Ivano Marescotti: Speranza? No: la mia carriera l’ho fatta

Ivano Marescotti. Ph Roberto Serra Passeggiando al Lido di Venezia, durante la 73esima Mostra del Cinema, abbiamo avuto il piacere di incontrare l’attore Ivano Marescotti, che gentilmente ci ha concesso un’intervista.

Marescotti, nato a Bagnacavallo nel 1946, inizia la sua carriera teatrale a 35 anni. Lavora con grandi nomi quali Mario Martone, Carlo Cecchi, Giampiero Solari, Leo De Berardinis, Thierry Salmon, Giorgio Albertazzi.
Dal teatro approda al cinema interpretando numerosi film, diretti da registi italiani e internazionali, tra i quali Anthony Minghella, Ridley Scott, Roberto Benigni, Silvio Soldini, Marco Risi, Pupi Avati, Sandro Baldoni, Maurizio Nichetti, Carlo Mazzacurati, Marco Tullio Giordana, Antonello Grinaldi, Antoine Fuqua. Negli ultimi anni l’abbiamo visto in molte fiction come “Raccontami”, “Che Dio ci aiuti”, “Un medico in famiglia”.

I suoi ricordi giovanili di vita?

I ricordi giovanili sono tutti piacevoli (sorride); la gioventù è una cosa piacevole vista da lontano, dopo tanti anni di vita.
I ricordi sono piacevoli perché la mia generazione è stata quella che, rispetto a quella di mio padre, che ha avuto una giovinezza rovinata dal Fascismo e dalle guerre, è nata nel dopoguerra e ha avuto la fortuna di vivere una vita migliore. Purtroppo, d’ora in poi, i nostri figli e nipoti non avranno la certezza di vivere una vita migliore di quella dei loro padri o nonni.

Le viene in mente qualche detto in romagnolo che ha sentito quand’era piccolo a casa, dai nonni o dai genitori?

Ce n’è una quantità, di detti in romagnolo. Ho imparato l’italiano a scuola a sei anni: in famiglia, da noi, si parlava solo in dialetto romagnolo. Ancora adesso, quando mi trovo con le mie sorelle, si parla esclusivamente in dialetto.

Prima di fare l’attore lei ha studiato architettura; in quale Università?

A Venezia. Ho dato – mi pare – solo cinque-sei esami e poi mi sono trasferito al DAMS di Bologna, facendo altri cinque-sei esami. Dopo mi sono licenziato dall’impiego di urbanistica che avevo nel Comune di Ravenna e mi sono dedicato a fare l’attore.

Come ha vissuto quegli anni universitari?

Facevo l’Università lavorando: ero impiegato al Comune di Ravenna, all’ufficio del piano regolatore; piano che poi ho fatto con gli architetti e gli urbanisti negli anni ’70. Ho studiato fino a che, nel 1981, prima di laurearmi, mi sono licenziato dall’impiego e ho cominciato a fare attore.

E come mai ha scelto di fare architettura?

Perché ho fatto il Liceo Artistico. A quei tempi, negli anni ’60, l’unica facoltà alla quale si poteva accedere, finito il Liceo Artistico, era proprio architettura. Era una regola. Noi frequentavamo il Liceo solo per quattro anni, specializzandoci in architettura e quindi quella era l’unica Università adatta.

Guardando i palazzi di una volta, notiamo l’identità della società che c’era un tempo. Si può dire che in passato costruivano anche per lasciare ai posteri. Che cosa pensa, invece, dell’architettura di oggi?

Ci sono delle situazioni abbastanza particolari; c’è un’architettura brutta, non regolare, non legittima, che ha rovinato un po’ le periferie delle città, soprattuto nel Sud. È una roba pazzesca!
L’architettura dei grandi artisti, invece, dovrebbe rimanere, ma non sempre è così: per esempio ci sono delle strutture architettoniche importanti che sono lasciate a metà perché, le speculazioni e tutto il resto, hanno impedito di finirle. Comunque l’architettura, come l’urbanistica, appartiene sempre ad un campo, ed è molto legata alle vicende politiche; per cui la corruzione non è indifferente.

C’è qualche palazzo del passato che le piace dal punto di vista architettonico?

I palazzi del passato, ma anche le chiese appartengono alla storia dell’arte italiana; questo è imprescindibile. Ci sono stati degli architetti e degli artisti che hanno fatto delle opere importanti sia per quanto riguarda l’architettura, che le arti visive. Michelangelo, per esempio, è uno che ha fatto veramente, genialmente, di tutto.

