La morte della farfalla: Zelda e Francis Scott Fitzgerald

Così continuiamo a battere l’acqua, barche contro corrente, risospinte senza posa nel passato

Le ultime parole del Grande Gatsby sono state incise sulla tomba di Zelda e del marito Fitzgerald, probabilmente sotto volere della figlia Scottie, desiderando soltanto che queste due farfalle restassero insieme, come sempre avevano fatto nella loro breve, intensa vita.
Tutti conosciamo o abbiamo sentito parlare di Zelda e Scott, come li chiamavano gli amici, ma in pochi si sono addentrati veramente nella tragica esistenza che conducevano, nascosta da perverse e futili apparenze. Pietro Citati con “La morte della farfalla”, opera di critica letteraria pubblicata nel 2016, casa editrice Adelphi, ha osato scavare oltre quei veli di apparenza, per scovarne grida e graffi decorati a festa.
Con la pubblicazione di Di qua dal Paradiso il 3 aprile del 1920, Francis Scott Fitzgerald si conquistò il podio di scrittore più famoso del momento, guadagnando una fortuna che avrebbe permesso a lui e a Zelda, da poco diventata sua moglie dopo infinite rincorse e suppliche da parte di Fitzgerald, di vivere al massimo di ogni eccesso, tra fiumi di gin, whisky, feste, hotel di lusso e una schiera innumerevole di “amici”.

Erano gli anni Venti, i cosiddetti anni ruggenti, dove il jazz era il sottofondo assordante di un’epoca in esplosione in tutto l’Occidente. Le donne, in America, avevano ottenuto il diritto al voto, la moda iniziava a cambiare velocemente, dove gli abiti sontuosi venivano sostituiti da vestiti femminili che lasciavano spazio alle gambe e alle braccia, scarpe alla Mary Jane, il look richiesto prevedeva donne magrissime, dai corpi delicati e longilinei, con un taglio di capelli alla “maschietta”, chi con un po’ di frangia, chi con la piega ondulata. Proprio in quegli anni viene scoperta la tomba di Tutankhamon, motivo di studio e di proposta di una moda esotica. Le donne fumavano, bevevano e soprattutto ballavano. Tutta la notte.

I Fitzgerald erano la sintesi eccellente che rappresentava come un quadro questa epoca. Eleganti, brillanti, eccentrici e inseparabili. Scott era generoso, affabile e incastrato dentro le sue smanie di protagonismo e paranoie di insicurezza a cui dava sfogo soltanto sotto effetto dell’alcol, o lo traduceva nella sua metodica e perfetta scrittura. Ma più di ogni altra cosa, era innamorato follemente di Zelda, al punto che avrebbe commesso qualunque gesto pur di non perderla. Zelda, dal canto suo, era da sempre la ragazza più corteggiata di Montgomery, la sua città di origine, ma era anche la più chiacchierata e spesso isolata per il suo carattere indomabile e il suo atteggiamento di insaziabile spontaneità, sporcata spesso da un pungente sarcasmo che non mancava di ferire chi le stava accanto.

Dedita al marito e al suo lavoro di scrittore, Zelda si faceva spesso da parte per lasciargli lo spazio che richiedeva e che si traduceva anche in mesi. Scott si chiudeva nel suo studio e passava giorni e giorni senza neanche uscire a mangiare, accompagnato solo dalle bottiglie di gin e assorto nella stesura di quello che poi sarebbe diventato il più grande romanzo dell’età del jazz: il Grande Gatsby. Ma il suo animo inquieto e capriccioso non era fatto per sopportare la noia, e Fitzgerald lo sapeva e quindi la ricopriva di gioielli, vestiti, piume, e tutto il superfluo che potesse risultare brillante e intransigente, ma che potesse sostituire temporaneamente la sua presenza e nutrire così l’immenso bisogno di amore che provava Zelda.

