[read the article in English] “Dipingo quadri che non esistono e che vorrei vedere” (“Le livre de Leonor Fini”, 1975)
Con questa citazione introduciamo una grande artista del Novecento: Leonor Fini. Il critico d’arte Vittorio Sgarbi ritiene che Leonor sia “la pittrice capace di rappresentare il femminino con una particolarissima sensibilità” (dall’articolo: Vittorio Sgarbi: la bellezza e l’arte)
Ma chi è veramente Lolò?
Oscar de Mejo: “Lolò, così la chiamavano tutti in famiglia…Ma il vero nome era Leonora… che poi divenne Leonor, anzi Léonor alla francese”. (dal libro “Ho sposato Alida Valli” di Roberto Curci).
Lolò è stata una donna innovativa, rivoluzionaria, anticonformista. Una figura emblematica, a tutto tondo. Amica di tantissimi artisti del Novecento, conosce il gruppo dei Surrealisti e con Max Ernst ha una piccola avventura – uno dei tanti uomini con il quale intraprende un breve rapporto amoroso. La definiscono una pittrice Surrealista, ma lei non sa di esserlo.
Nel corso della sua vita numerosi fotografi la ritraggono: Lee Miller, Henri Cartier-Bresson, Dora Maar, Man Ray, Horst P. Horst, Erwin Blumenfeld, Arturo Ghergo, Cecil Beaton, André Ostier, Eddy Brofferio, Richard Overstreet – e molti altri.
Lei amava molto farsi fotografare, amava la sua immagine e adorava frequentare le feste mascherate che negli anni Cinquanta e Sessanta erano di gran moda a Venezia, Montecarlo e Parigi. Alle feste non le piaceva ballare: amava semplicemente presentarsi ben truccata e vestita, farsi fotografare e poi ritornare a casa. A lei piaceva farsi vedere. Lei non era un’attrice, bensì le interessava l’inevitabile teatralità della vita:
“Quando ero bambina, detestavo farmi fotografare. Io fuggivo. Come le musulmane, mi coprivo il viso. Poco a poco, ho trovato interessante avere un viso: conferma della mia esistenza. […] Da allora mi hanno sempre fotografata: mascherata, travestita, quotidiana. Ma non amo le istantanee, niente è più falso del “naturale” fissato. È la “posa” che è rivelatrice, e io sono curiosa e divertita a vedere la mia molteplicità.” (“Le livre de Leonor Fini”, 1975)
Quindi l’atto del travestimento, per Leonor, sta alla base di tutto, e come ricorda: “Mascherarsi è lo strumento per avere la sensazione di cambiare dimensione, specie e spazio”, e poi ancora “Mascherarsi, travestirsi è un atto di creatività. E se lo si applica su se stessi si può diventare altri personaggi o restare nel proprio personaggio. Il fatto di travestirsi è un narcisismo moltiplicato, perché entrare dentro altre immagini rende lo spettacolo ancora più affascinante e anche se si è in una specie di trance, dietro si è sempre se stessi.” (“Le livre de Leonor Fini”, 1975)
La pittura di Leonor Fini è davvero particolare e inimitabile. In un’intervista del 1994 per la Rai del Friuli Venezia Giulia, l’artista ha ricordato: “Nella pittura che uno fa, c’è l’intenzione precisa, ma anche tutto un piano sottostante, che è formato da tutte le cose passate che sono un grande intrigo. Sono ricordi di ciò che non si è notato in un modo preciso, ma che in noi restano e prendono aspetti diversi. Io non posso parlare della mia pittura, se non mi metto a inventare.”
Mentre, nella sua autobiografia, ha scritto: “A volte dico che dipingo quadri che vorrei vedere e che non esistono. Ma è forse una boutade, perché il percorso della mia pittura è in realtà sconosciuto a me come per chi guarda. Sapendo che si tratta di me, di me stessa, ingegnosamente posso far finta di aver rilevato un segno visibile che potrebbe essere questo o quello; la mia intuizione o deduzione potrebbe essere giusta, ma a volte potrei sospettare anche il contrario. Fondamentalmente non mi riguarda. Ciò che è sicuro, è che desidero che le immagini che io faccio appaiano il più vicino a loro stesse. Io le voglio dipinte nel miglior modo possibile […] l’atto del dipingere mi piace, mi dona piacere, concentrazione, intensità: una carica simile alla felicità, come agli altri la dà la danza, il canto… [l’arte] credo che sia un’attività legata alle fonti antiche.”
