“L’orologio di Monaco” – prodotto da Vox Produzioni – è un film di Mauro Caputo ispirato alla storia delle radici della famiglia di Giorgio Pressburger, raccolta nell’omonimo libro. Le vite di molte importanti persone come Karl Marx, Heinrich Heine, Felix Mendelssohn, Emeric Pressburger, Edmund Husserl, si legano con quella di Pressburger, d’altronde, come ricorda lui stesso nel film: “Tutte le vite sono intrecciate l’una con l’altra”.
Il film inizia con un’inquadratura molto suggestiva e particolare: la macchina da presa si muove lentamente fino a soffermarsi su una sagoma di passaggio, in controluce: quella di Pressburger, il quale – per tutta la durata del film – compare come protagonista e narratore. Ed è proprio la sua voce a raccontare allo spettatore i ricordi, le vicende umane che lo legano a tutti quei grandi nomi del passato; questo per evidenziare e sottolineare che cosa significhi appartenere al genere umano, e di conseguenza alla comunità dei vivi e dei morti. Oltre le immagini filmiche odierne ci sono quelle in bianco e nero del repertorio dell’Istituto Luce-Cinecittà e quelle del regista Emeric Pressburger concesse dal nipote, Kevin Macdonald. Compaiono anche alcuni luoghi della città di Trieste come la Centrale idrodinamica del Porto Vecchio, l’antica libreria Umberto Saba, il cimitero ebraico, la Risiera di San Sabba e lo storico Caffè San Marco.
Lo scorso anno il film è stato presentato al Festival Internazionale del Film di Roma e ora è nelle sale cinematografiche italiane.
Sabato 28 febbraio “L’orologio di Monaco” è stato proiettato al Cinema dei Fabbri di Trieste; tra gli spettatori, oltre al regista Mauro Caputo e Giorgio Pressburger, che ha poi risposto ad alcune domande del pubblico, c’era anche lo scrittore Claudio Magris.
Un film che invita a pensare, riflettere sul significato dell’essere mitteleuropeo e dell’appartenere al genere umano.
Come mai Giorgio Pressburger ha sentito la necessità di cercare le radici della sua famiglia? A rispondere è proprio lui.
Perché non ne sapevo niente e perché in famiglia non avevano mai parlato degli ascendenti per il fatto che qualcuno di loro ha avuto una fine tragica: è stato ucciso dai nazisti. Di questo non si parlava mai. Poi, arrivato ad una certa età, uno vorrebbe sapere da che parte viene, cosa si è svolto nella sua famiglia prima di lui…
Ma qualcuno o qualcosa le ha dato l’input per iniziare queste ricerche?
Sì, sì la scoperta che la madre di Marx si chiamava come me; questo è accaduto quando stavo aiutando mio figlio a prepararsi per l’esame di maturità: nel libro di storia della filosofia c’era una piccola nota biografica su Marx in cui compariva il cognome “Pressburger” e quando mio figlio lo ha letto ha esclamato: “Gulp!” – la madre di Marx portava il nostro stesso cognome. Quando sono andato – come direttore dell’Istituto italiano di cultura – a Budapest, ho incaricato una ditta di ricerche genealogiche: volevo scoprire qualcosa in più sui miei antenati. Dopo un anno di ricerche mi hanno consegnato due grossi volumi e lì ho trovato molte notizie.
Queste ricerche a quale conclusione l’hanno portata? È rimasto affascinato da qualcosa in particolare?
Io non cercavo conclusioni, cercavo delle persone, e sono rimasto colpito perché ho incontrato dei nomi che sono tra i più importanti della storia degli ultimi duecento anni. Ad esempio, Marx che è legato ad un periodo storico ancora più lontano, a un grande movimento. Ma anche Husserl; non potevo immaginare che tutte queste persone fossero, in qualche modo, legate a me. Improvvisamente mi sono sentito investito di responsabilità maggiori di quelle che pensavo.
Oggigiorno, secondo lei, cosa significa essere mitteleuropeo?
