È in scena, in questi giorni, al Teatro Bobbio di Trieste, lo spettacolo teatrale “Ladro di Razza”, di Gianni Clementi, con la regia di Marco Mattolini e con un cast eccezionale formato da Massimo Dapporto, Blas Roca Rey e Susanna Marcomeni. La commedia è ambientata a Roma nel 1943, sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale e riesce, nonostante la cornice drammatica, a far sorridere e divertire.
Lei è nato a Milano, da padre sanremese e mamma triestina, e vive a Roma; cosa ha appreso da queste culture?
Un po’ di tutto: l’ironia ligure, visto che mio padre è sanremese, ma anche la sua personale ironia – una forma di furbizia triestina. E anche la multiculturalità, perché Trieste è abbastanza particolare; ci sono diverse culture e anche in famiglia ci si ritrova con persone provenienti dai paesi dell’Est o comunque dai paesi confinanti. Ho appreso l’indolenza romana, ma probabilmente soltanto per imitazione, e poi un certa tendenza all’attività frenetica che ho ereditato dalla mia città natale, Milano. In conclusione, direi che sono in un certo senso un “Mittel-italiano”.
Suo padre era un attore e sua madre una ballerina. Lei vedendo questi due genitori all’opera, cosa pensava di loro?
Mia madre non l’ho mai vista all’opera, non l’ho mai vista ballare. Lei ballava per necessità economiche, perché, quando era fidanzata con mio padre, lui non guadagnava molto. Era stato questo il motivo per cui l’aveva messa a lavorare nel suo corpo di ballo. Non aveva però una preparazione artistica da ballerina e ha smesso di ballare prestissimo. Mia madre non ha portato nessuna ventata artistica in famiglia; lei era molto oculata negli affari, ed è grazie alla sua abilità che mio padre ha investito bene i suoi soldi. Lei si occupava di … ‘finanza’, mentre lui portava a casa il guadagno.
Ha qualche profumo o qualche cosa di particolare che le ricorda la città di Trieste?
Quando sento qualche voce triestina a Roma, provo un grande affetto, una grande tenerezza; anche perché il dialetto lo capisco, e, a differenza degli altri dialetti veneti, lo trovo molto dolce e molto femminile. E le donne, quando parlano in triestino, sono ancora più femminili. E questo lo dicono anche altri miei colleghi di Roma. C’è solo una cosa delle triestine, che a noi di Roma ci fa tanto ridere: quando ad una domanda rispondono dicendoti: “Comandi?”. E’ un modo di dire strano e quindi divertente!
Che sensazione le ha fatto interpretare Zeno Cosini, che è un personaggio triestino?
Giocavo in casa, conoscevo lo spirito triestino; il mio venticinque per cento triestino, con Zeno, si poteva esprimere al massimo. E poi conoscevo i posti … se parlavo di Piazza della Borsa, sapevo dov’era, e quando dicevo la parola “cocal“, mentre gli altri colleghi non capivano cosa stessi dicendo, io sapevo che significava ‘gabbiano’. Interpretavo la parte di un austriaco che viveva a Trieste, che si era integrato nella città e che era circondato da donne che facevano andare avanti la famiglia; una specie di matriarcato che ho poi ritrovato anche tra i miei parenti triestini, perciò conoscevo lo spirito di questo tipo di famiglia. Nell’ultima parte dello spettacolo, quando cantavo una canzone e accendevo la sigaretta finale, la prima volta ho dovuto trattenere la commozione, proprio perché l’animo di Trieste, mi era entrato dentro.
Nel 2007 aveva portato in scena, al Politeama Rossetti di Trieste, la commedia goldoniana “I due gemelli veneziani”, in dialetto veneto. Recitare in dialetto è difficile?
Sono molto portato per i dialetti, chiaramente per imitazione; ho l’orecchio musicale e questo aiuta molto. Nella commedia goldoniana ho dovuto imparare anche le battute in dialetto veneziano e quello era abbastanza duro, perché è un dialetto più aspro di quello triestino. Uno dei gemelli veneziani Zanetto parla in bergamasco, perché è stato allevato da uno zio di Bergamo, e lì ho dovuto parlare anche in quel dialetto, ma mi sono trovato bene. In altri lavori ho usato il dialetto siciliano, quello sardo, sempre con ottimi risultati; soltanto quello perugino non mi riesce bene, mentre Susanna Marcomeni, che interpreta Rachele nella commedia “Ladro di Razza”, è bravissima!
Che ricordo ha della Bora?
Ho imparato che prima della Bora arriva il Borin; la Bora è un vento fastidioso! Nel periodo in cui facevo “La coscienza di Zeno” a Trieste c’era stata prima una nevicata e poi una forte Bora, che era arrivata a centosettanta all’ora. Mi hanno raccontato che un signore, uscendo da casa con la valigia, era scivolato giù per una discesa come se fosse su di un ‘bob’, ma per fortuna non s’era fatto male. Può essere pericolosa, la Bora. Suppongo, però, che i triestini ci siano abituati e credo che questo vento aiuti a tenere pulita l’aria dalle polveri sottili.
