E Johnny prese il fucile

E Johnny prese il fucile: Dalton Trumbo

MetallicaNel 1989 usciva un disco dei Metallica (non cd; di vinile …) che ai puristi dell’Heavy Metal – me compreso – suscitò, al tempo, parecchie perplessità, soprattutto se confrontato con il precedente “Master of Puppets”. Si chiamava “And justice for all”. Era un disco che tracciava probabilmente la traiettoria che li avrebbe portati verso il successivo disco, l’omonimo “Metallica” , che li farà diventare una Band di proporzione planetaria, abbattendo le pareti di un genere musicale molto ghettizzato.

Anche se a prima vista può sembrare che io stia scrivendo una critica musicale, il mio intento è invece quello di parlare di cinema. Nel testo di “One”, tratta da “And justice for all”, possiamo leggere questi versi, potenti e drammatici.:

Landmine has taken my sight

Taken my speech


Taken my hearing


Taken my arms


Taken my legs 


Taken my soul

Left me with life in hell

Queste, come tutte le altre parole della canzone, sono ispirate a un film del 1971, un film di Dalton Trumbo: si tratta di “E Johnny prese il fucile”.

È di questo film che voglio parlare. Perché è un bel film, uno di quelli che merita andare a ripassare o a scoprire; perché la storia del suo regista e sceneggiatore è molto interessante. E forse perché, ciclicamente, la cronaca mi porta a ragionare su temi antimilitaristici.

E Johnny prese il fucile Dalton TrumboChi è Dalton Trumbo?

Dalton Trumbo è, o meglio era, uno dei più famosi sceneggiatori soggettisti di Hollywood (tra le molte cose sue vi segnalo”Exodus”, “Vacanze Romane” e “Spartacus”), che scrisse però la maggior parte delle sue sceneggiature sotto pseudonimi e abitando in Messico, poiché finito nella cosiddetta “lista nera” degli artisti e cineasti Statunitensi che non potevano lavorare negli States. Perché?

Perché durante gli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, si era in piena ondata anticomunista, e la commissione per le attività anti-americane processava e condannava tutti quelli che avevano anche solo guardato con simpatia agli ideali socialisti e comunisti d’oltreoceano. Trumbo era dichiaratamente stalinista (al tempo l’accezione del termine era ovviamente diversa); si rifiutò, assieme ad altri dieci colleghi, di fare i nomi di coloro che sapeva essere simpatizzanti della sinistra radicale, venne processato, condannato a undici mesi di carcere e bandito da Hollywood. Continuò a lavorare fra mille difficoltà; dall’estero, e sotto falso nome.
Facciamo ancora un salto indietro: nel 1939 Trumbo scrive un romanzo (splendido) dallo stesso nome del film di cui parlo, che è fondamentalmente soggetto e base di partenza del suo progetto cinematografico. Il 1939 non è un periodo adatto per parlare di pacifismo, tant’è che lui ritira temporaneamente il libro, e non ne parla più, soprattutto quando la Germania nazista attacca l’Unione Sovietica. Il libro comunque prende parecchi premi, ed è considerato a tutt’oggi un capolavoro nel suo genere. Trumbo avrebbe voluto sin da subito farne un’opera cinematografica, ma tra Seconda Guerra Mondiale e il Maccartismo deve aspettare fino alla fine degli anni Sessanta per porre in opera il suo primo (ed unico) film; Dalton Trumbo vede uscire nelle sale il suo film quando ha 66 anni.

Di che parla, questo film, che ha ricevuto tra gli altri anche il premio speciale della giuria a Cannes nel 1971? Parla di Joe, giovane soldato americano (un marconista) richiamato al fronte durante la Grande Guerra, che l’ultimo giorno prime della fine, rifugiatosi in una trincea, viene colpito da una bomba e fatto a brandelli. Recuperato dalle truppe Alleate viene salvato per miracolo, ma sopravvive privato di tutti gli arti, di vista, udito, parola, olfatto. Solamente in grado di percepire con la pelle ed in compagnia solo dei suoi pensieri e sogni. Di Joe non resta che, come dicono in una scena due medici che lo curano, “un pezzo di carne che vive”, che con meccanica ed euclidea ostinazione viene mantenuto in vita nel suo limbo vuoto. Joe recupera pian piano consapevolezza di quel che gli è successo, e attraverso i movimenti del capo cerca di comunicare in codice Morse con il mondo esterno. Quando, nell’ospedale militare in cui giace, viene capito, chiede ai medici di lasciarlo morire, o quantomeno di esporre il suo corpo al mondo per testimoniare gli orrori della guerra. Questo suo muto grido di dolore non verrà mai accolto: Joe viene lasciato a sé stesso nel suo buio, perennemente.

Tutto accade alternando la realtà (rappresentata cinematograficamente in bianco e nero) ai sogni di Joe (a colori), che oscillano come un pendolo tra flashback, ricordo e allucinazione, in cui il suo unico spazio di confronto è, con uno straordinario Donald Sutherland ad interpretarlo, Gesù. Spunti di riflessione oltre che sulla guerra non mancano: si va dalla religione alla cieca ostinazione di un certo tipo di scienza e medicina. È un film di una incredibile drammaticità, forse nella sua seconda parte più lento che nella prima, ma quando si affrontano certi temi, e soprattutto in un certo modo, vien da dire, spontaneamente, e con sincerità, “ma chissenefrega”.

Ricordo come scopersi questo film.

Avevo quattordici anni e lo pescai per puro caso nel dopo mezzanotte su RAI 3. Restai imbambolato e rapito praticamente da subito. Mia madre, dopo alcuni minuti, venne a domandarmi cosa stavo vedendo a quell’ora in televisione, col manifesto sospetto che fossi lì a guardare una televendita di videocassette porno. Constatato che non lo era, si sedette un attimo per guardare assieme a me.

Facemmo, insieme, ben oltre le due di notte.

 

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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