Le Erme del Disonore e della Viltà di Paolo Cervi Kervischer rappresentano l’orrore del nostro presente

Il tuo passato è il tuo contemporaneo”. Da qui si pone la questione della permanenza, tema caro all’artista e maestro Paolo Cervi Kervischer, che negli ultimi mesi di ulteriori restrizioni sulla libertà di movimento, ha deciso di escludersi per un periodo dal mondo esterno per osservare, con la sua capacità di meraviglia, cosa le sue mani riuscivano a creare: “Quando dipingo non sono io che decido cosa fare. È da sempre così. Si innesca un meccanismo di guida, qualcuno o qualcosa di superiore a me che mi accompagna come un flusso. E io lo seguo.”

Passando nella sua casa-studio tra quadri, cubi, libri e strumenti musicali, si arriva a delle sculture che però l’artista preferisce definire “pitture tridimensionale”: le Erme del Disonore e della Viltà. La novità dell’arte di Paolo Cervi Kervischer sta, ora, nella creazione di strutture fatte di lacerti, pezzi di quadri, una sorta di auto-riciclaggio dei suoi passaggi nel mondo dell’arte che l’ha portato, ancora una volta, a vivere con pienezza anche una situazione di esclusione, isolamento e solitudine. “Siamo fatti di tutto quello che stiamo vivendo, anche del passato. È inutile evitarlo o far finta che non sia mai esistito. Augurarsi che tutto finisca il prima possibile è uno spreco, la viltà di non saper vivere quello che c’è. È come se la vita dovesse essere soltanto stupefacente, in ogni momento. Ma cosa significa? Veramente si può pensare di vivere così? Siamo in un’epoca che, per eccellenza, disonora la vita nel suo passaggio. Si fa di tutto per cancellare il passato, partendo dai vecchi, dagli anziani. Dalle strutture architettoniche che racchiudevano i segni di un tempo maestro, il passato appunto, l’unico che può raccontare la storia di un luogo o di una persona. Invece adesso ce ne stiamo qui, pendenti dalle notizie, ad aspettare che qualcuno ci dica come vivere, cosa fare, come muoverci e quali valori distruggere per creare altre sovrastrutture impersonali, ripetute a pappagallo senza coscienza, consapevolezza. Viene lasciato spazio solo alla paura, in questo modo.”

L’artista, ancora una volta, si pone il problema dell’esistenza e lo mette al centro della sua riflessione artistica: comprendere di essere quello che si è in questo momento solo grazie a ciò che si è stati in passato. Il contatto intimo che Paolo Cervi Kervischer ha con l’antichità, le origini del mondo come parte di un intero e non di un frammento, lo rende immune dall’autocensura su cosa dire e come vivere. È una condizione “storica-verticale” da mantenere, ovvero la ricerca della via e del senso della nostra esistenza, dentro la vita dei nostri antenati, per Paolo i pittori come Gauguin, Mondrian, Van Gogh, Picasso, Michelangelo. È percorrendo all’indietro che si accetta la propria permanenza, e si vince il concetto di morte fisica: “Chi scrive, dipinge o suona ricerca se stesso nei suoi simili ormai morti. Io sento che sto imparando da tutta la vita e non mi sazio mai, perché ho capito che morire è impossibile se hai compreso il senso della permanenza. Se ne va solo il corpo. L’unica malinconia che provo all’idea di morire è quella di non poter dipingere ancora un quadro, o suonare il sassofono con Diego, o parlare con te. Vivere ancora e ancora il piacere della scoperta nella mia vita, per me è estasi.”

Ecco che da questa riflessione di ampio spessore, l’artista crea delle Erme, un tempo utilizzate come strutture simboliche per ricordare il passaggio di grandi uomini che avevano portato conoscenza nel mondo, ma lo fa all’incontrario: invece di raccogliere la virtù di un personaggio, ne fossilizza la viltà attraverso stracci di tele sporche e ne crea delle strutture mute, cieche, silenti; delle icone tra l’umano e il pagliaccesco. L’emblema dell’alienazione è dentro le nuove Erme di Cervi Kervischer, in un tributo tragicomico ai vertici che guidano il mondo, alle bocche che parlano senza un linguaggio condiviso e condivisibile, pensato proprio per silenziare la conoscenza, la bellezza e la cultura. Sono i grandi all’incontrario, esseri informi e lacerati come simbolo di ciò che resta dell’umanità.

In ogni Erme che si osserva, c’è ancora un significato individuale da trovare che lo stesso artista non vuole imporre per lasciare libera interpretazione all’occhio di chi le osserva, motivo per cui le Erme del disonore e della viltà non avranno una “targhetta” di riconoscimento del valore, proprio perché valore non c’è: sono afone, senza suono che possa arrivare al cuore degli uomini a differenza delle Erme antiche che raccontavano il ricordo di un messaggio trasmesso e per questo diventato permanente attraverso una scultura simbolica.

Le Erme di Paolo Cervi Kervischer sono l’orrore del nostro presente raccontate attraverso un linguaggio fatto di lacerti che identificano queste parvenze di umanità per mezzo delle quali l’artista sente il dovere estetico ed etico di creare e consegnare al mondo un’altra visione come impegno antico che l’arte ha sempre portato con sé.

 

Francesca Schillaci

Articolo pubblicato anche sul quotidiano Trieste.news

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