A dieci anni dalla sua morte, il Centro Pompidou di Parigi rivive 70 anni di carriera del fotografo Henri Cartier-Bresson. Fino al 9 giugno è stata allestita una retrospettiva al fotografo francese attraverso una collezione composta da fotografie, documenti e film. Henri Cartier-Bresson, considerato pioniere del foto-giornalismo ha contribuito a portare la fotografia surrealista ad un pubblico più ampio. Nasce a Chanteloup-en-Brie nel 1908 da una ricca famiglia di industriali tessili. Fin dalla giovane età Henri fu studente disordinato e creativo con una spiccata passione per la pittura, ereditata da uno zio di famiglia. Dopo gli studi giovanili comincerà ad avvicinarsi a personalità quali Jaques- Emile Blanche e Andrè Lhote, che lo introdurranno all’ambiente dei surrealisti francesi. Ma solo nel 1931, dopo il suo primo viaggio in Costa d’Avorio nascerà in lui l’interesse per la fotografia. L’anno successivo acquista la sua prima macchina fotografica. La scelta ricade su una macchina più leggera e maneggevole della reflex, di quelle di medio formato, una Leica 35 mm con lente 50 mm che lo accompagnerà nella sua continua ricerca dell’immortalità dell’ attimo. La definisce così : “ La mia Leica è letteralmente il prolungamento del mio occhio, il modo in cui la tengo in mano, stretta sulla fronte,il suo segno quando sposto lo sguardo da una parte all’altra, mi dà l’impressione di essere l’arbitro di una partita che si svolge davanti agli occhi, di cui coglierò l’atmosfera al centesimo secondo.” Per Bresson la realtà tangibile non è altro che “ Un diluvio caotico di elementi, in cui il riconoscimento simultaneo in una frazione di secondo dell’importanza dell’evento così come l’organizzazione precisa delle forme, da a quell’evento la relativa espressione adeguata..”. La pagina on-line del museo dedicata alla sua mostra reca questa didascalia : ″Photographier c’est mettre sur la même ligne de mire la tête, l’oeil et le coeur ″ . Che tradotto significa: “ Fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore ″.
Attraverso questa filosofia si può percepire come la sua volontà, sia quella di voler riportare un punto di vista subitaneo in modo da avvicinarsi nel maggior modo possibile alla percezione del nostro occhio e della nostra mente. Rimprovera l’uomo per la distrazione a cui è sempre stato abituato in un modo in continuo cambiamento. Sostiene che “Siamo spesso troppo passivi davanti ad un mondo che si muove e il nostro unico momento di creazione è il 1/25° di secondo in cui pigiamo il pulsante, l’attimo di oscillazione in cui cala la mannaia..”. Nella sua ottica di riflessione siamo quindi paragonabili a dei “tiratori che sparano una fucilata.” Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, i suoi soggetti non siano mai ritratti in posa, essi non fanno caso all’obbiettivo. Sono rapiti da quei gesti di nuda quotidianità che l’impegnano giorno dopo giorno. Rare sono le eccezioni, nel caso in cui ciò avvenga il gesto diviene naturale, quasi spontaneo. Spesso le composizioni si sviluppano in linea verticale, quelle in linea orizzontale invece servono a dare spazio allo sguardo di ci chi viene rappresentato come a volerci lasciare intendere il flusso di pensieri che lo attraversa. Con grande attenzione a ciò e chi nei suoi scatti viene rappresentato, dichiara: “É sempre una piccola violenza mettere qualcuno sotto l’occhio vitreo della macchina fotografica. Bisogna farlo con eleganza…senza ferire.” Pretendeva che le sue fotografie fossero pubblicate esattamente come da lui consegnate all’editore così come le didascalie minimali con un aspetto meramente informativo. Recano la città in cui sono state scattate, l’anno dello scatto e la nazione. Voleva che le foto parlassero da sé, non permettendo “ Che delle persone sedute dietro ad una scrivania” aggiungessero cose che non avevano visto. Per lui le immagini non avevano bisogno di parole o di un testo che le esplicasse. Diceva infatti: “Sono mute, perché devono parlare al cuore e agli occhi.” Si spegne il 3 agosto 2004, maestro indiscusso della fotografia surrealista che con i suoi scatti è riuscito a fissare l’eternità in un attimo. Un uomo che ha saputo osservare lì dove gli altri sono riusciti solo a vedere.
Valeria Morterra © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Valeria Morterra nasce a Trieste nel 1994. Coltiva la sua passione per letteratura, arte e cultura in genere. Trascorre la sua infanzia a Monfalcone (Gorizia) dove consegue il diploma di scuola superiore presso il Liceo Scientifico “Michelangelo Buonarroti”. Partecipa a diversi concorsi letterari, in quello in memoria della professoressa Susanna Germano riceve una segnalazione come miglior testo in gara. Frequenta un corso di scrittura creativa presso il Centro Giovani di Monfalcone e pubblica lo scritto: “Foglie”.Nel 2012 si trasferisce a Trieste, dove rimane ammaliata dai frenetici ritmi della città. Animo randagio, visita: Oslo, Copenaghen, Barcellona, Praga, Roma, Vienna, Parigi, Londra, Berlino, St.Pietroburgo, Stoccolma, Estonia, Lettonia, Lituania. Amante della cinematografia si appassiona ai lavori di Fellini, Woody Allen, Kubrick e cinematografia francese.
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