La rosa di Brod

La rosa di Brod, di Roberto Piumini, è un romanzo del 1995, fuori catalogo, che ora si può trovare solo in qualche biblioteca. Il destino di una fiaba misteriosa, delicata e oscena insieme. È la storia della comparsa, degli effetti e dell’esorcismo di una rosa che ha avvolto nella sua aura un intero pudico villaggio lungo la ferrovia. Su di essa il poeta procede, per poi tornare al suo pubblico preferito, più disarmato e sincero, più preparato a sentir parlare del “belzebabbione boccabuia figlio unico del buio lampreda in succo di disperazione, funzionario del nulla, culo dell’essere”.

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Ma questo libro non è dedicato al diavolo, dichiara esplicitamente l’autore. “Questa storia tiene conto di te ma senza omaggio. Qualunque buona parte non ti compete. Qualunque tu sia, cane d’odio, l’odio che ti innamora non fa per me”.

Il movimento portante del racconto è il suo incipit: “Lo prese quell’arco di colline”. L’essere presi: dall’incanto della rosa, dal gioco del distacco di una morte silenziosa, essere presi, posseduti, dal proprio inconscio desiderio d’amore. Affinché questa distrazione dal consueto dirigersi della coscienza possa accadere, essenziale è il non-luogo atteso, in cui i personaggi fioriscono: il foglio, la chiesa, la lettera, il fiume.

Questa fiaba per adulti si apre quindi in treno, con uno scrittore, Gasvar, intento a scrutare il paesaggio al di là del finestrino, alla ricerca d’ispirazione, finché appunto il suo sguardo si allarga su una valle incantevole e dimenticata, la fermata inutile dove nessun passeggero scende. Il giro di colli che “lo prese” è lì dove niente di nuovo succede e tutto si rovescia, dove il treno rallenta e lo scrittore, nel fremito di un pensiero che non attarda le cose, “perché il pensiero è meno dell’istante”, si alza, decide, sfila la valigia dall’alto, e mette il suo corpo giù dal viaggio, si ferma.

“Niente d’insolito fra le colline di Mumjanish”, racconterà nella sua storia ancora da scrivere, tra nomi, sembra, di fantasia, niente d’insolito a Pakry, e poi a Mougenje, a Detiu, “niente d’insolito sotto le vesti nere di Prete Lavj”. Niente d’insolito, ripeterà, a scandire capitoli dominati da mostruose scoperte, ammassi di carne, aborti toccati.

Gasvar esplora le poche vie, trova una camera chiara: l’unica sistemazione disponibile, per dormire, presso una vedova. Qui una scrivania di legno scuro di fronte a una porta-finestra lo pacifica: scriverà guardando il frutteto, e poi la campagna, verso Occidente, scriverà mentre tramonta, in “un silenzio decentemente ornato di suoni vivi, perfetto”, nell’odore delle rose. Toglie dalla valigia, per ultime, cinque lettere: sono di Milena, la moglie. Cinque lettere per cinque settimane, durata di gestazione ormai ben conosciuta, cinque settimane che verranno irrorate dal rito d’amore da lei escogitato, attraverso il quale si prenderà gioco di lui: il racconto della loro storia – una rievocazione ora emozionata, ora ridicola, intima, poi erotica e struggente – scritto tutto d’un fiato ma da leggere a puntate, alla fine di ogni settimana, per accompagnarlo senza invaderne la sacra solitudine, necessaria al distacco della scrittura, al ri(n)tracciamento del non-luogo che lo abita in segreto.

Pantheon

Da questo prologo in poi il racconto dello scrittore e il racconto del suo amore si mescolano, la prima persona smette di pronunciarsi fino al finale, dove il racconto verrà bruciato dallo scrittore, e dove lo scrittore e le sue ceneri verranno ricompresi, nuovamente, nuovamente al rovescio, nel patto tra il poeta – Piumini – e il lettore:  “Tu e io, fraterno lettore, abbiamo visto la rosa, sentito quel profumo. Perché a te e a me, amato, è concesso il dono solitario”. Quel che leggiamo è quindi la storia negata della rosa di Brod, ma prima ancora di una rosa di cui già conosciamo il profumo, di cui già abbiamo colto il dono d’odore, di lettura e riscrittura.