“La vita aveva un’ilarità vasta e gloriosa. Tutto sembrava possibile: tutto era uno spettacolo di bolle di sapone dove recitavano maschere e spettri; le cose sembravano piegarsi a qualsiasi desiderio. Il tempo non era mai stato così veloce” (pag. 23) “Zelda e Fitzgerald non sapevano se erano reali o personaggi di un romanzo: così facevano il bagno vestiti nelle fontane, viaggiavano sul tetto dei taxi, si spogliavano durante le rappresentazioni teatrali, o si picchiavano con i poliziotti. Non stavano mai soli. All’albergo, a casa e dovunque c’era sempre troppa gente: Zelda e Scott credevano che fossero vere persone, mentre erano soltanto la proiezione dei demoni che portavano dentro di sé.” (pag. 23)

I guadagni di Fitzgerald continuavano a crescere ogni anno di più, così come la sua incapacità di saperli gestire e investire. Allora li regalava, li condivideva in eccesso con tutte le persone che aveva sempre attorno, poiché sentiva che per lui non c’era altra cosa più autentica dell’amicizia, fonte inesauribile di ispirazione per lui, insieme a Zelda.
Ma Zelda non gli bastava sempre. Nelle sue notti insonni, quando capì che non sarebbe mai più stato così felice come in quei primi anni Venti, aveva bisogno degli altri, delle persone, fossero anche solo dei passanti, per specchiarsi in loro e trovare disperatamente uno scintillio di conferma che anche gli altri provavano la stessa profanazione che sentiva lui nella consapevolezza che quell’estasi si sarebbe tramutata di lì a poco in un abisso.

New York, Francia, Italia, di nuovo Parigi, i Fitzgerald non restavano mai in una dimora fissa, spendendo moltissimi soldi in grandi ville in affitto, con domestiche e bambinaie. Nella loro costante instabilità di movimento, si rivelò anche il primo segnale di instabilità di Zelda: nel 1924 fece il suo primo tentativo di suicidio. Nello stesso anno, Fitzgerald pubblicò il Grande Gatsby. Iniziarono i loro furiosi litigi, di solito sempre postumi di una bevuta di giorni, seguita da tentativi di tradimenti che facevano bruciare di gelosia Zelda e Scott, a sua volta, vedeva minacce di pretendenti sulla sua amata. “Così, litigio dopo litigio, bicchiere dopo bicchiere, spreco dopo spreco, Zelda e Fitzgerald persero la pace e la salute: abusarono del proprio amore, lo ferirono, lo lacerarono, lo fecero a brandelli, ancor prima di venir travolti dalla follia. Non ne capirono la ragione: nemmeno Fitzgerald che rappresentava questa perdita nei libri, perchè i suoi libri compresero ciò che lui non comprese mai.” (pag.25-26)

Per emanciparsi dal marito, dai litigi, dalle offese, dalla castrante solitudine e dal lavoro di Fitzgerald, Zelda si innamorò della danza. Anzi, ne fu travolta. Per sopperire a tutte le assenze e a tutti i capricci, per voler essere indipendente economicamente, ma soprattutto per desiderare di avere qualcosa che fosse tutto suo e non condiviso per forza con Scott, anche nel ballo non seppe trovare una misura per dosare la sua smania, se ne ubriacò fino a diventarne dipendente. Ballava tutto il giorno dentro tutù e scarpette di danza e la sera si legava gli alluci ai piedi del letto per allungare le punte. Voleva danzare a tutti i costi, nonostante la sua insegnante le avesse fatto notare che all’età di ventisette anni è tardi per diventare una ballerina classica professionista. Ma Zelda non mollò. Giorno e notte si allenava davanti allo specchio e attaccata alla sbarra, ripetendo incessantemente gli stessi movimenti, per perfezionarli. Dietro ogni gesto, ogni sfioro, ogni tentativo di diventare cigno, si svelò la sua schizofrenia, tenuta in sordina fino a quel momento. E ogni movimento rasentava il grottesco, invece del sublime. La danza era la tortura che si era inflitta, come il gin e il whisky lo erano per Fitzgerald.