A proposito di Bora: ha mai visto qualche foto di Ugo Borsatti?
Non conosco questo fotografo, ma ho visto delle belle foto vecchie, in bianco e nero ed erano anche un po’ sgranate, proprio belle! Poi ho visto delle foto di quando c’erano gli americani a Trieste, con la Bora; forse sono sue
Qual è il suo piatto triestino preferito?
La ‘Jota’, mi piace tanto! Infatti la moglie di un mio cugino, triestino, me la prepara ogni volta che vengo in questa città. Anche i dolci triestini mi piacciono molto … insomma tutte le cose tipiche! Adoro il baccalà mantecato e il “radiceto”!
L’idea di fare l’attore è nata da quando era piccolo?
La vocazione per qualcosa non la percepisci da piccolo, te ne accorgi con il tempo. Quando ero bambino, d’estate, facevo una cosa particolare: verso le sei di sera, prima di tornare a casa, costruivo una montagna di sabbia, ci montavo di sopra e recitavo delle cose inventate al momento e i miei amici stavano ad ascoltarmi. Evidentemente il desiderio di esibirmi c’era già. Quando avevo più o meno cinque anni ho fatto parte di una compagnia teatrale di bambini e c’era anche la soubrette Paola Quattrini, che poi è diventata una grande attrice. Dopo questa esperienza non ho pensato più al teatro, ma durante il servizio militare, specialmente nell’ultimo periodo, quando noi militari eravamo più liberi e potevamo uscire la sera, io raccontavo barzellette, monologhi agli altri militari, e uno di loro mi consigliò di fare l’attore. Riuscivo a catturare la loro attenzione e li divertivo.
Tornato a casa, mi sono iscritto all’Accademia teatrale “Silvio D’Amico” di Roma, edopo aver superato gli esami ho frequentato i corsi. Ma presto ho iniziato anche a lavorare. Il primo lavoro l’ho fatto con Andrea Giordana; era una commedia americana ed io stavo in scena per sette minuti.
Preferisce i ruoli che si avvicinano di più alla sua personalità oppure quelli che sono completamente l’opposto?
Per me è la stessa cosa, ma quando il ruolo che interpreto è vicino alla mio modo di essere sono me stesso e quindi recito poco, mentre, quando devo interpretare dei personaggi diversi, allora mi devo impegnare di più. Ad esempio quest’anno ho fatto due spettacoli, “Otello” e ” Ladro di Razza”, dove faccio dei personaggi totalmente opposti. Nell’ “Otello” ho recitato, mentre nel “Ladro di Razza” sono quasi me stesso, perciò mi diverto di più.
E com’è nata l’idea di fare il “Ladro di Razza”?
Mi hanno fatto vedere il testo. Conoscevo l’autore, perché in passato avrei dovuto fare una sua commedia, idea che poi non s’è realizzata. Sapevo che era un autore valido e quando mi hanno detto che c’era questa commedia di Giovanni Clemente, l’ho letta, mi ha divertito moltissimo e ho accettato di farla. Ho pensato che una cosa divertente potesse interessare il pubblico.
Nelle altre città italiane ci sono tanti giovani che vanno a teatro?
Sì, per fortuna ci sono. I ragazzi portati a teatro dalle scuole, quelli che non scelgono di venire a teatro, a volte sono un po’ fastidiosi, fanno confusione; una volta ho dovuto fermare lo spettacolo perché il brusio era terribile! Mentre i giovani che decidono, spontaneamente, di andare a teatro sono molto attenti e molto partecipi; sono i primi ad iniziare un applauso se la cosa piace, per cui sono degli spettatori importanti, sono la semina per il futuro. Per questo è bene fare spettacoli coinvolgenti in modo da farli ritornare volentieri.
Lei tra teatro, cinema e televisione cosa preferisce?
Tra tutti preferisco il teatro, ma la televisione è quella che ti dà più notorietà. Molti giovani attori, che nascono dalla televisione, pensando che il teatro sia una cosa semplice; si accorgono, quando devono mettersi in gioco, che non è poi così facile, e qualcuno fallisce. Al secondo posto metto il cinema, ma anche lì si riesce ad avere più visibilità se poi il film viene trasmesso in televisione. Chi riesce a fare il cinema di qualità, comunque, ha grandi soddisfazioni. A me è capitato di fare questo tipo di cinema e l’ho trovato molto gratificante: il regista ti aiuta ad entrare nel personaggio, si discute e si prova a tavolino prima di girare, quindi si impara molto.
Com’è stato lavorare con Ettore Scola?
Bello, è stata una bellissima esperienza e non c’era soltanto Ettore Scola ma anche altri grossi nomi della cinematografia. Mi è servito per maturare davanti alla macchina da presa, che è un occhio e mette in primo piano tutto, un espressione, uno stato d’animo; le emozioni devono essere legate a quel personaggio e quindi ogni piccolo tentennamento si nota. Sul palcoscenico la cosa è diversa, perché tra l’attore e il pubblico c’è una distanza e perciò l’espressione del volto non è così visibile. Quando io entro in scena sono sempre un po’ emozionato; i primi tre minuti il cuore batte forte, i respiri sono un po’ mozzati, ma il pubblico non se ne accorge, sei più distante. Teatro e cinema di qualità li metto sullo stesso piano, ma sono due sensazioni diverse.
