Magic in the Moonlight: vibrazioni mentali

L’incipit del film di Woody Allen “Magic in the Moonlight” si apre con l’inquadratura di un teatro di Berlino nel 1928, con un dolce sottofondo musicale di Cole Porter, ovvero “You Do Something to Me” – testo che già suggerisce qualcosa allo spettatore.
Per poi passare ad un primissimo piano dell’occhio di un elefante. Occhio che nel cinema rappresenta l’organo della conoscenza e dell’anima e che in questo film può assumere più significati: occhio come preveggenza, occhio come conoscenza dell’io interiore e quindi dell’anima, e occhio come sguardo attento a ciò che ci circonda.
Dopo questa inquadratura si passa lentamente alla figura del mago pseudo-cinese Wei Ling Soo – sotto le vesti del quale si nasconde l’inglese Stanley Crawford (Colin Firth) – che si esibisce nei suoi trucchi di prestigio in un teatro colmo di gente. Arte nell’arte: teatro nel cinema. Iniziare il film con una scena che si svolge a teatro, dove tra l’altro c’è uno spettacolo di magia (finzione), aumenta la componente finzionaria – presente un po’ in tutto il film – e la percezione di un realtà immaginaria, distaccata dal mondo reale, che si proietta in un universo parallelo – una sorta di sogno, o meglio ancora di magia che si crea tra lo spettatore e lo schermo della sala cinematografica.
Stanley Crawford è un uomo molto realista ed è perfettamente conscio che i suoi trucchi sono pura finzione e che quindi non possono esistere persone dotate di poteri soprannaturali, capaci di entrare in contatto con gli spiriti o di conoscere i lati più nascosti di ciascuno di noi. Oltre ad essere un abile illusionista, è anche un bravissimo smascheratore di falsi medium. L’amico di infanzia Howard Burkan (Simon McBurney) lo viene a trovare a teatro e gli racconta dell’esistenza di una giovane americana, Sophie Baker (Emma Stone), dotata di un sesto senso, che è ospite presso una ricca famiglia che ha una villa in Costa Azzurra. Howard prega l’amico di smascherarla: Stanley accetta la sfida.

In questo film l’elemento chiave è l’essere umano con tutte le sue debolezze e la sua continua ricerca della componente metafisica delle cose, e quindi il suo desiderio di andare oltre la realtà. Inevitabile è perciò il riferimento alla psicoanalisi, tema molto caro al cinema fin dalle sue origini (entrambi sono nati quasi contemporaneamente) e ancora più caro al regista Woody Allen che ne fa cenno in quasi tutti i suoi lavori cinematografici – elemento molto autobiografico: per anni il regista si è fatto psicanalizzare.

magic_in_the_moonlight_48050657_st_3_s-highNel film troviamo una continua lotta tra il razionale e l’irrazionale: tra le cose che noi possiamo percepire attraverso i cinque sensi e quelle che sono legate al sesto senso, all’inconscio, al mistero.
E il regista vuole proprio sottolineare questa costante ricerca di consolazione da parte dell’uomo attraverso mezzi a volte anche privi di senso e banali. In fondo tutti conoscono la realtà, ma a volte si è portati a cercare una risposta al di là delle cose, piuttosto che dentro a se stessi, per una naturale propensione della speranza che tende all’infinito.

Piano piano, il protagonista, per quanto sia una persona razionale, inizia ad avere qualche dubbio: la ragazza sembra essere genuina, vera; e ogni “vibrazione mentale” di Sophie smonta le certezze di Stanley, che inizia a credere che ci sia qualcosa al di là del reale. Quando la giovane svela alcuni fatti personali legati alla vita di Stanley e a quelli di sua zia (Eileen Atkins), le sue certezze iniziano a vacillare. Lui, uomo colto, legato ad una donna che definisce la sua anima gemella, dopo aver passato un po’ di tempo con la giovane ragazza, perde un po’ le sue sicurezze e la storia inizia a prendere una diversa piega…

Sicuramente l’amore è una componente misteriosa, inspiegabile che crea uno squilibrio nella vita di Stanley, nel suo modo di vedere le cose. Lui perde il suo proverbiale raziocinio e viene travolto dall’amore che gli offusca la mente e lo allontana dalla verità e dal compito di smascherare la ragazza.

_TFJ0034.NEFDopo il film “Midnight in Paris” che ci ha portati indietro nel tempo, il regista sembra volerci riportare in quegli anni; e e con questo film, curato nei minimi dettagli, dal sapore retrò, dà allo spettatore la possibilità di lasciarsi coinvolgere totalmente dalla diegesi, proiettandosi così in quel magico mondo dal sapore elegante, dai bei vestiti in perfetto stile anni ’20 e dalle musiche dell’epoca. Un’atmosfera perfetta, idilliaca che fa rammentare le briose e frizzanti commedie americane d’un tempo, dove le battute fresche dal contorno ironico erano all’ordine del giorno.

Il finale? Molto alla My Fair Lady: lui seduto su una comoda sedia – come il professor Higgins (Rex Harrison) – si rattrista che la ragazza lo abbia lasciato per andare a sposarsi con un altro uomo, ma nel silenzio della stanza si sente un rumore: è Sophie che è ritornata da lui – un po’ come Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) che ritorna dal suo pigmalione.
Un film che fa ridere, riflettere e sognare. Un film che merita d’esser visto.

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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1 commento su “Magic in the Moonlight: vibrazioni mentali”

  1. Difficile dare un’immagine completa di un film nel breve spazio di poche note. Ma tu, Nadia, sei riuscita nell’intento, e maggiormente in quello di stimolare il lettore ad andare a vedere il film, che senza dubbio attirerà ed appassionerà, oltre che per la sua trama, anche per l’ambientazione di un’epoca retrò sempre affascinante e romanticamente coinvolgente.

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