Cammino trafelato verso il cafè dove Davide ed io ci siamo dati appuntamento per l’intervista, maledicendo il giorno in cui ho accettato dalla redazione l’incarico di scriverla. E non certo per Davide Maria Palusa, che nei contatti che abbiamo avuto precedentemente per concordare questa chiacchierata si è già dimostrato una persona gentilissima; borbotto un po’ fra me e me, piuttosto, perché le interviste sono proprio una cosa che non so fare.
Mentre mi affretto, faccio mente locale sulle informazioni che ho raccolto, e penso soprattutto alle immagini del suo portfolio, a quelle che mi hanno colpito. Penso soprattutto alla fotografia che si è conquistata maggiore notorietà per l’essere stata selezionata come immagine della rassegna triestina “Artefatto” – rassegna espositiva dedicata ai giovani artisti contemporanei europei. Due mani che si stringono, coperte come sono coperti i corpi a cui appartengono, di pittura gialla e blu; un’immagine scelta attraverso un concorso. ‘Partirò da qui’, penso sbuffando, perché mi pare un inizio da parte mia banale.
Davide ed io ci salutiamo e ci sediamo, poi, davanti a due caffè, iniziamo a chiacchierare. Come preventivato la prima domanda che gli pongo è sulla foto che ha tappezzato la città sui manifesti di “Artefatto 2014”, o meglio sulla evidente differenza che c’è fra quella foto e quelle dei progetti che ho sfogliato sul suo sito. Mentre questi ultimi sono una evidente sua esplorazione di materiali e precisa ricerca di un significato da costruire e non lasciare alla casualità dell’osservazione attraverso il bianco e nero, i colori tenui e una certa leggerezza, le due mani che si stringono, coperte, come i corpi a cui appartengono, di vernice gialla e blu, sono ben più che esplosive e luminose.
Davide mi spiega e chiarisce subito il senso di quell’immagine, facendomi notare che la vernice fresca si mescola nelle mani che si stringono, cola e gocciola in un bel color verde. L’idea mi appare bella, e glielo dico, seppur con una nota sospesa tra autoironia e tristezza perché il mio daltonismo mi ha negato la percezione di questo dettaglio che dà senso a tutto il lavoro. Glielo racconto, e lui trova il mio daltonismo una cosa affascinante e me lo dice a sua volta con una semplicità e una genuinità che mi rincuorano. La possibilità di vedere il mondo con occhi diversi dagli altri per lui è una opportunità di giocare con nuove regole.
La parola “gioco“ ricorre spesso nella nostra chiacchierata ed è per Davide è molto importante. Mi racconta di come per lui la possibilità di sperimentare con strumenti, corpo, spazi, e talvolta anche con la memoria, sia divertente, e di come cerchi di evitare di rendere le cose eccessivamente serie. Quando gli chiedo se si sia sentito stretto nel tema che ha dovuto affrontare (e che non ha scelto) per sviluppare la foto dei manifesti di “Artefatto”, lui mi spiazza togliendo via dal tavolo ogni residua possibilità che venga tirato in ballo lo stereotipo dell’artista che si sente costretto dai vincoli e dalle regole. Non ha alcuna esitazione a dirmi che preferisce avere dei paletti entro cui lavorare, che gli rendono le cose più facili mettendo le briglie alla propria creatività, creatività che altrimenti potrebbe andare in tutte le direzioni esplorandone tutte le sfumature.
Insieme sfogliamo il suo portfolio e le gallerie tematiche dei suoi lavori. È un entusiasta, e di un entusiasmo contagioso. Scorrendo gallerie di progetti specifici come #99ccff o mutations commenta e descrive nel primo caso immagini di un corpo avvolto e stretto nel cellophane, e nel secondo collage di parti del corpo (il suo) combinate e reinventate in modo tale da diventare sempre più materiche e meno riconducibili all’appartenenza al corpo. Davide mi anticipa nella mia domanda: non c’è nulla di Dark o addirittura drammatico nelle immagini che fa scorrere sotto i miei occhi. Le osservo ancora e capisco meglio il suo raccontarmi di come siano esplorazione divertita dello spazio e di sé, della sua fisicità. Il corpo avvolto nel cellophane non si dibatte spaventato, ma misura con movimenti incuriositi la forma dello spazio in cui si ritrova. E in “Mutations” comprendo cosa scrive nella presentazione della galleria, sul suo, sito Costanza Blaskovic: “Come sarebbe se tutti noi avessimo lunghe braccia pelose al posto del collo? E se esistessero forme di vita composte di sole braccia? Quanto sarebbe scomodo avere un busto-braccio? Davide Maria Palusa ha deciso che, di tanto in tanto, può continuare a giocare ponendosi quesiti di questo tipo, producendo così ‘infinite visioni che, però, nascono tutte dallo stesso corpo’, il Suo.”
