Opera pubblicata dalla casa editrice Adelphi (2022) a cura di Oliver Harris e Bill Morgan. Edizione italiana a cura do Ottavio Fatica e traduzione di Andrew Tanzi.
C’è chi cerca solo l’opera e i suoi personaggi, c’è chi cerca invece anche l’autore dentro i suoi libri. Ci sono scrittori che non possono essere scissi dalle loro opere: esse appartengono all’apparato più intimo e spesso inconcepibile dell’artista. Per questo, si rivelano essere dei doni audaci, seppur non comprensibili completamente. Allora esistono gli epistolari: molti scrittori ne scrivevano in grandi quantità quasi a voler esorcizzare l’inaccessibilità del loro genio e la frustrazione che questo comportava nel non sapersi né potersi sottrarre al richiamo della scrittura.
William Burroughs (1914-1997) è uno di questi, un autore stravagante nelle sue opere tanto quanto nella sua vita, poiché le due dimensioni non erano separabili. La maggior parte delle lettere sono indirizzate ad Allen Ginsberg e i temi toccati spaziano dal buddhismo, allo yoga, alle droghe, al sesso, all’omosessualità e alla scrittura. E ad una buona parte di amore spesso inconfessabile se non attraverso le lettere insieme al suo odio viscerale nei confronti di tutte le forze dell’ordine. La sua ricerca morbosa della verità dentro l’esperienza metafisica della tossicità l’ha portato a far convivere – non con momenti di bassissima disistima – la sua ricerca logica, fisica, antropologica dell’uomo con un animo iracondo e scostante, facciata di una strana timidezza e ricerca della solitudine.
William Burroughs era considerato omosessuale, ma era anche sposato con dei figli, il che dimostra una versatilità di un sesso sconvolgente per i tempi, all’avanguardia invece nella realtà dei fatti. Che preferisse i giovanotti freschi e inesperti non l’ha mai negato, ma pare cosa da poco ad oggi ancora etichettarlo unicamente come omosessuale. Questi autori beat, chiacchierati, censurati e poi osannati, avevano ben chiaro quale fosse la direzione da seguire, e come tutti i grandi artisti precursori di altre epoche a venire, misero nei loro gesti tutto quello che non potevano condividere con le loro parole nell’America puritana.
Quello che contava non è possibile e non credo sia vero fosse solo la ribellione, la denuncia attraverso la trasgressione e la promiscuità, ma una tensione più lungimirante sulla condizione dell’essere umano vista nella sua decadenza e fallibilità, senza bisogno di categorizzare i generi, i sessi e le scelte. La Beat Generation era una delle prime forme di affermazione di un’identità slegata dalle sovrastrutture sociali; era quello che noi, ad oggi, chiamiamo “fluidità” per denominare l’assenza di un genere, per lasciare spazio alle persone in quanto tali.
William Burroughs in queste lettere, ci mostra un uomo e uno scrittore dannato dentro la sua quotidianità fatta di droga, di studi sulla droga, di macchine da scrivere vendute e riacquistate per comprare la droga e un pacco di riso per mangiare, non tutti i giorni. Ci raccontano un essere inquieto, profondamente solo con il terrore della solitudine, pur selezionando continuamente le persone che volevano stargli accanto.
Grazie a queste lettere, attraversiamo il periodo storico delle sue opere nelle sue stesure, da La scimmia sulla schiena (1953) a Pasto nudo (1959) per citarne solo alcuni, insieme a tutti gli estratti mai pubblicati in un unico libro, ma racchiusi dentro le confessioni che faceva principalmente al suo migliore amico, amante, amore della vita e agente Allen Ginsberg; l’esplorazione della tecnica di scrittura cut-up che anni dopo inspirò David Bowie; la pittura in forma concettuale, secondo degli schemi simili al Dadaismo; la scelta di non appartenere ai canoni accademici richiesti per essere pubblicato, continuando a studiare, scrivere e riscrivere i suoi testi perché ammetteva che per essere uno scrittore aveva bisogno di un pubblico.
In ogni lettera, pagina dopo pagina, c’è sempre un elemento di disarmante coerenza: la consapevolezza della sua tossicità e la lucidità di saperla gestire, nutrire, disintossicare e riequilibrare come forma di scoperta sempre nuova, senza mai cadere nel cliché del drogato malavitoso o del barbone ormai sfinito. Mantenne sempre un’alta dignità, un portamento elegante dato anche dalla sua figura sottile come testimonia la foto sulla copertina dell’opera epistolare: chiuso dentro un vestito tipico, si presentò sempre come un intellettuale impegnato assiduamente nella ricerca di qualcosa che doveva passare attraverso il suo corpo per poter essere realmente compreso. Potremmo dire che la sua presenza estetica era direttamente proporzionale alla sua ricerca scrupolosa degli studi e della conoscenza, al punto tale che tra tutti i beat, probabilmente Burroughs è stato l’unico ad avere veramente sprofondato gli abissi del lato oscuro senza rimanerne mai del tutto vittima.
