Vincenzo Russo - Il migliore di Noi

Il migliore di noi

Vincenzo Russo - SciampoSopra l’ingresso del ‘Naima’ campeggia una fotografia stretta e lunga degli occhi di Miles Davis.

È la porzione di una gran bella foto in bianco e nero, che era poi la copertina di quel gran disco che è ‘Tutu’. Ma è stato solo quella sera, quella in cui tutti noi siamo un po’ cambiati, che mi sono reso conto di come gli occhi distaccati e insieme attenti di Miles non guardano chi entra o esce, ma oltre. Miles guarda da dove si arriva e dove alla fine si va. E chissà quanto avanti nel tempo e nelle storie scrutano quegli occhi.

Così, dopo essermi soffermato in questo pensiero giusto il tempo di tirare un paio di avide volute di fumo e spegnere la mia ‘Lucky’, sono entrato.
Serata Sciampo.
Quella che al tempo da Franco e Stefano era stata definita ‘palestra di ardimento letterario’, con un tono che oscillava tra il pomposo e l’auto-ironico. Una serata a microfono aperto che al tempo si teneva ogni martedì, in cui, come da didascalia, “tutti possono mettersi in scaletta, impugnare il microfono e leggere, declamare, cantare, gridare quello che gli va”. Una specie di ibrido, un O.g.m. che incorporava un lettino da psicologo, l’ ‘Ora del Dilettante’ e lo ‘Speaker’s Corner’.
Io ero di queste serate più che un affezionato, mi autodefinivo un elemento d’arredo. Scrivevo poesie, saltuariamente racconti, a volte pezzi che avrebbero voluto far ridere e che non sempre lo facevano. E quando non scrivevo nulla, come molti portavo qualcosa d’altrui.

E come me erano elemento d’arredo tutte le facce che sapevo avrei incontrato la dentro, pronti a sedersi a turno sulla poltrona da barbiere vintage procurata chissà dove da Franco, il proprietario, che faceva ovviamente parte dei lettori usuali. Beppe era al banco, nove volte su dieci parlava con una o più ragazze con minimo dieci anni più giovani di lui, dipanando con entusiasmo il suo immaginario fatto di poesia, musica, qualche volta dinosauri. A breve distanza Sandro, perennemente in uno stato di agitazione che gli impediva di rimanere fermo più di due secondi, pronto a stuzzicare Beppe con delle battute a volte feroci, spesso divertenti qualche volta ripetitiva… tutte comunque centrate sulla mole di Beppe e sui suoi appetiti, non solamente di Kebab.

Dani si limitava a preparar da bere a tutti noi, col solito buon umore, incrollabile e tranquillo anche se le cose magari non andavano tanto bene quando aprivi la cassa a fine serata. Più distante Beatrice, era già in un angolo con un gruppo ristretto di amiche, pronta a tirare un lungo respiro e leggere giù per una discesa ripida i suoi bei racconti, contemporaneamente femministi e antifemministi, a volte malinconicamente Noir. E poi Luka, quello col colbacco e la fiaschetta di grappa, un tipo davvero strano, ma forse davvero il più sereno con sé stesso fra noi. Luka con la “k”, quello alto che la grappa ed altro se la procurava direttamente al bancone, con il sorriso serafico e gentile, con gli appannamenti improvvisi dell’umore che si han solo a vent’anni.
Franco era da qualche parte attaccato al suo Iphone, un po’ per giocare un po’ sicuramente per estraniarsi un po’. Tanto lo sapevamo che sarebbe uscito da quella apparente apatia e avrebbe tirato fuori all’ultimo uno dei suoi numerosi racconti, come avesse tirato fuori dalla cantina una bottiglia ‘di quello buono’.
Attorno a noi tutta una serie di altre facce che c’erano sempre, sia per leggere che per ascoltare:
Piero Purini, il nostro sassofonista, Beppe quello magro, Ester, Nicolò, Gaia, Efrem, Giovanni, Gerry, Messico… i soliti noti.

Non avevamo, ovviamente ancora iniziato, ma la poltrona da barbiere era stata già spostata da qualcun altro, per mia fortuna, visto quanto pesava quel catafalco di pelle rossa che lungo la settimana veniva parcheggiato all’ingresso del Naima.