I suoi quadri hanno un lato parodico, elementi drammatici e seducenti; sono ambigui e misteriosi. Per Leonor era fondamentale e importante la figura umana; non è mai stata tentata dal fare cose astratte. “L’essere umano è il protagonista della nostra vita”.
Non si può catalogare la Fini come un’artista Surrealista, perché è stata molto di più. Ci limitiamo, in questo primo spazio che le dedichiamo, soltanto a tracciare, per quanto possibile, le fasi più importanti e significative della sua vita.
Leonor Fini nasce il 30 agosto del 1907 a Buenos Aires – città di suo padre Erminio, originario di Benevento. A due anni si trasferisce con la madre, per mare, a Trieste. Sua madre, Malvina Braun, lascia il marito violento e va a vivere con la figlia dai suoi genitori – la nonna di Leonor è dalmata, mentre il nonno viene da Sarajevo. Più volte il padre tenterà di rapire Leonor: la madre la vestirà quindi da ragazzo, in modo tale da essere irriconoscibile.
Quando arrivano a casa dei genitori della madre, situata in Via di Torre Bianca – tra la Via Carducci e il Canale – Leonor vede per la prima volta un gatto bianco che l’affascina e con il quale stringe amicizia. La piccola Lolò vive con i nonni, la mamma e lo zio Ernesto Braun. Sua madre è molto fiera di lei. già da piccola, Leonor disegna bene e a quattro anni partecipa ad un concorso di pittura e vince il primo premio per aver disegnato un pollo che cucina un uovo in casseruola. “La cosa che mi piaceva di più era avere molte matite colorate e disegnare” – rammenta Lolò – ” … Casa della mia infanzia, vasi di Gallé, biblioteche piene di libri, odore di cannella nei corridoi. Sulle pareti del salone ho visto questa stampa di Franz von Stuck. (una donna avvolta da un serpente n.d.s) Appena ho imparato a leggere, ho chisto cosa significava “Sinnlichkeit”, che era scritto di sotto. Mi risposero: ‘la Sensualità’. E cosa vuol dire: la Sensualità? Invariabilmente la risposta è stata “die Sinnlichkeit”
A Trieste, nel 1915, Oscar de Mejo è ospite a casa della cugina Leonor. I due hanno rispettivamente lui quattro e lei otto anni.
Oscar vuole giocare con la bambola di Lolò e gliela strappa di mano, dando un calcio alla cugina. Sentendosi in colpa, cerca il suo perdono: “Lolò te me perdoni?”.
Lei non gli risponde. Lui la osserva. Leonor sta sfogliando un libro sdraiata sul suo letto a baldacchino. Oscar è curioso e pian piano si avvicina. Lei lo vede e inizia a mostrargli le illustrazioni in bianco e nero: sono disegni paurosi di un uomo che viene squartato. Lolò dice: “Anch’io farò così”. Oscar è sconcertato e le risponde: “Farai male alla gente?”, e lei ridendo: “No stupido! Forse anche chissà…Volevo dire che, da grande, farò la pittrice, l’artista.” (dal libro “Ho sposato Alida Valli” di Roberto Curci).
Oscar viene descritto come un ragazzino timido, ben educato, tremebondo e quieto con un visetto d’angioletto; Leonor disinvolta, mal educata, incostante, ribelle, capricciosa. Una bambina terribile, secondo i nonni Braun. La mamma, invece, le dà ogni libertà ed è orgogliosa di questa figlia un po’ ribelle, che secondo lei diventerà una donna importante.
Già da piccola Leonor si dimostra interessata ai trucchi, all’atto del travestimento: prende le parrucche della nonna, le maschere dei Carnevali passati, i trucchi della mamma. Le bambole le smonta e rimonta a suo piacimento, truccandole e vestendole in modo strano, con abiti che lei stessa realizza; prende i libri dalla biblioteca del nonno, ne sfoglia tanti. Sono libri d’arte di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Pisanello e ne resta affascinata.
