La lieta Battaglia che accolse i “folli” oltre i suoi scatti fotografici

Pensiamo a Dorothea Lange e vediamo la sua Madre migrante; pensiamo a Tina Modotti e vediamo la dignità nello sguardo della gente che lavora; pensiamo a Diane Arbus e vediamo i suoi “freaks”; pensiamo a Letizia Battaglia (1935-2022) e vediamo le infinite contraddizioni di un’isola – la Sicilia – incoronata dall’Olympus di Battaglia a vero teatro insanguinato dell’Italia degli anni di piombo.
Letizia era una fotogiornalista. L’unica fotoreporter donna nel giornale L’ora per il quale aveva iniziato a lavorare, dopo essersi formata da autodidatta. Erano stati infatti la sua inquietudine verso il proprio contesto culturale, la rabbia verso la borghesia cui apparteneva, e la sensibilità verso un futuro che inevitabilmente stava per arrivare, gli elementi che la spinsero a puntare e fare fuoco contro quella valanga di sabbia nera e sottile che, come una cupola, opprime ancora oggi l’isola intera.

Con la fotocamera, Letizia si inventava un pretesto per stare al mondo, il mondo che – parafrasando una sua celebre frase – lei si sarebbe presa, ovunque esso si nascondesse. Forse era proprio l’ansia di catturare in uno scatto un mondo che sarebbe scomparso di lì a poco, la Milano delle proteste sessantottine o la Palermo dopo i disordini dei Settantasette, che la indusse ad abbandonare tutto: l’agiatezza, la stabilità di un matrimonio convenzionale e la sensazione di sicurezza data dall’idea di non poter agire su quanto la circondasse. Sarà stato forse l’odore acre del sangue per le strade a mettere in luce il lato combattente di questa donna straordinaria: artista e militante, politica e osservatrice, curiosa e determinata, in altre parole, non certo una che se ne sta lì a godersi il posto all’ombra che la storia sembrava averle riservato.

Letizia tuttavia non si occupò esclusivamente di mafia e proteste. Affrontò anche un altro tema, meno scomodo ma ugualmente drammatico, ovvero quello dei diritti delle persone affette da disturbi psichici. Non dimentichiamoci che Letizia iniziò la sua carriera negli anni ‘70, anni di profondo cambiamento sul piano sociale. Il ‘78 vide sorgere un’epoca nuova per tutti i “folli” internati negli ospedali psichiatrici; fu infatti promulgata la Legge Basaglia, che avrebbe chiuso definitivamente i manicomi per far sì che i pazienti si integrassero al meglio nella società e non fossero più visti come dei fardelli, come una vergogna da nascondere al mondo. I folli non sarebbero più entrati in manicomio per essere trasformati in malati.

Battaglia, da brava Nelly Bly italiana del ventesimo secolo, andò personalmente in manicomio, a indagare sulla realtà vissuta dai pazienti, ma non in veste professionale. Al contrario. Sebbene scattò mille fotografie di quelle persone, non ne pubblicò più di una trentina. Si può dire in realtà che Battaglia volle immergersi nelle acque più torbide della mente umana, scoprire cosa vi si nascondesse, forse per capire perché quelle persone (forse più miti e ragionevoli di lei) stavano oltre un muro, mentre lei era confinata al lato opposto. Eppure non si trattò di un semplice interesse. Un semplice interesse non ti spinge a recarti per quattro anni consecutivi, a consumare ogni attimo della tua pausa pranzo in un manicomio dove i pazienti diffidano di te. E un semplice interesse non ti spinge a voler prenderti cura di una di loro, offrendole ospitalità e supporto – mi riferisco al caso di Graziella, la giovane che è stata rinchiusa in manicomio per tutta la vita e che, nonostante l’aiuto offertole da Letizia, non volle mai uscire dall’ospedale, sostenendo di preferire restare malata -. Era piuttosto il lato più filantropo di Letizia a spingerla nella profondità dell’alienazione, una filantropia che lasciava trapelare il rispetto che Battaglia provava nei confronti del soggetto che voleva raffigurare: nulla a che vedere con la freddezza dell’obiettivo, il tocco di Letizia non si voleva adeguare a nessuna legge o teoria che vede la fotografia come semplice mimesi della realtà.

All’inizio, non fu facile dapprincipio avvicinare i pazienti: erano diffidenti e si vergognavano della loro umanità, del loro modo di viverla e di non essere all’altezza di quel mondo meraviglioso che si espandeva oltre le alte mura del complesso di edifici. Quello stesso mondo apparentemente migliore che aveva deciso di fare a meno di loro. Assieme a colleghi fotografi e amici però, Battaglia formò un gruppo di intrattenimento e organizzò varie attività per gli ospiti: dalla musica punk al teatro, dallo yoga ai giochi a squadra, tutto il possibile per rallegrare loro la vita. Al contrario del narratore in Il sistema del dottor Catrame e del professor Piuma, racconto dell’orrore di Poe ispirato proprio al manicomio di Palermo, Letizia non ebbe il minimo timore nell’approcciare “i matti”, naturalmente, proprio come scoprì circa un secolo prima Nelly Bly, i pazienti lì internati non erano pericolosi o di molto più strani di coloro che li giudicavano. Erano per lo più donne vittime di abusi (è stato riportato più volte il caso di Fara Lamberti, stuprata da un parroco da ragazzina e ingravidata: dovette dare in adozione il figlio e fu poi costretta fino alla sua morte a “vivere” nel manicomio) o semplicemente donne anticonformiste e isteriche, insoddisfatte di vivere secondo una tradizione cattolica fortemente conservatrice che le vedeva – e le vede ancora – alla stregua di quelle meravigliose marionette siciliane dall’ammirabile bellezza, ma indissolubilmente legate a qualcuno che tira loro i fili.

Per questo oggi vogliamo ricordarla, con retrospettive, eventi e mille iniziative. Perché fu una donna che diede nuova dignità alla donna; fu una fotoreporter che mise in luce l’importanza che questa professione dovrebbe ricoprire nel panorama artistico e intellettuale italiano – e che purtroppo è ancora vista come ancella di arti e scienze, non troppo diversamente da quanto auspicava Baudelaire -. fu infine una siciliana che volle far chiarezza sulle ombre più lunghe della sua terra e ci riuscì non solo grazie a immagini di morte, ma anche grazie agli sguardi profondi e pieni di vita degli abitanti della sua isola: maledetta e per questo magnifica.

 

Giulia Gorella

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