mi ha chiesto di costruirgli delle cose…È stata una bella e intensa esperienza!
In breve: come descriverebbe il lavoro di orafo?
Il lavoro di orafo è un lavoro magnifico, perché ti permette di vedere una cosa, averla in mente, disegnarla e costruirla. Penso che pochi lavori siano così soddisfacenti da questo punto di vista e poi si impiega tanto tempo per imparare a fare questo mestiere; però è uno di quei lavori che alla fine della giornata ti dà tanta soddisfazione. Ti dici: “Ho costruito, ho fatto qualcosa”. L’homo faber ha bisogno di realizzarsi attraverso l’oggetto fatto.
Ringrazio Maurizio Stagni per avermi mostrato la sua arte.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Le foto sono di Nadia Pastorcich, mentre i disegni qui sotto con tema “la Bora” sono di Maurizio Stagni.