Se in precedenza si è illustrato sinteticamente lo sviluppo artistico locale tramite le opere di pittura, grafica e scultura collocate lungo il percorso espositivo allestito presso il Magazzino delle Idee è necessario precisare che una comprensione definitiva, nei suoi aspetti essenziali, degli sviluppi artistici contemporanei giuliani (e triestini in particolare) si ottiene tenendo conto anche di ciò che avviene, nel periodo compreso tra il 1918 e il 1945 (e gli anni immediatamente successivi), negli ambiti dell’architettura, della scultura monumentale e dell’arredo (come si vedrà nel caso del Castello di Miramare – ove, il 3 dicembre, è stata inaugurata una sezione separata della mostra “Il mondo è là. Arte moderna a Trieste. 1910-1941”, dedicata all’appartamento ducale). E proprio la città di Trieste è un esempio compiuto di ciò che avvenne in quegli anni, con soluzioni che si rifanno, anche solo parzialmente, alle altre esperienze italiane.
Quale punto di partenza per comprendere l’evoluzione dell’architettura triestina, in un’ottica nazionale italiana, va considerata la costruzione del Faro della Vittoria presso il colle di Gretta (sul sito dove sorgeva il Forte Kressigh). Dopo l’ingresso dell’esercito italiano in città il 3 novembre 1918, la necessità di avviare una campagna di italianizzazione del complesso contesto socio-culturale e antropologico locale si fece sempre più forte (e divenne, successivamente, un cardine della propaganda fascista in quella che era considerata la “Roma d’Oriente”). Tra le prime necessità, vi era la costruzione di un faro commemorativo della conquista italiana della città e delle terre irredente e monumento ai marinai caduti in guerra. Al termine del conflitto, l’architetto triestino Arduino Berlam fu incaricato del progetto (giugno 1919): egli concepì il faro come una torre ornata da due gruppi bronzei di Giovanni Mayer, uno monumentale posizionato sulla terrazza e la Vittoria alata in cima al monumento. Nonostante la volontà di eseguire in tempi brevi i lavori, nel giugno 1922 subentrò ai lavori l’architetto Guido Cirilli, che impose alcune modifiche (come la trasformazione della torre in una colonna, quale omaggio all’antica architettura romana); i lavori concreti iniziarono, sotto l’impulso del regime, nel gennaio 1923 per terminare entro il 24 maggio 1927, giorno dell’inaugurazione. Anche Mayer adattò il suo stile verista alle nuove esigenze stilistiche architettoniche, adottando un linguaggio sobrio ed essenziale vicino ai dettami del gruppo Novecento; modificò anche il progetto del gruppo della terrazza, limitato alla figura in pietra di un marinaio posto sopra un’ancora (ritenuta, al tempo, quella del caccia torpediniere Audace).
Quasi coevo fu l’inizio dei lavori per la sistemazione delle facciate del Palazzo di Giustizia i quali, iniziati nel 1919, terminarono nel 1934. Edificato per volere degli austriaci intorno al 1908 dall’ingegnere tedesco Spinnler, secondo un gusto ispirato all’architettura austriaca settecentesca, il palazzo fu soggetto di un concorso per sistemare le facciate secondo un gusto più consono al nuovo linguaggio nazionale italiano. Enrico Nordio, vincitore del concorso, elaborò così un progetto ispirato all’architettura cinquecentesca di Michele Sanmicheli e Andrea Palladio; i lavori continuarono, dopo la morte dell’architetto nel 1923, sotto la supervisione di suo figlio Umberto che, di fatto, portò a termine l’impresa con la collocazione (entro il 1934) delle statue monumentali poste in facciata dei Giuristi romani, opera degli scultori Marcello Mascherini e Franco Asco, caratterizzate da un robusto ed essenziale linguaggio classicista.