Intorno ai tredici anni Leonor – come ricorda nella sua autobiografia – grazie alla guardia che la porta nel “deposito” – così chiamava l’obitorio – riesce a vedere i morti: il primo che vede è un certo “Mario La Vita”.
La scuola non le piace molto: viene più volte espulsa. È molto indisciplinata e un anno, per essere riammessa, deve dare gli esami di tutte le materie. Viene mandata, durante l’estate, a studiare in Carnia, dove incontra un gruppo di ufficiali che la porta in giro – e così, niente studio, o quasi.
Tornata a Trieste partecipa ad un ballo a Opicina, ma non divertendosi tanto, decide di uscire: va alla fiera dove si diverte con le attrazioni e avendo preso molta aria sul viso, il giorno dopo si ritrova con gravi problemi agli occhi, che la costringono, per un lungo periodo, a portare delle bende che non le permettono di disegnare. Grazie a questo avvenimento negativo, riesce ad essere promossa senza fare nessun esame.
A quindici anni inizia a dipingere e disegnare in maniera seria: si dedica ai ritratti, e diventa amica di Arturo Nathan, un uomo eccezionale che vede ogni giorno e che per parlarle si presenta a casa sua anche al mattino presto. Dipinge da autodidatta, inizialmente, e frequenta a Trieste personaggi illustri e gli artisti Carlo Sbisà e Arturo Nathan stesso, mentre Edmondo Passauro diventa il suo maestro. Nel libro “Lacerti di Memoria. Taccuini intermittenti”, il critico d’arte Gillo Dorfles ricorda:
“Altre occasioni di incontri e discussioni ebbero poi luogo nella ospitalissima casa di Elsa Dobra: una signora della buona borghesia, sorella di quella Élodie Stuparich che fu una delle tre ispiratrici di Scipio Slataper e nel cui salotto si riunivano molto spesso le dramatis personae di quella strana commedia dell’arte costituita dall’intelligencija triestina degli anni Trenta: tra gli altri, Gerti Tolazzi, il filosofo e pittore Arti Nathan, la “Frombolo” Gruber (figlia di Silvio Benco), Leonor Fini, che proprio in quegli anni aveva dipinto un bellissimo ritratto di Italo Svevo; e oltre a me e a Bobi, altri personaggi ormai svaniti nel nulla del ricordo.”
Un giorno, una signora visita la casa di Leonor; dice a sua madre che un suo parente (Mario Alberti) ha visto da loro il ritratto del giudice Alberti (fratello di Mario) e che questo ritratto gli è piaciuto molto; il pittore che l’ha realizzato, sarebbe potuto venire a Milano, per ritrarre tutta la sua famiglia? Leonor, la pittrice che ha dipinto quel quadro, si reca così, non ancora diciottenne, nella capitale lombarda: in stazione non l’aspetta nessuno, tutti in attesa di un pittore, e non di una ragazza.
Nel gennaio del 1929, a Milano – già dal 1924 Leonor frequenta questa città, ma vi si trasferisce definitivamente solo in quell’anno – presso la “Galleria Milano”, Lolò fa la sua prima vera esposizione. La sala è diretta da Vittorio Barbaroux che ha il coraggio di accogliere nella sua rinomata galleria milanese la produzione di tre artisti triestini sconosciuti: Leonor Fini, Carlo Sbisà e Arturo Nathan detto Arti – entrambi grandi amici di Lolò con i quali lei passava le giornate nelle osterie del Carso, che raggiungeva in sella alle rispettive motociclette dei due amici. Oscar de Mejo, dopo tanto tempo, incontra alla mostra la cugina e resta affascinato dai suoi quadri: curiosi, diversi tra loro, sospesi tra la realtà e il sogno – vicini al Surrealismo. Leonor, in questa occasione, racconta al cugino che a spingerla a trasferirsi definitivamente a Milano è stata la reazione furibonda della moglie del suo primo maestro di pittura (probabilmente Edmondo Passauro):
“Beh, questa megera ha fatto irruzione nello studio, e si è esibita in una scena madre di furibonda gelosia. Una cosa sgradevolissima, insopportabile.”
“Ma voi stavate lavorando, no?”
“Beh, sì. Anche …”
“Ho capito.”