Oggi è molto molto difficile: l’Europa è stata gravemente attaccata da cosa e da chi, è difficile adesso dirlo, ma dopo che è nata questa magnifica Unione Europea e dopo che, nel 2003-2004, l’hanno allargata e sembrava che quel mondo che pareva perduto fosse rinato, in realtà si è andati incontro ad una specie di incipiente sfacelo. Come e perché questo sia successo, adesso è difficile dirlo, o meglio non è difficile, ma sono comunque solo delle supposizioni. Sarebbe una grave perdita se quanto si è guadagnato, in una decina d’anni, andasse in fumo.Ora sia l’Europa che la Mitteleuropa stanno soffrendo a causa di queste minacce di disfacimento, di dissolvimento in altri movimenti puramente economici.
Secondo lei, cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
Non lo so. Comunque bisognerebbe fare in mondo da impedire alla civiltà occidentale di focalizzarsi esclusivamente sull’economia e sulla tecnologia, ovvero sul denaro e sulle costruzioni di tecnologie sempre più avanzate e moderne, perché questi in sé, senza altri contenuti, non sono nulla. Oltre a questo ci dovrebbe essere un pensiero per il destino dell’umanità, invece, adesso pare non ci sia. Il denaro e la tecnologia non sono nulla se dietro non c’è un pensiero destinato all’uomo o al miglioramento del destino dell’umanità, all’impedimento di eventi sanguinosi, di aggressioni, di violenza. Mentre, per ora, scaturiscono solo queste cose da questo vuoto di pensiero, e c’è solo la volontà di arricchimento e di potenza tecnologica.
Nel film compare la frase di Heine: “Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”. Me la può commentare?
È un vecchio concetto: i libri sono come degli esseri umani. Rilke – che è stato un grande poeta centro-europeo – ha scritto che quando uno entra in una biblioteca è come se improvvisamente potesse percepire un grande coro che si eleva: ci sono tanti uomini lì, in quei libri; ci sono degli uomini che li hanno scritti, altri che poi hanno fabbricato quei volumi. Per un volume qualsiasi lavora tantissima gente: chi fabbrica la carta, chi rilega, chi scrive il testo con il computer o come si faceva una volta con la macchina da scrivere, chi stampa. In un libro c’è il lavoro di almeno una ventina di persone, anche di più: basti pensare che anche l’autore, per scrivere il suo libro, ha preso le notizie da altri libri, e così via.
Quindi è un coro immenso in cui chi entra in biblioteca si immette, si immerge; perciò basta bruciare un libro, per bruciare tutte queste persone.
Ora chiediamo al regista Mauro Caputo – come mai ha deciso di fare un film proprio sulla storia di Pressburger?
L’idea risale a qualche anno fa: prima di fare “L’orologio di Monaco”, ho fatto con Pressburger un primo lavoro – Messaggio per il secolo – che poi è stato trasmesso anche sulle reti Rai; più che un documentario, era una lunga intervista a Giorgio Pressburger. Da lì è poi nata l’idea di creare qualcosa di più complesso e c’è stata anche la collaborazione dell’Istituto Luce, che ha fornito i vari materiali di repertorio; ovviamente ho preso spunto anche dall’omonimo libro di Pressburger, che avevo letto e che mi aveva particolarmente colpito per le storie, ma soprattutto per le parole, i significati che emergono.
Com’è stato lavorare con Pressburger?
Io non ho molta esperienza in questo campo e mi sono trovato a lavorare con chi, al contrario, ha una grande esperienza in vari campi: scrittura, regia teatrale, cinematografica. Quindi, da questo punto di vista, non è stato semplice, anzi sono rimasto sorpreso di come tante volte Pressburger si sia lasciato trasportare, guidare con tanta pazienza.
Pressburger: Non si tratta tanto di pazienza, accettando di partecipare a questo film, mi sono comportato di conseguenza e, invece di creare difficoltà, ho cercato di mettermi a disposizione di chi mi ha coinvolto in questo lavoro, senza fare storie.
Come ha impostato il lavoro dal punto di vista tecnico?
Il lavoro l’abbiamo impostato anche in base a quelle che erano le nostre possibilità: Pressburger è sempre molto impegnato e quindi abbiamo cercato di gestire al meglio le esigenze di tutti. I mezzi utilizzati non erano eccezionali e quindi, il fatto di aver girato quasi tutto a Trieste, ci ha agevolato molto nell’organizzazione del lavoro.