La sistemazione del Palazzo di Giustizia fu il cardine di una più articolata impresa urbanistica, quale la sistemazione della piazza a esedra intitolata a Guglielmo Oberdan. I primi progetti risalgono infatti al 1924-1925 e sono opera di due friulani, Piero Zanini e Cesare Scoccimarro; ma i primi interventi concreti furono la costruzione del Palazzo dell’I.N.A. di Ugo Giovannozzi (1926-1930) e del Palazzo della Telva (1929-1931). Questi interventi si caratterizzarono per l’adozione di canoni estetici ispirati alla grande tradizione architettonica rinascimentale e manierista italiana, quale mezzo per concretizzare l’italianizzazione della redenta Trieste (e tale sarà la prassi, sino agli inizi degli anni Trenta). Ma la costruzione della Casa del combattente, attuale sede del Civico Museo del Risorgimento, ad opera di Umberto Nordio (1929-1934) segnò una svolta decisiva, con l’adozione di un linguaggio essenziale e moderno che rifiuta l’adozione dei linguaggi precedenti a favore di una nuova e personale rimeditazione della tradizione architettonica italiana (volta sia alla tradizione medievale – nel tema della torre – che a una revisione critica del passato più recente e delle esperienze contemporanee nazionali – come le opere milanesi di Giovanni Muzio). Al Nordio figlio si deve anche la collocazione del Monumento a Guglielmo Oberdan di Attilio Selva presso la sua Casa del combattente: inizialmente pensato per una collocazione al centro dell’omonima piazza, ci si rese presto conto che esso avrebbe creato una rottura nell’armonia prospettica della visione del Palazzo di Giustizia dalla piazza, e quindi ne stabilì la definitiva collocazione (1930) in un’apposita nicchia che, però, sacrifica il gruppo monumentale a una visione frontale. Il nuovo corso di sviluppo della piazza fu continuato dall’architetto romano Mario De Renzi (1934), che criticò il linguaggio precedentemente usato, mentre Nordio fu protagonista di notevoli interventi nel quartiere: il Palazzo della RAS (1934-1936) e il Palazzo ex Opera nazionale balilla (1934-1938, ove collaborò con Raffaello Battigelli).
Notevoli furono anche gli interventi architettonico-urbanistici concretatisi sulle Rive. Iniziato nel 1926 e completato entro il 28 ottobre 1930, l’edificio della Stazione marittima, opera di Nordio e decorato dalle sculture del timpano di Franco Asco (ispirate alla statuaria templare antica e all’opera di Ivan Meštrović), fu il primo intervento moderno nella zona. Seguirono la costruzione dell’Idroscalo, opera di Riccardo Pollock (1931-1933), ove intervenì nuovamente Franco Asco con la realizzazione di due geni alati sulla facciata principale rivolta verso il Canal Grande; la creazione dei Pili portabandiera di Piazza dell’Unità d’Italia, opera di Attilio Selva (1932), decorati con le allegorie di Trieste e dell’Italia, figure ideali di militari e sormontati dall’alabarda cittadina; la costruzione della Casa fascista del lavoratore di Giuseppe Zaccaria (1938-1942) e la Sede centrale dei Cantieri riuniti dell’Adriatico di Bruno Olivotto (1938-1940).
Anche la zona del colle di San Giusto e l’area di Città vecchia fu teatro di importanti interventi. Il primo, in ordine di tempo, fu il Mosaico a decorazione del nuovo abside della cattedrale di San Giusto: dopo il concorso indetto nel 1926, tra il 1930 e il 1933 il pittore veneziano Guido Cadorin eseguì la nuova decorazione (dato che l’antico abside fu abbattuto, a fine Ottocento, dagli austriaci – motivo sfruttato a fini propagandistici dalle autorità italiane) con la tematica religiosa (i Santi della tradizione adriatica e l’Incoronazione della Vergine) declinata in chiave nazionalistica (con l’inaugurazione avvenuta il 3 novembre 1933, in memoria della liberazione italiana della città). Ma l’intervento più palese, sotto il profilo non solo monumentale ma anche urbanistico, fu l’erezione del Monumento ai caduti sul colle di San Giusto (inaugurato il 1 settembre 1935): opera che vide la collaborazione di Attilio Selva per il gruppo bronzeo (ispirato alla scultura di Auguste Rodin e all’opera di Michelangelo), il monumentale basamento del toscano Enrico Del Debbio, e la progettazione urbanistica di tutta l’area del colle antistante il Castello e la Cattedrale ad opera dell’ingegnere Vittorio Privileggi (che integrò così il moderno con le antichità romane – emerse in parte grazie agli scavi svolti da Pietro Sticotti per conto del Comune – e le vestigia medievali). Nell’area di Città vecchia, furono considerevoli gli interventi architettonici e decorativi: il Palazzo delle Assicurazioni Generali edificato dal romano Marcello Piacentini (1935-1939) vide alcuni dei più significativi interventi decorativi di Carlo Sbisà (1937; 1939) che miravano, come i precedenti lavori presso la Casa del combattente (1934-1935), a esaltare i valori dell’italianità (e, più o meno direttamente, del regime); la Casa alta di Umberto Nordio (1935-1937); il Banco di Napoli (1935-1938); la Casa del fascio di Raffaello Battigelli e Ferruccio Spangaro (1937-1942), divenuta sede della Questura.