È la splendida fine di un maggio generoso: il roseto, centro atmosferico del giardino della chiesa, è ricolmo di centinaia di rose bianche e gialle, di cui l’anziano Prete Brod, non più parroco da tre anni, ormai sostituito dal giovane Lavj, ha il tempo di prendersi cura, strappando le male erbe dal terreno, come è abituato a strapparle dall’animo dei fedeli attraverso la parola. Il giardino è l’eredità di un grande botanico, autore di trattati di floricultura rosacea, che per pudore cromatico o per mania selettiva ne scelse le caute tinte anni or sono.

Fino a che, nel bel mezzo del miraggio asprodolce in cui niente d’insolito può capitare, spunta una rosa rossa, rossa come solo una rosa può essere. Brod ne intuisce le sfumature sanguigne, quasi al nero, con la mente prima che con gli occhi, lo prende l’angoscia, la paura. Attraversando i suoi nervi quel fiore solitario, prepotente, diverso, si fa emblema di oscenità, di blasfemia. Schiusa da poco e dal nulla, rapidissima e promettente, sta la Rubra Noviani, la “Rosa del demonio”, così ribattezzata da un frate eretico condannato nel Seicento, presagio di sventura;  “La rosa rossa era diversa: non solo perché rossa, ma perché nuova”.

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Giocando coi nomi Piumini stringe così un legame tra il rossore, il diavolo, la novità, la solitudine. La riservata, silenziosissima protagonista del romanzo, Marjali, è infatti una giovane donna sempre più innamorata di Cristo, ma non di Dio Padre né del Santissimo Spirito, moderna mistica che si spazzola i capelli sette colpi alla volta per prepararsi all’appuntamento sui banchi della chiesa, che inginocchiata non prega ma si intrattiene in più coinvolgenti attività solitarie, vermiglia e immobile, tranne per qualche risata di piacere, fissando il crocefisso ben oltre l’altare.

Progressivamente la Rubra Noviani, simbolo di una fiabesca apocalisse, crescendo in forma e odore strega l’intera vallata, sovvertendone il corso: piogge di sabbia, specchi dalle mille brame frantumati col pestello, colpevoli mestrui nel fiume, pianto sovrabbondante, catene disseminate da un epilettico, come grossi serpenti. Due sorelle zitelle, Nastia e Magdal, i cui giochi di parole sempre più inquietanti, intercalati da bisbigliati ricordi dei mariti inesistenti, trasformano a poco a poco la loro casa nella dimora immonda dei loro rimorsi, delle loro lordure. Il giovane Lavj, sorpreso dai frullii pelosi nella sua tasca destra, che non riconosce come suoi e si ostina a imputare a qualche animaletto nascosto, pieno di ribrezzo.

E poi un amplesso traditore, un vitello mostruoso, il sonno perpetuo: personaggi lunghi anche solo poche facciate, ma le cui opere del corpo, accolte con grato godimento o incredulo disgusto, sempre con profondo turbamento, contribuiscono a creare la leggenda della rosa di Brod.

 

Roberto Piumini, La rosa di Brod, Einaudi 1995.

Roberto Piumini è nato a Edolo nel 1947. Vive a Milano e in Toscana. Ha fatto l’insegnante, il conduttore espressivo, l’attore. Dal 1978 ha scritto, per ragazzi e adulti, filastrocche, poesie, poemi, fiabe, racconti, romanzi, testi di canzoni e teatro, traduzioni e soggetti di cartoni animati e film. È stato autore de “L’albero azzurro”. Propone spettacoli di racconto, poesia e musica per piccoli e adulti. Molti suoi libri sono tradotti all’estero.

 

Doriana Licusati © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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