Con la trasformazione degli Istituti d’Arte in Licei sono state tolte molte ore di laboratorio e in certi casi anche qualche ora di storia dell’arte. Per un paese come l’Italia non è stata una buona scelta. Lei cosa ne pensa di questo?

Non so bene come sia oggi la situazione organizzativa degli Istituti d’Arte, dei Licei artistici e delle Accademie, però se c’è una cosa evidente, oltremisura nel mondo, è che l’Italia ha più della metà dei beni artistici mondiali nel proprio territorio. È incredibile che in un Paese come il nostro, l’aspetto artistico, i musei e altre realtà siano così trascurati. Io sono andato in certi Paesi dove hanno quattro zolle, quattro sassi di numero, e ne fanno un centro turistico statale importantissimo.
Da noi basta andare in qualsiasi piccolo paesino dell’Italia per trovare dieci volte quello che altrove ha un intero Paese, anche tra quelli europei. È purtroppo un bene che viene trascurato in maniera irresponsabile. Tutti dicono che potremmo vivere di arte e di cultura; mentre l’investimento in cultura, nel nostro PIL, è ridicolo, rispetto a quello di altri Paesi come, ad esempio, la Francia e l’Inghilterra. Di tutto questo sono colpevoli sia i governi precedenti che quello attuale.

Passando al teatro: lei ha iniziato a 35 anni. Si è inserito facilmente nell’ambiente teatrale?

No, ci ho messo almeno quattro-cinque anni di gavetta dura. A 35 anni mi sono licenziato dall’impiego che avevo, ma non sapevo assolutamente in che cosa consistesse fare l’attore, non conoscevo il mondo del cinema o del teatro. Non ne sapevo assolutamente nulla, fortunatamente, perché se lo avessi saputo, forse non mi sarei mai cimentato.
Mi sono buttato e i primi quattro-cinque anni dall’80-’81 fino all’84-’85 ho vissuto (ride) nella bohème totale: andavo in giro con il sacco a pelo, mangiavo panini, non lavoravo molto, solo due mesi su dodici, giusto per riuscire a mangiare. Dall’84-’85 in poi, gradualmente, sono salito su un livello professionale accettabile, prima col teatro e poi, negli anni ’90, col cinema, e finalmente mi sono assestato (sorride).

Lei ha sostituito un suo amico in uno spettacolo. E da lì è iniziata la sua carriera teatrale. Di che spettacolo si trattava?

In quel momento ero ancora impiegato al Comune di Ravenna, e non potevo sapere se in futuro avrei fatto l’attore. Un mio amico mi ha detto che avrebbe dovuto sostituire un attore che andava via da una Compagnia, e ha aggiunto: “Vai tu, a vedere al posto mio e poi mi racconti”. Quando mi sono presentato il regista ha detto che avrei dovuto interpretare il ruolo di protagonista della commedia per bambini, che era già in atto.
Il giorno dopo, ho chiesto: “Ma le prove?”, il regista mi ha risposto: “No, non servono, con la professionalità che avrà lei e improvvisando un po’…” (ride). Avevo 34-35 anni, ma per me era il primo spettacolo! Inconsciamente, ho rinunciato alle ferie che avevo maturato, per dedicarmi a questo spettacolo. Alla fine mi sono detto: “Mi licenzio e faccio l’attore”. Ci ho messo un po’ di tempo…

E com’è recitare per i ragazzi, per i bambini?

Bello. Quando ho cominciato io, la mia partecipazione era un po’ cialtronesca, però funzionava, i bambini ridevano, per cui ero molto incoraggiato. In quel periodo, ho fatto diversi spettacoli per bambini e dopo, piano piano, ho cominciato a fare spettacoli teatrali con Mario Martone, Carlo Cecchi e altri registi; infine sono approdato al cinema.

Negli anni ’80, lei ha avuto modo di essere diretto da Albertazzi, nello spettacolo “Il Genio”. Come l’ha guidata Albertazzi?

Sì, era nell’84-’85. Devo dire che è stato il primo spettacolo di livello professionale-relazionale a cui ho partecipato.
Posso dire, con il senno di poi, che con Albertazzi è cominciata la mia attività professionale di assestamento, anche sul piano economico. Feci quattro-cinque mesi con Albertazzi, che mi scelse per una parte molto piccola; poi, durante le prove, mi cambiò parte e me ne diede una più consistente. Da lì in poi ho lavorato con Leo De Berardinis, Mario Martone, e tanti altri. Ma il mio vero inizio è stato nell’84-’85, con “Il Genio” di Damiano Damiani.

Uno dei suoi autori preferiti è Raffaello Baldini. Cosa ama di lui?