Poi lo vedo. Un tipo di altezza media, biondiccio e magro, nervoso come un merlo quando esce dall’erba alta a caccia d’una briciola, nascosto da un paio di occhiali talmente spessi da risultare anacronistici, e pesanti al punto da giustificare il tic che lo portava ad aggiustarli sul naso ogni trenta secondi.
Aveva qualche foglio di carta arrotolato in mano, e parlava con Beppe, che in genere si occupa della costituzione di una scaletta pasticciata e piena di frecce e cancellature a volte nemmeno sue ma di qualcuno che non aveva voglia di far tardi e si auto collocava tra i primi cinque lettori.

Guido, seppi poi leggendo la scaletta, si chiamava.
Si prese un succo di frutta e si sedete su uno sgabello, nel perenne movimento di chi sta scomodo ma non lo vuole rivelare, ingobbito nell’aspettare il suo turno in un angolo lontano dagli sguardi.
Feci uno degli errori più grandi della mia vita a pensare che quando avrebbe letto lui sarebbe stato un buon momento per uscire a fumare. E come me, credo molti quella sera, con la mia stessa leggerezza un po’ arrogante e assolutamente non dichiarabile data la nostra patina libertaria.
Poco dopo come al solito parte ‘Sciampo’ di Gaber, la nostra sigla, il segnale d’inizio della serata. Franco prende posto al microfono, presenta la serata lasciando spazio ad un solo di sax dal vivo che impreziosisce sempre un po’le nostre serate. Guido, nel suo angolo, nervoso e sorridente ascolta tutto con una attenzione nitida che va oltre un tributo un po’ obbligato che i novellini a volte provano ed altre volte ostentano.
E il suo turno arrivò. Verso la fine ovviamente, dato che non aveva avuto il coraggio, o la voglia, di intervenire personalmente su una scaletta che mai aveva saputo rimanere uguale al suo aspetto iniziale nel corso delle serate Sciampo.
Si sedette, fece dei timidi tentativi di aggiustarsi un po’ il microfono, salvo poi arrendersi e rimanere più scomodo lui, ingobbito davanti al microfono, aspetto una presentazione un po’ sottotono di Franco, e attaccò.
La sua voce, così diversa da quella impalpabile ed incolore che poi ascoltai mentre ci scambiavo due parole, era potente e appassionata, un suono che rovesciava sulle nostre teste un intero cosmo di emozioni. E le sue parole bombe, che deflagravano accecanti nelle nostre pance. Scriveva e leggeva come mai avevo sentito o letto in vita mia. Ero a bocca aperta, immobile sul mio sgabello. E le reazioni attorno a me erano le più diverse. Una ragazza lo fissava toccandosi la pancia come se qualcuno la avesse insieme colpita e carezzata, poco lontano un uomo nascondeva qualche lacrima mentre un altro non faceva nulla per nasconderla. Occhi spalancati e fissi ovunque. Un ragazzo, toccato nel profondo in un modo devastante si alza come fosse stato offeso in un modo inusitato e trattiene l’istinto di picchiare Guido, gente che era fuori a chiacchierare e fumare che entra per ascoltare, attratta dal’incisività violenta e sensuale tre o quattro parole percepite per caso attraverso la porta che oscillava .. Persino la rumorosa macchina del ghiaccio zitta, una volta tanto, al vibrare di un fiume di parole talmente intenso, intimo, toccante. Poi finì. Silenzio attonito in cui risuonava l’eco delle ultime tre parole di Guido… Poi un applauso, che cresce timido fino a diventare, il più intenso che abbia mai sentito a ‘Sciampo’.

Lui fa un sorriso veloce e tirato aggiustando gli occhiali e scende dalla poltrona. Schiva delle pacche sulle spalle e parecchi complimenti e quasi fugge via, dopo pochissimi scambi di parole e alcuni timidi grazie ai complimenti che piovevano sulle sue spalle leggermente ingobbite. Preso da una strana curiosità e dal desiderio di scambiare più di un ‘bravo’ – ‘grazie’ esco e lo seguo passando oltre una coppia che fino a dieci minuti prima si ignorava stancamente e ora si baciava come fosse l‘ultimo bacio dell‘universo intero.

Lui non si rende conto della mia presenza e prosegue dritto. Si ferma dietro l’angolo in mezzo ai cassonetti, prende dalla tasca il plico di fogli con cui ci ha appena portato altrove e li stringe avanti a sé in una mano che trema. Nell’altra mano brilla breve la fiamma di un accendino che verso quei fogli e li brucia. Resta un po’ li, accovacciato a guardare le sue parole che diventano cenere, un sorriso sereno appena illuminato da qualche breve lingua di fiammella, e poi se ne va verso il buio.

