Incontriamo Alberto Panizzoli, organizzatore di “Icons of Pop Art: Then and Now”. Steve Kaufman è la sua più grande passione.
Alberto, sono rimasto molto colpito dalla mostra “Icons of Pop Art: Then and Now”, che hai proposto di recente. Non conosco bene la Pop Art; a Trieste c’era stata qualche occasione precedente, però ho trovato migliore la presentazione e l’organizzazione di “Icons … “.
Mi fa piacere. Nel 2010 ho avuto l’onore di incontrare la signora Diana Vachier, proprietaria di ‘American Pop Art‘ Inc. , e grazie a lei e al suo supporto sono riuscito a organizzare queste mostre dedicate soprattutto all’artista americano Steve Kaufman. Sono molto affezionato a Kaufman; abbiamo cercato di fare, in un contesto bello, qualcosa di semplice; qualcosa di dedicato allo stesso tempo alle persone e all’artista.
C’è stato un ottimo riscontro.
Le edizioni della mostra a Trieste e a Modena hanno avuto tanto successo, si; siamo molto contenti. Seguirò io, in Europa, la parte della mostra dedicata a Steve Kaufman, e sono stato in California a vedere i luoghi dove lavorava, le cose che faceva. A Modena, ora, è cambiata la struttura del ‘Museo Casa Enzo Ferrari’, non ci sarà più il grande spazio aperto che hai visto, che hai nelle foto; si può dire che quella sia stata un’occasione unica. Adesso il museo è stato ristrutturato e la nostra è la prima mostra ospitata in spazi gestiti completamente a cura della Ferrari: spazi inaugurati il 18 febbraio, il giorno di nascita di Enzo Ferrari, alla presenza di Luca Cordero di Montezemolo e Piero Ferrari. Sarà forse l’unica mostra di questa tipologia, perché successivamente Ferrari potrebbe decidere di fare, nel museo, altri tipi di attività.
Come mai Pop Art nel ‘Museo Casa Enzo Ferrari’?
Perché sono icone affiancate ad icone, come ha detto Philippe Daverio nella sua introduzione. Puoi accostare Morandi a una chiesa, però se lo metti nel museo della Ferrari c’è troppo contrasto, l’opera di Morandi non ha molto a che fare con quella di Enzo Ferrari. Viceversa un’opera di Romero Britto, che ho conosciuto assieme ad altri artisti più giovani, o un’opera di Kaufman o di Roy Lichtenstein trovano vicino alle Ferrari e alle Mercedes da corsa una collocazione adeguata. In una chiesa non avrebbero molto senso, al di là delle eccezioni come quella dei ‘Dieci Comandamenti’ di Keith Haring.
Hai mai incontrato Steve Kaufman?
Purtroppo no; è scomparso prematuramente, nel 2010. Kaufman nasce negli anni Sessanta. A diciott’anni va a lavorare alla ‘factory’ di Andy Warhol, aiutando principalmente negli allestimenti e facendo l’assistente. Era giovane, veniva dal Bronx. Lavora per la ‘DC Comics’ e per la ‘Marvel Comics’, fa il fumettista, un suo grande amico era Stan Lee. Poi decide di trasferirsi a Los Angeles – la Los Angeles democratica, dove c’è il sole, fa caldo e le opere dipinte si asciugano molto prima. Miami, Los Angeles, New York: il triangolo degli artisti. New York che rimane comunque la patria della ‘Street Art’, e Los Angeles, prima conosciuta principalmente per la cinematografia, che cresce sempre di più come polo d’attrazione artistico e polo culturale e museale.
Che cosa hai visto negli Stati Uniti? Sono così diversi dall’Europa?
Molto. Non tutto quello che trovi negli Stati Uniti è positivo; è un mondo speciale, molto diverso dal nostro, e loro portano dentro di sé tutta questa specialità. Puoi prenderne certe cose, e devi dimenticarti di altre, perché sono distanti da noi. Ma una cosa ti posso dire: negli Stati Uniti hanno un modo di vivere il sogno che noi non c’immaginiamo, e che, se rimani per un certo periodo nella loro nazione, ti resta dentro. Se vivi assieme a loro, ti coinvolge, ti cambia. È quel ‘Sogno Americano’ che noi non abbiamo. Quel certo non so che e il ‘vivere alla giornata’, il non pensare al futuro – che è anche capacità di reagire quando le cose vanno male. In due anni, dal 2012 a oggi, ho visto l’economia statunitense ripartire dopo una crisi pesantissima – e noi siamo ancora qui al palo, ad aspettare. In Europa, in Italia, abbiamo una grandissima considerazione del risparmio; talvolta però è limitante, perché siamo incapaci di far girare il denaro che può far ripartire una nazione in crisi. Noi ‘mettiamo via’, ‘mettiamo via’, non ci fidiamo e abbiamo sempre paura; forse troppa. L’essere previdenti, di per sè, non è per niente una cosa negativa; però se leggi i libri di Steve Jobs, i suoi discorsi, o se leggi ‘La Legge di Attrazione’, capisci quanto diverso sia il pensiero americano dal nostro. Jobs anche nel momento in cui stava per cedere non l’ha fatto, è andato avanti, è tornato in Apple e ha vinto. Devi cercare di fare sempre così: non devi arrenderti, se incassi un ‘no’ troverai un’altra strada. Sconfitte ne avrai sempre; non ti devi abbattere.
Anche Steve Kaufman ha vissuto nel ‘sogno americano’?
La vita di Kaufman è stata particolare, ha una storia emozionante. Ho avuto modo di conoscere tutti i suoi eredi, e in una certa maniera ho avuto la fortuna di poter essere un punto di contatto fra loro, fra posizioni personali ed esperienze anche molto distanti. È stato molto coinvolgente, importante. Uomini, donne, amici; assistenti che avevano avuto grosse difficoltà nella vita e che sono riusciti a riemergere, o personaggi molto ricchi e allo stesso tempo desiderosi di finanziare le mostre e le occasioni d’incontro, di essere dei mecenati. Gli amici di Kaufman venuti dal Bronx; le opere di Keith Haring e la vita di strada. Un mondo molto diverso dal nostro: una società e una cultura diverse. Lo studio di Kaufman ti lascia a bocca aperta: c’è un’atmosfera incredibile, bellissima. Hanno lasciato quasi tutto così com’era al momento della sua morte, anche se ora si sta facendo un inventario delle opere rimaste, che andranno nelle gallerie; noi speriamo sia possibile trasformare questo studio in un museo, un museo che mantenga in esso lo spirito originale di Kaufman e che sia d’aiuto a giovani artisti che vogliano esprimersi. Un punto d’incontro, forse collegato ad una borsa di studio creata assieme all’Università di Los Angeles. Come avrebbe voluto lui.
Una Los Angeles ricca d’arte, quindi.
Dagli artisti di Pop Art, Los Angeles veniva vista come una città certo affascinante ma meno prestigiosa di altre; il prestigio, per un artista, era New York – come lo è per noi, per certi versi, Milano. A Los Angeles tutto era più lento, più tranquillo. Adesso questo è cambiato, e Los Angeles è diventata la seconda città per importanza negli Stati Uniti per gli artisti ‘di strada’. In periferia molte volte trovi la situazione che vedi nei film polizieschi, le gang, la criminalità, la pericolosità; la ‘downtown‘ . Però quella Los Angeles che vedi nei film – i palazzi del centro, i luoghi degli affari – la Los Angeles che in passato, la sera, era spesso vuota, priva di vita, adesso è un fiorire d’iniziative: si aprono gallerie d’arte, loft con esposizioni di quadri e di opere, ci sono molte occasioni di cultura e d’incontro.
Come ti dicevo nel mio viaggio negli Stati Uniti ho incontrato due degli artisti dei quali ho esposto le opere a Modena, Barton Morris e Romero Britto, e ho potuto incontrare anche ‘Mr. Brainwash’, Thierry Guetta. Chi è appassionato di Pop Art e Street Art, che è una delle forme d’espressione della Pop Art, deve assolutamente vedere le sue opere. ‘Exit through the Gift Shop’, un documentario su Banksy, da lui approvato e al quale ha contribuito.
https://www.youtube.com/watch?v=b-epHjOEPjA
Banksy realizza delle opere di nascosto, prevalentemente in Inghilterra a Londra ma anche negli States, e nessuno sa quando, dove e chi realmente lui sia, anche se ci sono delle attribuzioni. O forse non esiste neppure, Banksy, e si tratta di un gruppo di artisti.
Sono cose bellissime. È affascinante.
Banksy usa come simbolo il ratto. È un artista britannico; il topolino che dipingeva esponeva un cartello o un oggetto sul quale c’era un messaggio – dava delle opinioni, mandava un messaggio sociale. Ora non c’è più solo il topolino, c’è un’organizzazione di grandi proporzioni dietro alle installazioni che i writers e gli artisti di strada realizzano; le municipalità delle città coinvolte sanno e lasciano fare. I Murales di Los Angeles sono alti dieci metri e anche più: è impossibile credere che la polizia non sappia. Il sindaco, la polizia, sanno e lasciano fare, perché sono opere d’arte. Banksy, Shepard Ferrey, Mr. Brainwash. Giornate intere di lavoro. Shepard Ferrey è molto noto per l’opera fatta durante la campagna elettorale di Obama.
Ed Andy Warhol? Devo confessarti che non so cosa sia la ‘Campell Soup’.
Negli Stati Uniti, se entri in un supermercato non trovi la salsa Knorr ma trovi la ‘Campbell Soup’. Grazie ad Andy Warhol è diventata un’icona; è conosciuta in tutto il mondo, ma solo grazie a lui.
È così che nasce la Pop Art: la Pop Art è prendere un oggetto o una persona simbolo di qualcosa, come può essere Marylin Monroe o la ‘Campell Soup’, o un’automobile come la Ferrari, o qualsiasi cosa, e riprodurla in serie facendola diventare arte. Andy Warhol usava attorniarsi di personaggi ricchissimi, gli piaceva creare attorno a sé una ‘scenografia da attore’, più che da pittore. Aveva la sua ‘Factory’, a New York; ci invitava Liza Minnelli, e i più grandi attori di Hollywood, i V.I.P., con i quali festeggiava allo ‘Studio 54’ di Steve Rubble . Kaufman diciottenne entrava, dipingeva a tema sulla serata e andava via, senza essere neppure invitato alla festa; i V.I.P. acclamavano le opere come se fossero di Warhol, e invece erano del ragazzo che se n’era appena andato. Forse, Warhol i quadri neppure li toccava: dava l’idea, e gli assistenti facevano poi tutto.
Cos’ha fatto Mr. Brainwash? Siccome è uno ‘street artist’, ha trasformato la Campell Soup in spray.
È una presa in giro, ma è fantastica come idea. Ecco, io ho cercato di vedere molti di questi luoghi in cui gli ‘street artist’ hanno lasciato le loro opere.
‘Enjoy the present’; fermati un attimo, metti giù il telefonino e smetti di correre.
Cose fatte per strada, per renderle ‘pop’ – fruibili a tutti. Anche se poi non è del tutto vero che queste opere diventino alla portata di tutti, molti artisti provano comunque a farlo. Dicono che Banksy sia entrato nella stazione di servizio di un benzinaio di Hollywood, di sera e a sua insaputa, e abbia realizzato una sua opera su una parete. E che poi il benzinaio, siccome si trattava di un muro di sua proprietà, l’abbia fatta tagliare e mettere all’asta, vendendola. E che abbia fatto un’altra cosa pazza: che abbia fatto sedere un vecchietto in Central Park, a New York, con un certo numero di quadri suoi. Perfetti. La gente passava, e molti si accorgevano che si trattava di opere di Banksy, tanti conoscono i suoi lavori; quasi nessuno li comprava, però, perché pensavano fossero copie fatte dal vecchietto o trovate da lui chissà dove, e neanche di buona qualità. Qualcuno, però, li ha presi lo stesso – a qualche acquirente piaceva l’opera, non era interessato al fatto che fosse una copia piuttosto che l’originale. E tre giorni dopo, attraverso annunci largamente diffusi sui media, si poteva leggere: ‘Banksy ha fatto uno scherzo, ha venduto qualche suo quadro a 60 dollari: chi è stato fortunato, o intelligente, sappia di aver acquistato per 60 dollari un’opera valutata qualche migliaio’. La vecchia signora che non era interessata ad avere un pezzo originale ma voleva fare un bel regalo alla nipote, o l’impiegato al quale piaceva la Pop Art; attraverso queste persone e questo gesto Banksy ha voluto far capire che non vende per investimento o per una speculazione, ma che l’arte deve essere a disposizione di tutti. Ed è la verità, perché un Picasso, un Monet, un Miro o qualsiasi opera di quel genere non te la puoi comprare, nessuno può ammirarla da vicino o averla a casa sua.
Adesso la ‘factory’ d’arte è un po’ di moda, sono pochi gli artisti che lavorano da soli: artisti come Damien Hirst e Jeff Koons danno spesso solo l’idea – poi lo staff esegue tutta l’opera. Chi compra le loro opere compra qualcosa che l’artista non ha mai toccato o forse ha solo firmato. Steve Kaufman aveva basato la sua vita sulla capacità di utilizzare la propria manualità, personalità e magia aiutando gli altri, essendo vicino al prossimo.
Alberto, come ti sei avvicinato al mondo dell’arte?
Mio nonno viveva la sua vita praticamente in tre luoghi del mondo: viaggiava fra Trieste, Vienna e Toronto. Nei periodi in cui si trovava in America, si spostava, visitava New York, Los Angeles – e andava a vedere le mostre, le gallerie d’arte. Negli anni attorno al 1970. Confrontandosi con gli amici e le persone che conosceva, ne ascoltava i suggerimenti, e acquistava a poco prezzo opere di artisti poco conosciuti o emergenti. Ricordo delle litografie di Warhol che nessuno voleva, oppure qui a Trieste delle piccole opere di Spazzal e Music. Il nonno frequentava la casa d’aste ‘Stadion’; creava delle piccole collezioni che poi portava qui a Trieste e ci mostrava, ma noi non ci capivamo più di tanto, da ragazzi; l’arte non inizialmente m’interessava, da nessun punto di vista.
Collezioni d’arte.
Esatto. In un primo momento era solo questo – collezioni. Mi piaceva collezionare le cose, fin da bambino; mio padre e mia madre viaggiavano e io gli chiedevo di portarmi una lattina di Coca Cola, per la mia collezione. Collezionavo anche monete.
Ascoltando mio nonno e guardando le cose che mi mostrava, mi rendevo conto che riusciva a riscuotere successo e otteneva interesse, in Austria o in altri paesi, anche per opere che aveva preso dieci anni prima quando erano completamente sconosciute. Mi chiedevo: ‘Ma com’è possibile?’, e chiedevo la stessa cosa al nonno; lui mi rispondeva che nella vita bisogna fare un po’ di tutto, lavoro, investimento personale nello studio … e anche un po’ d’arte. L’arte è un investimento sul lungo periodo, che però, durante quello stesso periodo, ti da’ il piacere di averla in casa. Gustav Klimt , per esempio. Di Klimt mio nonno aveva comperato una china, poi rivenduta. Oggi, quella china l’ho rivista passare per cifre molto grandi, e ti posso assicurare che era proprio quella, perché ricordo le copie dei certificati d’autenticità. Chi avrebbe potuto immaginare che un Klimt avrebbe accresciuto tanto il suo valore? Un set ‘Campbell Soup’ di Warhol aveva all’epoca un valore di settecento, mille dollari: ora una ‘Campell Soup’ singola viene venduta da chi la possiede a quindici milioni.
L’arte è comunque un mercato; anche se cerchi di essere veramente ‘pop’, e di realizzare qualcosa di dedicato al popolo, questa situazione potrà essere così all’inizio ma niente potrà impedire poi al mercato di rivalutarla e di trasformarla in qualcosa di molto costoso, al di là delle intenzioni dell’artista.
Gradatamente, mi sono appassionato a queste opere non solo da un punto di vista di collezione. Conosco, qui a Trieste, famiglie molto vicine all’arte, e altri titolari di case d’arte. Una di queste famiglie aveva organizzato la prima mostra di Picasso a Trieste, nel 1975, è una notizia che pochi conoscono; successivamente aveva ospitato grandi artisti, come Emilio Vedova , o Agostino Bonalumi . Artisti quotati. Picasso, come artista, non è necessario che te lo menzioni. La nostra conoscenza all’inizio era stata casuale, poi in alcuni casi ci eravamo incontrati per motivi più specifici e i miei quadri erano stati notati; discorrendo, avevo detto che mi sarebbe piaciuto, nella vita, acquistare qualcosa di bello come investimento personale – un Picasso originale è impossibile da comperare, ma mi sarebbe piaciuto avere una sua acquatinta, o una litografia. Mi avevano detto: ‘Guarda, abbiamo otto o nove litografie originali molto interessanti provenienti proprio dalla nostra mostra’. È molto importante, nel mercato dell’arte, conoscere con certezza la provenienza dell’opera e ottenere i certificati d’autenticità; ci sono moltissimi falsi, anche di elevatissima qualità, e nuove tecniche di duplicazione e invecchiamento, e chi non è esperto può ritrovarsi facilmente preda di una truffa. Dopo questi colloqui avevo acquistato un Picasso, per una cifra comunque impegnativa ma non così elevata.
Da quel momento, penso proprio grazie al contatto con queste famiglie, ho iniziato a provare sempre più interesse e passione per l’arte al di là dell’aspetto puramente economico; loro avevano grandissima esperienza, io avevo appena finito il mio dottorato universitario e trascorrevo interi pomeriggi ad ascoltarli, a sentire come parlavano delle opere e delle mostre, come colloquiavano con le case d’aste e con le gallerie. C’era stata per un momento l’intenzione di aprire una galleria d’arte, a Vienna, ma non mi ero sentito sicuro; in questo genere di cose devi fare con calma, devi sentire di aver accumulato il bagaglio di conoscenze necessario, non puoi semplicemente buttarti, improvvisare.
Che cosa ricordi di più, di quel periodo?
Una cosa molto importante: “L’arte è prima di tutto un piacere; è anche un investimento, però se devi comprare qualcosa – compra qualcosa che ti piace”. Non scordo questo loro consiglio. Non prendere una litografia di Picasso perché sai che è un ottimo investimento; certo che lo è, però se ti piace di più Andy Warhol, prendi Andy Warhol. A qualsiasi livello – non sto parlando solo di investimenti elevati. Almeno, questo è quello che penso io. Ci sono collezionisti d’arte che comprano opere che poi chiudono in un armadio a prova di luce e in atmosfera controllata. Opere che non guardano mai e che nessuno vedrà. Anch’io sono un collezionista e non certo un artista, ma credo che sia bello provare piacere nel guardare la tua opera. Se hai una cosa bella, almeno guardala … anche se all’inizio era stato proprio l’idea dell’investimento a farmi avvicinare all’arte, da molto tempo non amo più la filosofia dell’investimento puro fine a se stesso. Filosofie diverse, certo. E d’altra parte questo lo vedo bene, lo sento molto forte, perché difficilmente riesco a vendere qualcosa: entra a far parte di me, parte della mia vita, ogni giorno un mio quadro mi regala delle emozioni e non me ne voglio separare. Sai, forse adesso anche la mia collezione di lattine vale abbastanza; è una cosa mia, però.
Quindi le collezioni d’arte hanno fatto emergere in te una passione vera. Una passione per l’arte.
Si. Non sono mai diventato un pittore, o un disegnatore, non ho provato, non so se ne sono capace ma credo proprio di no. Poco a poco però gli incontri con i collezionisti, con l’arte, mi hanno trasmesso una passione che mi ha spinto a fare molte ricerche. Quando vedevo i quadri di mio nonno mi informavo su chi fosse l’artista, su quale storia avesse avuto. Come dipingeva? Che cosa faceva?
Con gli artisti che hai incontrato hai stabilito un rapporto personale, ormai.
Un rapporto personale molto bello e importantissimo. Anche in questo mio nonno mi ha insegnato molto; teneva una fitta corrispondenza con Leonor Fini , artista argentina che ha vissuto anche qui a Trieste. Con Guttuso.
Ecco, se dovessi identificare una mia capacità, è certamente quella di saper organizzare, di mandare avanti le cose. Non mi blocco, e porto al termine i progetti, le idee. Quando mi fisso su una cosa vado avanti. Ma: artista no. (sorride)
Fino ad arrivare a Steve Kaufman, che è il tuo preferito.
Si. Mi piace la sua arte; mi piace la sua storia. Il contatto con i suoi collaboratori, con i suoi assistenti e i suoi amici.
La tua mostra ha portato a Trieste qualcosa di diverso; aveva una luce nuova, era meno tradizionale del solito. Hai portato dagli Stati Uniti un po’ di quella ‘capacità imprenditoriale’ e del ‘non arrendersi’?
A Trieste abbiamo fatto 13.500 visitatori in quaranta giorni, italiani e stranieri. Abbiamo cercato di fare qualcosa di diverso, come dici tu. Sullo stile americano e, un poco, dedicato ai giovani. È Pop Art. Di solito vai alla mostra che inaugurano, c’è il Vernissage, prendi un aperitivo e mangi un pasticcino ascoltando un discorso… qui abbiamo voluto cambiare.
E avevamo un po’ di tutto: la radio, il Deejay, la festa, i visitatori in giacca e cravatta, la presentazione di Vittorio Sgarbi ma non in forma di discorso, i visitatori attirati dalla preparazione e dalla cultura, i semplici curiosi che volevano vedere qualcosa di nuovo e i giovani in ciabatte e maglietta. Ed è giusto così, è quello che volevamo. Warhol è indubbiamente il padre; forse, però, è diventato un po’ monotono, si è visto talmente tanto di suo – vai a vederlo, forse, perché è un ‘dato di fatto’ – è Warhol; abbiamo quindi affiancato altre cose. Piene di colori. Icone messe in un modo diverso.
Pensi che la mostra possa diventare un evento ricorrente?
Mi piacerebbe molto. È questo a cui punto, a cui sto lavorando. La cosa più importante è che non deve essere una cosa di nicchia, ma di richiamo per tutti e aperta a tutti. Che possa muovere molte realtà, che richiami interesse a più livelli.
È possibile, quindi? Solo con il contributo degli sponsor, senza contributi pubblici?
È possibile. Questa prima mostra di Pop Art che abbiamo fatto, o di ‘neo Pop Art’ più correttamente, era un banco di prova, anche per me; ora però sono sicuro che si può fare, e la mostra verrà proposta in molte altre città, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti: abbiamo iniziato con Modena e proseguiremo, con un calendario a lungo termine. E fare così non solo è possibile, ma è apprezzato, è qualcosa di nuovo; se vuoi regalare alla città qualcosa di diverso e se ci credi, lo puoi fare, anche senza volerci guadagnare. Utilizzando Internet, Facebook, i ‘social network’. Lo testimoniano il successo della mostra e i moltissimi messaggi di apprezzamento ricevuti. E se dovessi rifare la mostra, la rifarei di nuovo ad agosto. Non l’avrei mai immaginato, eppure è stato il mese perfetto. Dobbiamo avere, però, un po’ di coraggio e aprirci: vogliamo essere una città internazionale, avere un pubblico diverso? Allora dobbiamo fare ancora di più, non chiuderci su noi stessi.
La Pop Art nasce come arte non di nicchia, come ‘arte vicina al popolo’. Kaufman era un artista molto generoso; affiancava, spesso, al suo quadro originale – al suo pezzo unico – edizioni limitate di cinquanta, sessanta pezzi dedicate a un pubblico più vasto. Edizioni che comunque lui ritoccava – quelle opere, pur riprodotte, erano comunque toccate dall’artista. Aveva destinato cinque milioni di dollari, nel corso della sua vita, alla beneficenza. La fondazione ‘Give kids a break’ – ‘Date ai ragazzi una pausa, un respiro’ – l’iniziativa creata da Kaufman a scopo di beneficenza – è rimasta in vita anche dopo la sua morte. Siamo in stretto contatto. Vorremmo continuare sulla strada che lui avrebbe voluto, continuare anche con quelle opere di beneficenza importanti. A Trieste, non potendo ancora appoggiarci a ‘Give kids a break’, abbiamo collaborato con la Fondazione ‘Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin’.
Per me, non è un lavoro. E non voglio neppure trasformalo in qualcosa di professionale, o fatto per guadagnare – mi basta avere il modo di fare beneficenza. Certo, c’è bisogno degli sponsor. E, per avere una mostra di opere importanti – anche le cifre in denaro, per il trasporto, per l’allestimento, l’assicurazione e la pubblicità diventano importanti. Ma non è il desiderio di guadagno a farmi muovere nell’arte. È molto di più, è un modo per coltivare la mia passione e viverla pienamente.
Una sfida continua, questa tua passione.
Una sfida continua che mi spinge a pensare continuamente, a cercare di immaginare chi ci sarà fra qualche anno, che cosa inventeranno, cosa porteremo nelle mostre. Come Lucio Fontana : il taglio, nella sua opera, era un ‘andare oltre la tela’, rappresentava in modo nuovo lo ‘spazio per andare oltre’.
È quello che voglio provare a fare.
Roberto Srelz © centoParole Magazine – riproduzione riservata
foto da ‘Icons of Pop Art: Then and Now’ di Trieste e Modena: Giuseppe Galati Garitta e Roberto Srelz
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