(dal libro: “Ho sposato Alida Valli” di Roberto Curci)
Esposto in mostra c’è anche un quadro di Lolò che ritrae Italo Svevo anziano. Leonor lo conosce bene, perché è un dei tanti uomini di cultura che frequentano i nonni Braun e lo zio Braun. A casa dei suoi nonni, Leonor conosce anche il poeta Umberto Saba e Bazlen. Inoltre, v’è pure esposta un’opera che raffigura Linuccia Saba – la figlia del poeta.
In questo stesso anno comincia a conoscere tantissime persone tra i quali Gio Ponti che le commissiona dodici disegni per la rivista “Domus”. Sempre in questo periodo incontra i pittori Mario Sironi e Achille Funi; con quest’ultimo instaura una relazione sentimentale e frequenta anche la sua scuola di pittura. Il sogno di Leonor è quello di ritornare a Parigi – dove vi si stabilisce all’inizio degli anni Trenta – dove c’è già stata con la madre e dove aveva realizzato un quaderno di schizzi.
La seconda volta che va a Parigi ci va da sola: in treno incontra il pittore de Pisis , con il quale scambia qualche parola. Arrivati nella capitale francese, de Pisis la porta al caffè “Aux deux Magots”, dove – come ricorda Leonor – il caffè è pessimo: una specie di brodo.
Nel 1931, Leonor espone presso la Galerie Bonjean – al numero 34 di rue de la Boétie – diretta da Christian Dior – che allora non era ancora il conosciutissimo stilista.
Lolò si dedica alla figura femminile cercando di scoprire i lati oscuri della femminilità. Ricerca che dura per tutta la vita. Nel 1932, tra i vari dipinti di donne appare anche una figura maschile che riporta l’attenzione di Leonor per i ritratti. L’uomo in questione è André Pieyre de Mandiargues – con il quale ha una relazione – che conosce grazie ad Henri Cartier-Bresson – quest’ultimo conosciuto poco tempo prima in una pasticceria parigina.
Nel 1933, Leonor si avvicina ai Surrealisti attraverso l’amicizia della stilista Elsa Schiaparelli – per la quale realizza, nel 1938 la boccetta di profumo “Shocking” a forma di busto di donna ispirata al corpo di Mae West, che poi verrà ripresa, molti anni dopo, da Jean Paul Gaultier – che le viene presentata da Christian Dior. Sempre nello stesso anno conosce, a casa di Jacques Heim, Marx Ernst.
Nel 1936, Leonor espone i suoi quadri presso la Galleria Julien Levy e al Museum of Modern Art a New York. È inoltre presente all’Exposition Surréaliste des Objets di Parigi, alla Mostra Internazionale Surrealista di Londra, e alla Biennale di Venezia con cinque opere.
Quando la Seconda Guerra Mondiale è quasi alle porte, nel 1939, Leonor, Federico Veneziani e De Mandiargues partono – su invito – per andare a trovare Max Ernst, nella sua casa a Saint-Martin d’Ardèche. Ernst: “l’incanto di Leonor Fini è nascosto dietro i tratti del suo volto: occhi profondi e magnetici, di un “nero bluastro”. (“Il teatro sovvertito di Leonor Fini” di Vittoria Crespi Morbio)
Nel 1939, con alcuni suoi amici va verso il confine della Spagna: per fuggire dall’imminente guerra. Si fermarono ad Arcachon, un posto vicino al mare che ha delle grandi dune. Salvador Dalì – che vive lì vicino – parte subito dopo aver sentito che il nemico stava arrivando. Nel 1940 Leonor ritorna a Parigi per poi spostarsi a Montecarlo ed evitare l’occupazione tedesca in Francia. Ed è proprio qui che si sposa con Federico Veneziani, dal quale si separa poco dopo, quando, nel 1941, incontra Stanislao Lepri – console d’Italia nel Principato di Monaco. Lui la nota in un cinematografo e subito vuole conoscerla. I due diventano amici e iniziano a dipingere insieme. Nel 1943 partecipa alla mostra organizzata da Peggy Guggenheim su consiglio di Duchamp a New York.