Secondo lei il cinema e il teatro, nel tempo, sono cambiati? In peggio o in meglio?
Il teatro è cambiato in peggio. Non c’è più la serietà di una volta, dei produttori, degli impresari teatrali. Spesso non vengono rispettati i contratti nazionali e può capitare di non venir pagati. Purtroppo, nei periodi di crisi, tutto è più difficile. Per quanto riguarda il cinema, invece, sta migliorando, perché ci sono forze nuove, quelle dei quarantenni, che riescono a raccontare cose interessanti.
Lei impara facilmente una parte, ci mette più tempo, ha un metodo preciso?
Arrivo alle prove che so già la parte a memoria; sembro un bacchettone, quelli che sanno già tutto. Il fatto è che lo devo fare, perché se no mi troverei in ritardo rispetto agli altri colleghi, alcuni dei quali imparano molto più facilmente. Qualcuno studia anche durante le prove, io non ci riuscirei; devo andare in scena senza preoccupazioni. Una volta soltanto mi è capitato di dover imparare una parte in pochi giorni e ricordo che mi svegliavo la notte, per studiare le battute. Da quel giorno, chiedo subito il copione, così comincio a studiare anche un paio di mesi prima dell’inizio delle prove.
Suo papà com’era nella vita privata?
Era una persona variabile d’umore, era di un carattere molto forte, era uno che si incavolava – soprattutto dopo aver letto il giornale. Commentava ed io mi divertivo molto, anche quando parlava di cose serie; ma poi riflettevo su ciò che aveva detto.
Sua mamma le ha trasmesso qualche aneddoto su Trieste?
Mia madre si è sposata con un attore negli anni Cinquanta, e Trieste, allora, era una città di provincia, perciò la gente la guardava con sospetto. Commentava il suo modo di vestire, il suo modo di comportarsi. Mi ricordo che quando andavo a trovare i nonni a Servola, che era ancora circondata dalla campagna, giocavo con gli altri bambini e mia madre mi mandava fuori dopo avermi fatto il bagno. Un giorno un ragazzino mi si è avvicinato per annusarmi e poi ha esclamato, chiamando gli amici: ‘Muli vegnì a sentir come spussa de bon!’. Questo è uno dei ricordi legati a Trieste. Ancora oggi torno a Trieste volentieri, perché ho venti cugini di primo grado.
Qual è il suo pittore preferito?
A me piacciono molto i francesi. Vedendo i quadri di Renoir in una galleria, una volta, mi sono emozionato molto. Picasso mi piace, anche se non è facile da digerire; però bisogna tener conto che per arrivare all’Astrattismo ha fatto un suo percorso. Lui era anche un ritrattista, ha dipinto dei paesaggi prima di diventare un pittore astratto; vuol dire che ha raccolto tante esperienze da permettersi di raccontare in un modo così smembrato le proprie emozioni. Un po’ come Carmelo Bene nel teatro; lui aveva uno strumento nella voce, però prima aveva fatto altre esperienze teatrali e poi è arrivato al risultato dell’astrattismo teatrale. Quando si arriva alla fine delle proprie esperienze e si è fatto un percorso onesto, ci si è espressi nel pieno del proprio talento, ci si può permettere di fare qualcosa di diverso, qualcosa che sia un’esplosione di tutto quello che si ha avuto dal passato. Quando vado a vedere la Cappella Sistina, mi emoziono moltissimo, è come incontrare un amore fantastico che non si vede da anni e che è rimasto sempre uguale, anche se il tempo è passato. L’arte, in tutte le sue manifestazioni, se è arte vera, emoziona. La musica, la danza, ti cambiano la vita. Quando si va a vedere uno spettacolo, almeno per un qualche giorno il pensiero rimane concentrato su quello che si è visto. Perciò l’arte, forse, come si dice, non fa mangiare, ma è un nutrimento – l’arte si mangia.
Ha qualche progetto per il futuro?
Vado avanti con il teatro. Sto cercando un testo che mi convinca anche come spettatore e mi piacerebbe continuare con la commedia, perché ci sono portato geneticamente: non tutti sono capaci di far ridere. Per quanto riguarda la televisione, aspetto che ci sia qualcosa di dignitoso. Sto attendendo l’uscita di un lavoro televisivo che ho fatto tempo fa, che si chiama “Mister Ignis” ed è la saga famigliare della famiglia Borghi di Varese, quelli che sono partiti producendo i fornelli a gas e i frigoriferi.
di Nadia Pastorcich – centoParole Magazine, riproduzione riservata
Ringrazio l’attore Massimo Dapporto per avermi concesso questa intervista e per avermi regalato una piacevolissima mattinata, al Caffè degli Specchi.
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