Ho notato che, ultimamente, per le riprese, si tende ad utilizzare la macchina fotografica piuttosto che la telecamera. Come mai questa scelta?
In questo caso sì, abbiamo utilizzato la macchina fotografica, ma non è stata una scelta scelta tecnica, bensì di mezzi.
Comunque si riesce ad ottenere un buon risultato anche usando la macchina fotografica…
Sì, il risultato è quello che si vede nel film e pochi forse si accorgono che è stata utilizzata una macchina fotografica. La maggior parte non nota la differenza a meno che non vada a leggere, nei titoli di coda, quale macchina è stata utilizzata. Questa scelta non va ad influire sul messaggio, sulle emozioni, su tutto quello che deriva dalle immagini.
Poi ho notato che il protagonista si muove in uno spazio che in realtà – a parer mio – non ha tempo; è come se non seguisse un’asse temporale precisa…
Questa cosa qua è stata ricercata: sia che non ci sia un tempo preciso e in un certo senso nemmeno un luogo. I luoghi che si vedono li abbiamo poi voluti descrivere alla fine del film; ma durante il film, il protagonista, non doveva trovarsi né in un determinato luogo né in un determinato tempo. Tutto ciò perché non volevo identificare il messaggio nella persona di Pressburger, ma trasmettere un concetto generale.
Pressburger: Infatti, io nel film, non parlo assolutamente di me stesso: parlo di altre persone, del passato, del futuro. Non è un film su di me, bensì su un uomo che non si qualifica tranne che per il suo nome, ma che non dice niente di sé. Caputo voleva rappresentare l’uomo alla ricerca di se stesso.
Secondo me, nel film, questo concetto si capisce.
L’importante è questo. Il mio messaggio riguarda un concetto generale, altrimenti il significato del film verrebbe notevolmente ridotto.
Cosa mi dice della scelta delle musiche?
Si è cercato qualcosa di adeguato ai luoghi citati nel film. A comporre le musiche è stato il triestino Alfredo Lacosegliaz; ho trovato le sue musiche particolarmente adatte alle situazioni, ai luoghi, agli argomenti, ma anche per esaltare un po’ quel senso di emozione che danno alcune parti del film.
Tornando al lavoro“Messaggio per il secolo”, che differenze ci sono con “L’orologio di Monaco”?
In “Messaggio per il secolo” c’è sempre Giorgio Pressburger, ma è seduto alla scrivania o lo vediamo in altre situazioni; non abbiamo creato delle scene: è un intervista vera e propria con l’aggiunta di materiale di repertorio: fotografie, immagini.
Pressburger: Con un particolarità: nell’intervista non ci sono domande: non si sente una persona che pone una domanda a cui io rispondo. È un’intervista, però con l’assenza di un interlocutore.
Dopo Trieste, dove verrà proiettato il film“L’orologio di Monaco”?
Intanto il film ha partecipato al Festival Internazionale del Film di Roma – che è già un buon risultato per noi – poi, probabilmente, parteciperà anche ad altri Festival. Il film è distribuito dall’Istituto Luce-Cinecittà; ora è uscito a Trieste, ma poi andrà a Milano e in giro per l’Italia. Non essendo un film commerciale, avrà un percorso diverso, ma uscirà comunque in tante città e poi verrà distribuito in dvd.
Per realizzare questo film è stata fatta una scelta un po’ fuori da quelli che sono gli schemi odierni: di solito si tende a guardare al risultato del film, dal punto di vista economico, anche prima di averlo fatto, in modo che possa piacere a tutte le persone. In questo caso, invece, è stata fatta una scelta di argomenti, di messaggi da diffondere, da far conoscere. Non abbiamo, perciò, rispettato nemmeno una delle regole commerciali.
Pressburger: Sì, è al di fuori delle regole commerciali. Adesso tutti vorrebbero fare dei film che facciano grandi incassi e perciò cercano di compiacere il pubblico, anche nei suoi gusti peggiori, non solo in quelli migliori. Questo film, invece, è proprio l’opposto.
Ringrazio Giorgio Pressburger e Mauro Caputo per la loro disponibilità.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata