Leggere d’amore per alleviare la condanna imposta dagli esseri umani: la distruzione. Antonio Josè Bolivar è lo spettatore della devastazione della foresta amazzonica, la terra che l’ha accolto dopo aver lasciato la città in cerca di fortuna, in cui, insieme agli shuar (indigeni) ha imparato a rispondere e a rispettare il linguaggio della natura. Sapeva leggere piano, una lettera alla volta, e i libri che preferiva erano quelli “che fanno piangere a fiumi, dove la gente si ama davvero”. I romanzi d’amore.
Poco lontano dalla sua capanna dove il vecchio si rintanava per poter leggere i suoi romanzi d’amore, c’era la piccola comunità chiamata El Idillio. Un gringo cercatore d’oro, aveva ucciso i cuccioli di una tigre per venderne le pelli, spezzando così un equilibrio divino da lui ignorato. Il gringo, suo malgrado, non riuscirà a tornare salvo al paese, se non con uno squarcio dalla giugulare alla pancia, mangiato dalle formiche. La femmina aveva iniziato così la sua vendetta. Aveva perso il senso dell’istinto e agiva solo per disperazione, uccideva qualunque cosa trovasse di fronte, dagli esseri umani – sua reale fonte di vendetta – fino ad arrivare ad altri animali, spezzando così l’equilibrio di un intero ecosistema. La tigre vagava inquieta giorno e notte, ormai impazzita, alla ricerca di una riscossa nel tentativo di giungere, prima o poi, fino al villaggio de El idillio.
Sarà il vecchio, l’unico bianco vissuto in mezzo alla foresta, a dover affrontare la tigre e la sua disperazione per ristabilire un equilibrio spezzato dall’uomo. Sentendosi ormai screditato agli occhi del vecchio e degli uomini per la sua ignoranza e goffaggine, il sindaco se ne laverà le mani, dicendo: “Facciamo un patto, Antonio Josè Bolivar. Tu sei un veterano della foresta. La conosci meglio di te stesso. Noi ti diamo solo fastidio, vecchio. Cercala e uccidila. Lo Stato ti pagherà cinquemila sucres se ci riesci. Te ne stai qui e l’ammazzi come ti pare e piace. Nel frattempo noi torniamo indietro a proteggere il villaggio. Cinquemila sucres. Che ne dici?” …. “Il sindaco voleva disfarsi di lui. Con le sue risposte taglienti feriva i suoi principi di animale autoritario, e aveva trovato una formula elegante per toglierselo dai piedi. Al vecchio non importava granchè di quello che pensava quel ciccione sudato. Non gli importava nemmeno della ricompensa. Altre idee gli passavano per la testa”. Altri pensieri. Tutt’altro rispetto al denaro e nemmeno alla vendetta. Il vecchio si interrogava, rendendosi conto che qualcosa di diverso c’era: “Qualcosa gli diceva che l’animale non era lontano. Forse in quel momento li stava osservando, e cominciava a chiedersi perché nessuna delle vittime lo infastidiva. Forse la sua vita passata tra gli shuar permetteva al vecchio di vedere un atto di giustizia in quelle morti. Un cruento, ma inevitabile, occhio per occhio dente per dente.” Il gringo aveva ucciso i cuccioli e forse anche il maschio della femmina. L’unica vendetta che cercava, dunque, era lo scontro diretto con l’uomo, non per vincere, ma per morire: “Una legge misteriosa gli diceva che ucciderla era un imprescindibile atto di pietà, ma non di quella pietà prodigata da chi è in condizione di perdonare o regalarla. La bestia cercava l’occasione di morire faccia a faccia, in un duello che né il sindaco, né gli altri uomini avrebbero potuto capire.”
Lo scontro finale. La resa dei conti. Ma non solo per la tigre, che altro non desiderava, ma anche per il vecchio. Nel momento in cui viene lasciato solo in mezzo alla sua foresta, Antonio Josè Bolivar si rende conto che forse per la prima volta ha paura. Consapevole di essere a conoscenza di quasi ogni dettaglio di quella foresta, dei suoi momenti climatici e dei rituali delle sue bestie, muove il suo corpo normalmente in mezzo alle foglie della terra, ma con il pensiero ritorna ad una forma primitiva, in uno stato di vulnerabilità: “Forse ho paura.” Niente più narrativa, né stile, né contenuto. Qua l’autore del romanzo screma la cornice per arrivare alla sostanza di ogni essere umano di fronte alla propria esistenza: l’autoanalisi. Il vecchio fa ritorno con la mente al suo passato, alla ricerca di una conferma, di una rassicurazione che possano in qualche modo ristabilire dentro se stesso un equilibrio diventato precario, che lui stesso non riconosce. Non è più la foresta come luogo di salvezza e conoscenza, ma il simbolo del proprio vissuto. La propria esistenza si pone davanti al vecchio in una battaglia finale, in cui a vincere non sarà nessuno e quello che ci guadagnerà il vecchio sarà soltanto un piede ferito e la consapevolezza della propria condizione di essere umano.
L’attesa della tigre e del suo attacco rendono la giornata e la notte del vecchio un preludio di quesiti, dove mantenere la lucidità e la calma diventa una sfida ulteriore da sopportare. Ma era costretto ad ucciderla. E lo sapeva. Capiva perfettamente, ogni passo in più, che nelle sue vesti di essere umano doveva mostrarsi di fronte alla bestia, facendo le veci di tutti cacciatori maledetti che senza ritegno avevano deturpato la dolcezza di vite perfettamente equilibrate. L’unica consolazione era che la tigre bramava la morte. Desiderava mettere fine a quella commedia umana che aveva reso impraticabile ogni percorso di riassestamento. Ma pretendeva la lotta. Per questo motivo porta allo sfinimento Antonio Josè Bolivar girandogli attorno senza attaccarlo. Finchè, come su un ring, avvenne il primo scontro, mentre il vecchio era nascosto sotto una canoa: “Il vecchio capiva che l’animale era impazzito. Gli pisciava addosso. Lo marcava come sua preda, considerandolo morto ancora prima di affrontarlo. Così passarono lunghe ore dense, finchè un debole chiarore filtrò dentro il rifugio.” Quando l’animale scese dalla canoa, intenzionato a entrarci dentro scavando, il vecchio caricò la doppietta e sparò. Il primo atto era avvenuto: ferì la zampa dell’animale e anche il suo piede: “Erano pari. Feriti tutti e due.” Ma presto giunse il momento di affrontarsi alla luce del giorno, senza più foglie della foresta, né pioggia, né canoe. Nell’attacco dichiarato della femmina, il vecchio sparò il colpo definitivo.
“Era più grande di quello che aveva pensato vedendola la prima volta. Benché fosse magra, era un animale superbo, bellissimo, un capolavoro di vigore impossibile da riprodurre anche solo col pensiero.” Alla tigre non restava altro che la sua bellezza. Al vecchio, invece, rimaneva un colpo in più da aggiungere alle rughe del suo viso e alla stanchezza dei suoi occhi. Per rispetto e dovere di quella foresta che era stata la sua casa e la sua guida maestra per tutti gli anni della sua solitudine, sapeva di aver compiuto l’unico atto possibile per garantire un riassestamento, per quanto precario. Ma per sé non restava nulla, se non una pungente amarezza che si convertiva in vergogna pensando alla razza a cui lui stesso apparteneva. Gli esseri umani.
“Il vecchio la accarezzò, ignorando il dolore del piede ferito, e pianse di vergogna, sentendosi indegno, umiliato, in nessun caso vincitore di quella battaglia. Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati dall’uomo bianco, fino all’incontro del rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre dalle bestie indegne.”
Si parla dunque di sconfitta. Una sconfitta portata a termine da un solo uomo a nome di tanti altri che hanno reso possibile il suo fallimento di fronte alla natura. Per quanto l’equilibrio spezzato sia stato ristabilito grazie all’uccisione della tigre per mano del vecchio, resta indelebile la sua esperienza di fronte a questo atto. Nessun vincitore, ma entrambi vinti. Entrambi vittime della stessa razza, quella che viene definita evoluta rispetto al mondo animale; quella che uccide un ecosistema senza porsi il dubbio di farne parte. La natura qui si erige a protagonista di tutto il romanzo, di fronte a cui l’uomo è costretto a fare i suoi conti e a realizzare la consapevolezza che il fallimento continuerà a persistere nel momento del confronto. L’uomo deturperà la natura e qualcuno dovrà rispondere di questo, sentendosi fallire. A modo suo, però, Antonio Josè Bolivar consola la sua delusione al pensiero di ritornare nella sua capanna e trovare conforto nell’unico mezzo che gli permette ancora di sperare: i romanzi d’amore.
“Antonio Josè Bolivar si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si avviò verso El Idillio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare le barbarie umane.”
(Il vecchio che leggeva romanzi d’amore – Luis Sepùlveda)
Francesca Schillaci @ centoParole Magazine – riproduzione riservata
Un uomo vecchio costretto ad uccidere una tigre cui erano stati soppressi i cuccioli. Tigre che, a sua volta, si era vendicata giustiziando a suo modo chi aveva annientato i suoi tigrotti. L’essere umano contro la natura, sempre per interesse, costretto a difendersi, nella paura del villaggio evidenziata nel contesto del racconto. Il vecchio designato a giustiziare la tigre, in cui, alla fine, riesce. Ma quanti pensieri in lui, quale forzatura al suo animo! L’uomo che leggeva romanzi d’amore costretto a cedere alla violenza chiamata da altra motivata violenza (quella dell’animale).
Un argomento che fa pensare e mette in moto la coscienza.