Nel libro “Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti” Peggy Guggenheim ricorda Leonor così:
“Leonor Fini era una prediletta di Max che venne a trovarci a Marsiglia subito dopo che mi ero liberata dalla polizia. Accusava sempre Max di avere due Sophie invece di una, come Arp. Infatti aveva Leonora Carrington e Leonor Fini e cercava in tutti i modi di favorirle il lavoro. La Fini era una ragazza molto bella con un modo di fare disinvolto, veniva da Montecarlo, dove si era rifugiata, e per vivere dipingeva ritratti. Voleva vedere i nuovi quadri di Max e ne portò uno piccolo suo, che avevo comprato precedentemente, dopo averlo veduto in una fotografia. A Laurence, a Marcel e a me non piacevano le sue arie da vedette viziata ma Max la adorava e voleva che anch’io facessi altrettanto: sembrava sempre chiedermi l’approvazione di tutto. Mi presentò alla Fini come una protettrice delle arti, non come amante, e sono certa che volesse nascondere questo fatto. Il quadro che la Fini portò con sé era un piccolo oggetto affascinante. Sembrava una cartolina e più tardi, a New York, Breton si oppose al suo inserimento nella mia collezione, ma a causa di Max non poté farne nulla. Max pensava che fosse meraviglioso solo perché l’aveva dipinto la Fini, come in seguito giudicava stupenda qualsiasi cosa di una ragazza giovane e abile che magari ammirava. Con i pittori maschi non era così indulgente.”
Sempre nel 1943, Lepri viene richiamato a Roma dalle autorità italiane per l’armistizio e Leonor lo segue. Appena arrivata nella capitale italiana vede per le strade tantissime immagini di Mussolini bruciare; Leonor resta affascinata dalla meravigliosa architettura dei palazzi e dalle enormi fiamme.
Quel giorno gli inglesi iniziano a bombardare Roma. Leonor prende qualche suo quadro e i due gatti che ha con sé e va nei rifugi. Non vuole più stare a Roma e quindi si reca prima a Santo Stefano e poi all’Isola del Giglio – anche lì, ben presto, arrivano i tedeschi: Leonor torna di nuovo a Roma, dove nel 1944 suo cugino Oscar de Mejo le presenta la sua futura moglie: Alida Valli. Alida e Leonor sono due donne completamente diverse: il giorno e la notte. Nonostante la loro diversità, Leonor propone ad Alida di farle un ritratto; lei accetta. Ne viene fuori un quadro che non sottolinea la solarità dell’attrice, ma anzi la rende un po’ inquietante.
Lolò vive all’ultimo piano di Palazzo Altieri assieme a Stanislao Lepri. Il suo studio ha la vista su piazza del Gesù ed è pieno d’affreschi, che Alberto Savinio descrive così: “Non si respira aria di lavoro in questo luogo. Così come è del tutto assente l’odore dei materiali usati dal pittore, ovvero colori e vernici. Le tele di Leonor Fini si mescolano ai mobili, agli oggetti, alle stoffe di questo salone senza soluzione di continuità, come se tele e oggetti e mobilio fossero alberi di una stessa foresta (Godard J. “Leonor Fini. Le realtà possibili”, 1998)”
Nel 1946 Leonor torna a Parigi dove riprende a fare mostre e inoltre si dedica anche al teatro, realizzando scenografie, costumi per noti registi come Genet, Strehler; fa alcune maschere dalle sembianze feline piene di perle, strass, ricami, che vengono indossate sia da lei che da altri. E questa sua attività teatrale dura per circa un ventennio. Leonor nel 1948 ritrae Joy Brown con la ballerina di danza classica Margot Fonteyn, la quale, nella sua “Autobiogrphy”, ricorda:
“Eravamo tutti in febbrile eccitazione per le prove dell’orchestra e dei costumi di “Demoiselles” (Demoiselles de la Nuit tratto dalla storia di Jean Anouilh n.d.s). Leonor Fini, la designer, aveva un ossessione per i gatti e fece una perfetta maschera di gatto completa di naso rosa, baffi e tutto. Il problema era che io non potevo concepire di esprimere qualcosa con la testa chiusa in una scatola-gatto. Un duetto d’amore era fuori questione. Io mi sentivo grottesca. Leonor Fini non era disposta a modificare il design, e io improvvisamente mi sono ritrovata a gridare istericamente in francese che mi rifiutavo assolutamente di indossare la maschera. Ero inorridita! Non potevo immaginare di fare una cosa del genere al Covent Garden! Ma ha funzionato, e la dimensione della maschera è stata ridotta in modo da coprire gli occhi e un po’ di naso, e rimasero i baffi. Tutto sommato, i miei due costumi per il balletto erano incantevoli. […] Leonor aveva progettato l’ambientazione di un tetto clamorosamente realistica, e quando tutti noi ci stavamo rincorrendo, sopra le tegole, la struttura è collassata.”