Di lì a poco, Zelda venne internata in uno dei primi centri psichiatrici, dove Fitzgerald si preoccupò di farle avere i migliori medici e le migliori cure.
Quando Fitzgerald si ritrovò senza Zelda, però, iniziò a farsi largo un altro grande tema che ricopre i suoi romanzi e che ha definitivamente distrutto la sua esistenza: il senso di colpa. Scott si sentiva colpevole per tutto. Ogni gesto e ogni conseguenza successe a Zelda erano colpa sua. Così come, a momenti alterni, tutta la sua frustrazione di fronte al foglio bianco e l’alcolismo estremamente avanzato, erano tutte colpe di Zelda che lui subiva. Nessuno lo indusse all’alcol, così come nessuno lo privò mai dei suoi silenzi da scrittore, ma non era più una questione di chi fosse la colpa, quanto di come qualunque gesto si tramutasse in errore, perché entrambi non riuscivano più a scorgere “la luce verde”, la vita era finita da un pezzo e loro non lo potevano accettare. Allora si scrivevano lettere, splendide lettere piene di amore e rispetto. Nel loro tormento, l’amore aveva sempre una doppia faccia: concedeva il massimo dello stupore e della bellezza e allo stesso tempo puniva e castigava con la follia.

Solo a Zelda fu diagnosticata la malattia per schizofrenia, ma in molti lettori e studiosi accaniti del grande Fitzgerald, sanno, o meglio, sentono che la follia era un concetto che toccava entrambi, al punto tale che probabilmente fu uno dei principali collanti che li tenne uniti per sempre.
Fitzgerald aveva temuto Zelda per tutta la vita: rubava dai suoi diari pezzi per introdurli nei suoi romanzi, se lei cercava di emergere in qualcosa che le veniva spontaneo e non le richiedeva la fatica che invece egli sentiva necessaria nel suo lavoro, allora lui la doveva sconfortare e persuadere a lasciar perdere. Avvenne con la stesura del primo romanzo di Zelda: non fu mai accettato dal marito, perché sapeva che lo avrebbe potuto mettere in ombra e fargli perdere, di conseguenza, l’unica cosa per cui ancora non era morto precocemente: la sua scrittura. Dall’altra parte, Zelda non fece sconti a nessuno, neanche a suo marito, quando si trattava di essere onesti. Questo non piacque mai abbastanza alla gente e quando lei disse che “aveva creduto di essere una Salamandra e di vivere, indenne nel fuoco, passando attraverso le fiamme, trasformandosi e rinnovandosi e acquistando una nuova pelle luminosa” (pag. 47) mentre era chiusa nella villa Englantine ed era sorvegliata ogni secondo, lei stessa forse non sapeva che aveva appena tratto la premonizione della sua morte.

Morirono separati e lontani con i corpi, ma non si abbandonarono mai scrivendosi lunghissime lettere e aggrappandosi ai ricordi. Ma se è vero che anche la morte ha i suoi astuti metodi per scovare i suoi relitti, allora Zelda e Scott si rivelarono inseparabili e splendenti come due farfalle che brillano di vita svelta, ma muoiono male, qualcuna tragicamente nei modi più inesplorati. Il 21 dicembre 1940 Francis Scott Fitzgerald morì di infarto davanti al camino della sua casa, mentre annotava degli appunti su un giornale.
Zelda Sayre Fitzgerald morì otto anni dopo, il 9 maro del 1948 bruciata viva dalle fiamme di un incendio che distrusse il manicomio in cui era internata: “Non c’erano sistemi di allarme, né impianti per estinguere le fiamme: le uscite di sicurezza presero fuoco; le porte erano chiuse a chiave, le finestre sbarrate dalle catene. Morirono nove donne: tra le quali Zelda, arsa per sempre dal suo fuoco.” (pag.85)

Il 17 marzo dello stesso anno, Zelda venne sepolta accanto a Scott, nel cimitero di Rockville.

Francesca Schillaci

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