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Scorrendo le fotografie Davide racconta di come osservazioni non coerenti con quello che pensa di sé, o critiche, non lo disturbino affatto, poiché a lui interessa smuovere qualcosa nell’osservatore, senza che questo debba essere coerente con la sua narrazione.
Ed è facendo scorrere sotto i miei occhi le foto raccolte in “Essenza” che continuiamo: immagini di corpi completamente sfocati, probabilmente vestiti degli abiti della normalità, trasfigurati e ridotti appunto all’essenza. Parenti e amici che si sono prestati (cane compreso) ad essere immortalati vengono sfocati fino ad essere irriconoscibili. Ma non per Davide; lui ha ben chiaro chi siano e il loro senso e peso nella sua vita. Tutta la sua vita familiare sembra essere densamente partecipe delle sue opere. Mi racconta divertito di come ami ascoltare, non riconosciuto, pareri, commenti e critiche di chi percorre una sua mostra. Per Davide Maria Palusa una fotografia deve far scattare qualcosa in chi guarda, emozionare: è la “conditio sine qua non” del suo percorso artistico.
L’altra condizione irrinunciabile è la figura umana. A riprova di questo, mi fa vedere le foto slegate da specifici progetti. Sono eterogenee e sempre e comunque piene di voglia di giocare con la realtà o di testimoniarne il suo essere divertente. Me le fa vedere dai primi scatti in poi, ed effettivamente mi balza agli occhi di come le prime foto, sbilanciate su una ricerca di linee e forme, siano prive di figure umane, per poi vederne apparire alcune, che prendono pian piano sempre più importanza sino a impossessarsi completamente della scena. Con netta semplicità mi dice che una qualsiasi bellissima foto, per quanto tale, non riesce a comunicargli quanto può fare una fotografia in cui la figura umana sia presente. L’essere umano, pare dirmi, caratterizza e dà senso allo spazio, al contesto.
Un altro tra i miei cavalli di battaglia fra le domande scontate è quali sono i suoi fotografi preferiti che, in qualche misura, possono aver contribuito alla sua formazione.La risposta si collega perfettamente ad un punto che abbiamo toccato in precedenza, quando mi racconta del set per una esposizione di sue fotografie, accompagnate ad oggetti, in spazi che diventano più installazione che mera esposizione fotografica. “Molti mi dicono che io non sono in realtà un vero fotografo, e io non posso che dargli ragione”, dice con tranquilla semplicità.
Il nome che salta fuori alla mia banalissima domanda è tutt’altro che banale: David LaChapelle. Più un regista, un produttore come nella sua produzione fotografica, che fotografo vero e proprio. Davide ama l’idea che ci possano volere tempo e mezzi ingenti per realizzare uno scatto, con la costruzione di set estremamente complessi ed impegnativi.
“Più un regista che un fotografo. a volte non è nemmeno lui che preme il tasto di scatto sulla macchina fotografica”, mi racconta. Lo collego alla sua passione e pazienza nella creazione dei set, nell’attesa del momento buono (come si nota in una sua foto del portfolio misto, che mi dice essere frutto di più di sei ore di appostamento a cercare un fulmine che si incastrasse nell’inquadratura, o meglio che partecipasse al suo gioco.
“Gioco” è una parola che ci accompagna dall’inizio alla fine di quella che doveva essere una intervista e invece è diventata una chiacchierata entusiasta. Resto ad ascoltare, con un po’ di rimorso per non essere riuscito a vederla, l’istallazione al cui centro c’è una sua foto: una deframmentazione di un viso, esplorato, rimescolato e reinventato come fosse un gioco a incastri, fatto con dei cubi come quelli con cui da bambini un po’ tutti ci divertivamo a creare forme e disegno. Li lascia ai piedi della foto, chiedendo, invitando l’osservatore a cercare di riprodurre la composizione di partenza.
Decisamente Davide non gioca per vincere ma per il piacere di esplorare. E l’entusiasmo con cui si racconta è appunto di chi ama condividere piuttosto che mantenere vincolato dal possesso. E a sentire così spesso aleggiare su di noi questa parola non posso non farmi venire in mente l’immagine dei bambini che giocano. Davide potrebbe essere, volendo fare un paragone, il bambino che porta il pallone in piazza e lo divide con gli altri, a volte standosene per un po’ in disparte; di certo non sarebbe mai il bambino che il pallone lo tiene per sé palleggiando contro il muro, isolato nella ossessiva ripetizione del gesto di calciare, di scattare una foto perfetta.
Per info: www.davidemariapalusa.com / www.facebook.com/diempiart
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