Dopo un viaggio in Egitto con Lepri, nel 1951 torna in Italia e partecipa ad una festa mascherata presso Palazzo Labia (Venezia) dove il fotografo Ostier la immortala travestita da angelo nero.
Nel 1952 Leonor inizia la storia con lo scrittore polacco Costantin Jelenski – che ha conosciuto a Roma tramite il fratellastro di lui, Sforzino Sforza: uno dei tanti uomini di Leonor – continuando però il rapporto anche con Stanislao Lepri, che accetta il menagé à trios.
Girando in macchina la Corsica, nel corso di un viaggio con i due, Leonor scorge a Nonza, vicino al mare, delle rovine: scendono dall’auto e, a piedi, vanno a vedere di che cosa si tratta. Scoprono un monastero francescano. Decidono di prenderlo per loro e lo ristrutturano, trasformandolo in una casa abitabile, in un luogo paradisiaco. Per ventitré estati (dal 1954 al 1977) ci vanno per rilassarsi, dipingere e fare qualche spettacolo “teatrale” in compagnia di amici. Tra i frequentatori di questo monastero ci sono Andy Warhol, Elsa Morante, Federico Fellini, Jean Genet. I tre organizzano anche feste a tema sui colori ed è proprio nelle foto, che sono state scattate in questo periodo, che si evince l’amore che Leonor ha per il travestimento e le stoffe. “I tessuti per me hanno una magia, una forza d’attrazione che devono provare i Tarantolati” (Le livre de Leonor Fini, 1975)
Nel 1977, Lepri si sente male e anche Leonor non gode di ottima salute, così lasciano quel magico posto con la consapevolezza di non tornarci mai più. Lepri, infatti, si ammala gravemente; morirà pochi anni dopo. Leonor continua così a vivere a Parigi, a dipingere, esporre le sue opere e illustrare libri: negli anni Sessanta Leonor Fini è ormai ben conosciuta nell’ambiente parigino di allora e non solo.
Nel libro “La mia vita con Dalì. Quindici anni vissuti insieme al genio del surrealismo”, Amanda Lear ricorda il suo incontro con Leonor:
[…] Prendemmo posto nella sua Cadilac [di Dalì] per recarci al Ledoyen, un grande ristorante addossato al Petit Palais sugli Champs Elysées. […] Leonor Fini, con la sua corte personale, si unì a noi. A modo suo era stravagante quanto Dalì. Solo le sue scarpette sbucavano dal lunghissimo vestito, su cui indossava una mantellina come quelle dei maghi. Aveva delle stelle tra i capelli e in una mano teneva una bacchetta magica come fosse uno scettro. Era evidente che voleva sapere chi ero. Vidi Dalì protendersi verso di lei e parlarle sottovoce. Stavano parlando di me e Leonor Fini non mi levava gli occhi di dosso, annuendo di tanto in tanto in segno di approvazione. Dalì mi disse più tardi che le piacevano le donne, cosa che avevo già intuito. Aggiunse che la sua casa era piena di gatti. Ci invitò a cena per la settimana seguente e insistette perché Dalì portasse anche me.
Negli anni Settanta, Leonor si dedica alla scrittura di alcuni romanzi e le sue storie assumono un carattere molto originale come lo sono anche i suoi quadri. Tra le sue opere scritte si ricordano: Mourmour, conte pour enfants velus (1976) – ovvero “Murmur. Fiaba per bambini pelosi”, tradotto recentemente in italiano da Corrado Premuda – l’Oneiropompe (1978) e Rogomelec (1979) – una specie di autobiografia molto romanzata, dove Leonor prende le forme di un gatto per raccontarsi.