Di seguito pubblichiamo alcuni estratti delle sue lettere scritte nella sua casa a Tangeri
Ad Allen Ginsberg, 13 dicembre 1954:
“Quindi sono qui a Tangeri a fare il conto delle mie fortune. Mi vengono pensieri orrendi. Metti caso che è la roba a conservarmi e che se e quando la mollo divento grasso? Questo sì che è un dilemma! Probabilmente sacrificherei tutto al mio narcisismo per conservare ad ogni costo la pancia piatta. Ho intravisto una nuova dimensione del sesso. Sesso mischiato a routine e risate, le risate pure, innocenti, distese che accompagnano una buona routine, risate che per un attimo ti liberano dalla carne che diffida, dubita, invecchia, teme. Una relazione del genere sarebbe così angelica! (Nota che il sesso e le risate sono considerati incompatibili. Ci si aspetta che il sesso sia preso con serietà. Immaginati la reazione di un reichiano alla mia botta di sesso con risate! Ma nella natura della risata, c’è il disconoscimento di qualsiasi limite).”
Ad Allen Ginsberg, 26 agosto 1954:
“In definitiva la ragione principale per restare qui è Kiki. Ultimamente lo voglio sempre con me. Ieri notte ho scoperto di amarlo. Stavo dormendo, ancora intontito, non afferro esattamente cosa dice. Di colpo capisco che sta descrivendo con dettagli agghiaccianti i disegni che vuole farsi tatuare sulla bella pelle marrone ramata del petto, delle spalle, delle braccia. Gli passo le mani addosso ora dopo ora, mentre fa le fusa nel sonno come un gatto soddisfatto. Quindi ho avuto una crisi isterica, ho pianto e l’ho baciato e l’ho implorato di non farlo: “E’ come se ti facessi mettere un disco labiale, o un anello al naso, o ti facessi saltare gli incisivi per metterti i denti d’oro. (…) E’ una profanazione!”. Alla fine è rimasto colpito dal mio impeto. (…) E’ esasperante. Non posso avvicinarmi così tanto. Sento che tentare il tutto e per tutto sarebbe disastroso per me. So che dovrei lasciare la cosa a stato di liaison, che dovrei volergli bene alla giornata, ma senza coinvolgimenti, e senza rischiare di essere ferito. Ma è talmente squallido così. Mi sono accorto che il sesso è molto più piacevole da quando provo una specie di amore per lui. (…) Una volta mi ha ridotto in lacrime – con le persone che amo ho sempre paura di essere realmente odiato e di ritrovarmi all’improvviso faccia a faccia con il loro odio.”
A Jack Kerouac, 18 agosto 1954:
“Dando per assodato che la mia ipotesi sia esatta, naturalmente, mi stai attribuendo lo status di trafficante, cosa che, al momento, se devo essere onesto non voglio affatto. Non ho tempo né voglia per simili attività, gravate da un rischio che non sono più disposto a correre, dato che minaccia di interferire con obiettivi come la scrittura e l’esplorazione, che mi interessano per davvero. In realtà, qualsiasi attività criminale, a meno che non ci costringano tutti quanti alla clandestinità, non mi interessa più. Non posso fare a meno di pensare chr ti stia spingendo troppo in là con tua castità assoluta. Peraltro, la masturbazione non è castità, è solo un modo per schivare il problema senza nemmeno avvicinarsi alla soluzione. Ricordati, Jack, ho studiato e praticato il buddhismo (disordinatamente, come mio solito, certo). La conclusione cui sono giunto – e non dico di parlare di uno stato di illuminazione, ma solo di aver tentato il viaggio, con mezzi e conoscenze inadeguate come sempre (…) cadendo in ogni errore e incidente possibile, perdendo l’attrezzatura e la strada, tremando ai venti cosmici su un nudo pendio di montagna al di sopra dell’orizzonte della vita, gelato fin dentro al midollo per la disperazione terminale della solitudine – è questa: che cosa ci faccio io qui, un eccentrico a pezzi? (…) Un uomo che usa il buddhismo o qualsiasi altro mezzo per eliminare l’amore dal proprio essere al fine di evitare la sofferenza ha commesso, per come la vedo io, un sacrilegio paragonabile alla castrazione. Ti hanno dato il potere di amare per usarlo, non importa quanto dolore possa causarti.”
Francesca Schillaci