Non parlo con nessuno di quello che ho visto quando torno a bere un ultimo amaro, ma Guido è in molti nostri discorsi. Tutti noi siamo rimasti toccati, in certo casi stravolti dalla sua lettura e, forse condividendo tutt lo stesso senso di colpa per la iniziale supponenza. Coviamo la stessa speranza che torni a leggere, e non tanto per averlo alla serata ‘Sciampo’ come traino in più, ma per poterlo semplicemente ascoltare.
E Guido torna. Ogni settimana per almeno tre mesi è con noi. Nessuno sa da dove sia saltato fuori quest’uomo sulla quarantina che tutti noi ormai consideriamo un genio. Non sembra amico di nessuno, non ha Facebook, nemmeno sappiamo come abbia saputo delle nostre serate di letture. Lui del resto è molto riservato, di una timidezza che non sembra appartenere all’universo di parole con cui dipinge per noi il suo intimo. Rabbia, frustrazione, solitudine, piccole gioie, sensualità, paura … Luce e oscurità. Li regala a tutti ogni martedì sera e la gente reagisce. Le serate sono di settimana in settimana sempre più piene e la gente gioisce e soffre con lui, ora picchiata ora carezzata dalle sue incredibili parole. E a Franco e Dani neanche importa che le serate del martedì vedano la cassa piena, a tutti e due piace sia li solamente per ascoltarlo, per rimanere con qualcosa dentro che, come capita a tutti noi, li rende migliori. Tutti noi ci impegnamo, di più. Scriviamo sul serio e siamo soddisfatti di noi. Non dell’applauso, non del piazzamento in una nostra stupida e inconfessabili classifica della serata. Ognuno, nella propria inclinazione creativa è semplicemente felice di scrivere e comunicare.
Poi, una sera, quella sera, legge forse la sua cosa più bella, talmente struggente e limpida da farmi piangere, sospeso all’idea che si, le parole possono cambiare l’anima. Era come se un angelo avesse carezzato tutti noi che lo ascoltavamo, era la conferma che tutti noi avevamo assistito al manifestarsi di quello che non c’è altro modo di definire che “genio”. La vergenza di qualcosa raro come la creazione.
Poi, dopo quei due secondi di silenzio attonito e un applauso che monta come una violenta marea, fa una inusuale. Prende l’accendino e sorridente da fuoco ai suoi fogli scritti a penna blu. Li lascia bruciare in un bicchiere di gin tonic vuoto e ci guarda dritti in faccia. E parla, sorridente.

“Ecco, vi ho raccontato di me, e tutta la mia vita, quella vera, quella delle mie emozioni la ho condivisa con voi, la ho consegnata alla vostra memoria.Perché solamente lì voglio resti. In nessun altro luogo.”

Resta in silenzio guardando la cenere fumante nel bicchiere e poi ci guarda di nuovo, noi tutti schiacciati da un silenzio assordante.

“So che è in buone mani, arrivederci amici miei.”

Poi, sorride rilassato, come avesse raggiunto uno scopo.
Con un gesto veloce come se lo avesse provato mille volte tira fuori una pistola, la punta sotto il mento e spara.
E ora ci ritroviamo qua, noi, elementi d’arredo delle serate ‘Sciampo’, con gli occhiali scuri a difenderci dal bianco abbagliante del cimitero. Nella consapevolezza di non essere a nostro agio a stare tutti li, insieme, a quell’ora del mattino.
Pochi giorni dopo quella notte che ci ha sconvolto, un avvocato è venuto a rintracciarci. Non ha avuto, a onor del vero, molte difficoltà a trovarci, a trovarci tutti insieme intendo. Eravamo tutti quanti alle prese con una delle più silenziose e potenti sbronze che ricordassimo. Atterriti dalla grazia che ci aveva sfiorato, e della leggerezza con cui la abbiamo accolta e contemporaneamente ignorata.
C’eravamo solo noi, nessun familiare, nessun familare, solo noi col fardello, e l’onore, di investitura a persone più vivine.
Scoprimmo che Guido aveva lasciato delle volontà precise. Ha lasciato quanto bastava per il suo funerale e ha chiesto che fossimo noi gli unici presenti.
L’unica cosa scritta rivolta a noi era una manciata di righe scritte di suo pugno, a penna blu.

“Amici miei, vi ringrazio di avermi ascoltato, tutte queste sere, di avere ascoltato la mia vita, il mio sentire. So che la memoria tradisce, so che dimenticherete mano a mano le parole, ma va bene così. Alla fine questo conta. Questo volevo. Lasciare la sensazione di quello che mi emozionava, non le parole cui cui ho cercato di descriverlo.”

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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