Una piccola parentesi sul primo romanzo breve di Leonor: Murmur, opera che Leonor inizia a scrivere nel 1968 a Nonza ispirandosi alla natura della costa della Corsica e al monastero abbandonato nel quale trascorre le sue estati. Anche in questo testo si vede il suo grande interesse per il mondo animale, in particolare per la figura del gatto: il protagonista è appunto metà uomo e metà gatto. Un racconto dal forte carattere surrealista come lo è anche la maggior parte dei suoi quadri.
Il suo amore per la scrittura si evince anche dal quantitativo enorme di lettere che Leonor scrive agli amici. Ogni giorno dedica due ore alla sua corrispondenza epistolare: nelle sue lettere Leonor racconta con enfasi fatti privati, pensieri, opinioni e le sue descrizioni di persone e fatti sono piene di dettagli.
Nell’epistolario di Elsa Morante (“L’amata. Lettere a e di Elsa Morante”) vi è una lunga corrispondenza con Leonor Fini, dove, il più delle volte, i loro gatti sono il soggetto principale – entrambe ne hanno tanti e li adorano. Anche l’attrice Anna Magnani – che Leonor conosce durante il suo soggiorno romano – ama i gatti. Infatti tutte e tre vengono chiamate “Le gattare”.
D’altronde, come Leonor ricorda nella sua autobiografia,“il gatto è il migliore mediatore e il più accessibile tra noi e la natura.”
Quindi il lato animale interessa molto Lolò, che addirittura si maschera da felino; numerose sono le sue opere che ritraggono “les chats”, i piccoli amici pelosi a quattro zampe che tanto ama.
Elsa e Leonor si scrivono frequentemente e si raccontano i comportamenti dei loro gatti, parlano delle recensioni su alcuni giornali italiani che offendono la figura di Leonor, scrivono delle loro vacanze, delle nuove persone che incontrano, dei pochi amici validi che hanno e delle loro opere. Inoltre, Elsa Morante dedica alcune poesie a Leonor e intrattiene una corrispondenza epistolare anche con Kot (Costantin Jelenski) e Lepre (Stanislao Lepri).
In una lettera del 1952, Elsa Morante scrive a Leonor: […] Adesso il mio gatto G. (so che il suo nome Giuseppe non ti piace, ma è lui che ha voluto chiamarsi così) da due mesi non sta più nello stanzino che tu odiavi tanto. L’ho preso con me nel mio studio, e ho ricominciato con Lui (questa maiuscola vuol dirti che G. è il più angelo fra tutti i gatti del mondo) quella nostra unione che era finita quando lui aveva preferito a me la gatta Pamela.
Mentre, alla fine di una lettera del 1954, Leonor Fini scrive ad Elsa: Anche i tuoi gatti tirano fuori la lingua quando si gratta loro la fine della groppa?, confermando una visione degli animali tutta sua: “Ho sempre pensato che gli attributi degli umani sono molto ridotti, molto limitati. Ho sempre invidiato le bestie, i loro artigli duri, adeguati, i loro zoccoli risonanti, le loro scaglie scintillanti, fosforescenti, il loro manto profondo – soprattutto le loro corna” (Le livre de Leonor Fini, 1975)
Leonor muore il 19 gennaio del 1996 a Parigi, nella sua casa di rue de la Vrillière.
Nell’autunno del 2014 il Comune di Trieste intitola il giardino cittadino di via Boccaccio all’artista.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Articolo molto complesso scritto da Nadia Pastorchic, che racconta la vita piena zeppa di tanti episodi di una pittrice e scrittrice eclettica come la Leonor, così come ci appare leggendo. Ci sono nell’arte molte anime inquiete, e sicuramente Leonor era una di queste. Difficile seguire tutti i suoi spostamenti, le sue perigrinazioni, i suoi amori diversi e non facili. L’arte era innata nella pittrice, come il più delle volte accade per gli artisti. Poi le conoscenze, le frequentazioni dei salotti e dei locali di cultura hanno fatto il resto, dando modo all’artista di evidenziare e di sviluppare il suo estro creativo.
Non posso che complimentarmi con Nadia per la sua opera di ricerca fra le pieghe umane e i diversi aspetti artistici di Leonor.