Di Raffaello Baldini si ama veramente tutto. Io l’ho frequentato per una ventina d’anni; era una delle persone più amabili, colte e divertenti che io abbia mai conosciuto. Spesso l’ho costretto (sorride) a scrivere per il teatro: lui non aveva nessuna idea di farlo. Su mia pressione ha scritto tre spettacoli; il quarto, l’ultimo, non glielo avevo chiesto: è stato lui a scriverlo di sua spontanea iniziativa. Me l’ha consegnato praticamente prima di morire, perché lo mettessi in scena. Così ho fatto. L’anno scorso sono anche venuto a Trieste con questo spettacolo (“La Fondazione” n.d.r.)

Era la prima volta che veniva in questa città?

No, sono venuto altre volte, probabilmente anche con Albertazzi e con altri colleghi.

Che cosa ne pensa di Trieste?

Beh (sorride), è una città molto affascinante. Ha degli aspetti contrastanti, nel tessuto urbano. Non ci sono rimasto a lungo: solo per qualche giorno, il periodo delle tournée teatrali. In tutto sarò stato a Trieste un paio di settimane, dilungate negli anni.

Lei ha lavorato con grandi registi cinematografici internazionali e italiani. Ha notato differenze tra il modo di dirigere degli italiani e degli stranieri?

La differenza nel modo di dirigere non c’è; ognuno dirige in maniera diversa, è un fatto molto individuale. La differenza che si nota immediatamente, invece, è che, nel cinema americano, i soldi impiegati per fare film, si vedono proprio in maniera eclatante. È una grande industria con tanti milioni di dollari investiti. Mi ricordo che, quando feci un film in America, per un giorno solo di riprese si spendeva ciò che in Italia si sarebbe speso per due film.

Lei ha preso parte in “Che Dio ci aiuti” e in “Un medico in famiglia”: due fiction per la famiglia. Secondo lei, che ruolo ha la famiglia nella società di oggi?

La famiglia ha un ruolo nella vita individuale, personale e sociale. La famiglia, per fortuna o purtroppo, è stata sempre considerata il nucleo, sia dal punto di vista culturale che sociale, che tiene unita anche la Nazione. Dopo gli anni ’60, dal ’68 in poi, con la legge sul divorzio e sull’aborto, che da noi sono arrivate in ritardo rispetto agli altri paesi europei, le cose sono cambiate.
Ora la famiglia finalmente si distingue rispetto a qualche anno fa; si parla di unioni familiari, anche tra omosessuali, quindi è un concetto un po’ meno conservatore, anche se resta il nucleo fondamentale della vita sociale.

Nel 2004 lei ha dato vita alla Patàka S.r.l. Di che cosa si occupa questa società?

È una società che ho da parecchi anni, con la quale faccio i miei spettacoli, me li produco, organizzo eventi e la mia vita teatrale.

Come mai quest’anno era alla Mostra del Cinema di Venezia?

Ho partecipato per tanti anni alla Mostra del Cinema con molti film. Negli ultimi dieci-dodici anni ho fatto soprattutto fiction e quindi non avevo dei lavori che andassero a Venezia. Molti film che ho fatto sono commedie e le commedie sono poco apprezzate ai Festival.
Quest’anno ero lì con Stefania Sandrelli per presentare, ad un evento collaterale alla Mostra, il film “Il crimine non va in pensione”, che dovrà uscire questo inverno.

Come vede i Festival del cinema?

Alla fine degli anni ’60, primi anni ’70, i Festival sembravano decadere, causa anche le contestazioni. Ora, invece, hanno ripreso con molto vigore. Adesso tutti ambiscono ai premi, alle grandi kermesse, alla spettacolarità del Festival, che è una cosa molto mondana e un po’ particolare. È la festa del cinema.

Ha qualche speranza?

Speranza? (sorride). Dal punto di vista professionale, no: la mia carriera l’ho fatta – ho settant’anni. Posso avere la speranza di vivere il più a lungo possibile (ride). Dal punto di vista professionale non ho tante speranze, perché ultimamente mi sono messo nella condizione di lavorare molto meno: avendo fatto causa alla Rai, sono stato bandito dalle fiction; infatti, come si può vedere, già da due anni non vi compaio. Prima ne ho fatte almeno una ventina; ne facevo anche due-tre all’anno. Spero di vincere questa causa, non tanto per i soldi, ma per la mia dignità. Non è elegante escludere un attore, solo perché è impegnato politicamente.

Ringrazio l’attore Ivano Marescotti per la sua disponibilità e gentilezza.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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