Ultimo grande intervento architettonico e urbanistico che ha luogo nel periodo preso in considerazione è il cantiere per la nuova sede (attuale edificio centrale) dell’Università di Trieste. Inaugurato da Mussolini il 19 settembre 1938 (il giorno dopo la promulgazione, a Trieste, delle aberranti leggi razziali), quale simbolo dell’ ”attenzione” del regime verso l’istruzione e momento di propaganda per tranquillizzare la cittadinanza (che temeva ripercussioni dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich), il complesso universitario progettato da Nordio e dal toscano Raffaello Fagnoni si ispirava al Tempio capitolino scoperto a San Giusto e definiva, con la sua mole volutamente possente, una nuova definizione urbanistica dell’area. Il messaggio propagandistico era rafforzato, a sua volta, dagli interventi decorativi interni ed esterni alla fabbrica che si protrassero sino al 1956-1958: i Mosaici dell’atrio destro, con tematiche desunte dalla locale storia romana, e i dodici Bassorilievi, posti attualmente nei balconcini tra le volte affacciate sul medesimo atrio e raffiguranti temi legati al Fascismo, opere del muggesano Ugo Carà; i due grandi bassorilievi esterni opera del toscano Mario Moschi con tema i due volti del Fascismo (l’Allegoria del Fascismo e della lotta alle sanzioni sull’avancorpo destro – posto in opera entro marzo 1943 – e la ribattezzata Glorificazione del lavoro e della cultura per l’avancorpo sinistro portato a termine entro il 1958 – espressione del nuovo linguaggio repubblicano democratico).
In conclusione di questo articolo, va menzionato un particolare intervento svolto, nel corso degli anni Trenta, dalla locale Soprintendenza che agì, con un doppio ruolo, presso gli spazi del Castello di Miramare. Dopo che il 4 ottobre 1928, col Regio Decreto n. 2540, si costituì un Consorzio tra Stato, Provincia e Comune per provvedere alle migliorie della residenza voluta da Massimiliano d’Asburgo (in previsione dell’apertura al pubblico come museo), nel corso del maggio 1929 ebbero luogo gli interventi di ricollocazione dei mobili, delle decorazioni e degli arredi portati via dagli austriaci allo scoppio della guerra e restituiti allo Stato italiano allo scopo di aprire al pubblico l’augusta dimora, dopo i dovuti restauri conservativi; tale pregevole lavoro fu svolto dall’allora soprintendente Ferdinando Forlati e dall’architetto Alberto Riccoboni, e terminò nel corso dell’estate del 1930. Al tempo stesso, però, il duca Amedeo di Savoia Aosta fu posto al comando del 23° Reggimento Artiglieria, e gli fu concesso quale alloggio per sé, la famiglia e i propri servitori, un appartamento ricavato dagli ambienti di servizio del primo piano del Castello; in tale impresa di conversione degli spazi interni al maniero, Forlati e Riccoboni (sotto la partecipe supervisione della coppia ducale) furono chiamati al compito (unico nel suo genere) di creare uno spazio moderno e vivibile nel complesso contesto architettonico e decorativo del nuovo museo. Il risultato, in generale, fu il riuscito tentativo di coniugare la sfarzosa magnificenza degli arredi storici ottocenteschi con la sobria e funzionale sontuosità degli appartamenti moderni destinati ai duchi; l’intervento di arredo e decoro generò, tra l’altro, l’interesse di due riviste specializzate, “Domus” e “La Casa Bella”, che pubblicarono due articoli corredati da foto dei nuovi appartamenti (1931). Tale impresa segnò uno degli apici della storia dell’arredo e del design nazionali, sia per la complessa operazione cui furono chiamati gli architetti, gli arredatori e l’istituzione competente degli spazi, la Soprintendenza di Trieste (istituzione volta alla tutela e conservazione dei beni artistici e culturali, qui chiamata a studiare un progetto di decorazione d’interni nuovo in un contesto storico e artistico già definito) che per la qualità del risultato raggiunto dall’artigianato nazionale (e locale in primo luogo – si ricordi innanzitutto la ditta di Francesco Zanetti) nell’uso di materiali pregiati (sia tradizionali che innovativi) e nell’adozione di un linguaggio moderno e nazionale, al tempo stesso sontuoso ed essenziale (che ben si integra, per complementarietà e contrasto, con gli storici arredi di rappresentanza del piano nobile del Castello di Massimiliano).
Dopo il breve esame, offerto in questo e nel precedente articolo, del complesso contesto dell’arte contemporanea a Trieste e nella Venezia Giulia, è evidente che questo territorio offre un panorama ricco e variegato, determinato dal complesso contesto territoriale e umano in cui è nato, si è sviluppato ed è conservato, ancora poco noto ma che tuttavia non ha niente da invidiare ad altri contesti (sia nazionali che internazionali). Ed è merito di iniziative come quella promossa attualmente dalla Provincia (di cui si parla in questa sede), e molte altre, che hanno visto la partecipazione degli enti pubblici territoriali, lo Stato (e i suoi organi periferici, quali le Soprintendenze e gli istituti museali vicini – come nel caso del Castello di Miramare) ed enti e istituzioni private locali e non, che la nostra cultura (non solo artistica) trova finalmente spazio nel vasto scenario dell’era globale.
Marco Rago ©centoParole Magazine – riproduzione riservata
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