Franco Però: il direttore del Politeama Rossetti si racconta

Politeama RossettiFranco Però, regista diplomatosi all’Accademia d’Arte Drammatica di Trieste, si è occupato di regie di prosa e lirica; ha lavorato con grandi nomi del panorama teatrale, e dall’ottobre del 2014 ricopre il ruolo di direttore del Politeama Rossetti di Trieste.

Lei ha fatto l’Istituto Nautico; cosa l’ha portata poi ad iscriversi all’’Accademia d’Arte Drammatica di Trieste?

Ho cominciato a studiare musica verso la fine dell’Istituto nautico; avevo messo su anche un complesso di musica antica. Prima di imbarcarmi su una petroliera mi sono iscritto all’Università, alla facoltà di lettere con indirizzo storico-artistico e poi al corso di teatro. Evidentemente mi mancava la parte “artistica” (sorride).
Mi sono iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica di Trieste, l’unica in regione – a quel tempo non c’era ancora quella di Nico Pepe di Udine.
I corsi si facevano alla scuola Bergamas, in via dell’Istria, dove insegnavano Spiro Dalla Porta Xydias e Ugo Amodeo. Come sempre, anche in questa scuola non c’era un corso di regia e così mi sono iscritto al corso di recitazione, come allievo attore. Quando ho finito ho dovuto scegliere tra l’andare insegnare storia dell’arte, navigare o entrare in teatro. Io ho scelto il teatro.

Ma lei già da subito sapeva che voleva fare il regista?

No, assolutamente; mi piaceva il teatro ed ho cominciato a recitare come tanti. Il mio primo lavoro ufficiale, da professionista, è stato al Teatro Stabile di Trieste. A quell’epoca esisteva ancora il decentramento: si andava in Friuli e in Istria.
Ho iniziato con la commedia dell’arte e il mio primo lavoro è stato con Nico Pepe. L’anno dopo sono andato allo Stabile di Torino, ma ho capito che il teatro mi piaceva più guardarlo da dietro, con gli occhi del regista, che con quelli dell’attore.
Ero indeciso e durante i due anni come militare di marina ho maturato la decisione di fare il regista. Con i contatti che avevo, ho cominciato a chiamare i produttori. Ho “ricominciato” la carriera facendo il suggeritore, il direttore di scena anche al Teatro Verdi, l’assistente alla regia: tutti ruoli che mi tenevano nel palcoscenico, ma fuori del palcoscenico.
IFranco Però. Foto di Tommaso Le Peral primo vero incarico come assistente alla regia è stato con Franco Enriquez, uno dei registi importanti dell’epoca.

Poi è arrivato anche Gabriele Lavia…

Sì, ma prima c’è stato Giorgio Pressburger. Con lui ho iniziato come suggeritore e poi lui gentilmente mi ha nominato assistente.
Ma il primo vero e proprio ruolo di assistente è arrivato grazie ad Aldo Trionfo, che ho avuto modo di incontrare più volte. Lui è stato una persona importante per me. Lavorava con la compagnia dei Teatri Associati dell’Emilia Romagna che l’anno dopo doveva realizzare “Il Gabbiano” di Lavia. Lavia aveva perso l’assistente e così avevano proposto me. Da lì è nata questa collaborazione con Gabriele che è durata tre-quattro anni.

Cosa ha imparato da Lavia?

Tantissime cose tecniche. Gabriele è bravissimo sia come attore che come regista; lui nasce come attore, e quindi, da una parte, ha una conoscenza dei meccanismi del teatro, del recitare, dell’attore, dall’altra ha un enorme interesse per le cose tecniche, come l’illuminazione, la scena, i costumi e l’immagine.
Qualcuno può dire che queste sono cose esteriori, ma in realtà non lo sono affatto, non costituiscono una confezione. Tanti pensano che i costumi, la scena, lo spazio e le luci non siano fondamentali, ma allora perché non recitare un pezzo nudi e senza luci? La luce se va in una determinata direzione dice una cosa, se viene da una parte diversa ne dice un’altra; mentre il costume racconta il personaggio. Se la scena è fatta con le luci, racconta uno spazio, lo spazio dev’essere raccontato. L’attenzione per tutte queste cose mi è stata insegnata da Lavia. Possono sembrare meno importanti, quasi collaterali, ma invece sono fondamentali. Mi ha insegnato molto anche sui rapporti in scena tra gli attori.
Poi ci siamo un po’ divisi; probabilmente all’inizio uno va sempre contro quello che gli viene insegnato e così io mi sono spinto verso un teatro minimalista, legato agli artisti contemporanei, alla drammaturgia anglosassone tedesca e americana. Quindi a testi molto idealisti, un po’ lontani da quelli che portava Gabriele.

Ritornando all’Accademia d’Arte Drammatica di Trieste, com’era Spiro della Porta Xydias?

C’erano due mondi dentro la scuola di Trieste: c’era Ugo Amodeo e c’era Spiro. Ugo Amodeo era la Rai, quindi la voce. L’unica cosa che facevo discretamente bene e che mi piaceva tantissimo era il mimo, il movimento, perciò ho lavorato più con Spiro che con Amodeo.
Tant’è che, dopo aver deciso di ricominciare con il teatro, una delle cose che volevo fare era quella di frequentare la scuola di mimo di Jacques Lecoq in Francia.
Nico Pepe mi distolse da questo pensiero: un giorno, quando lo andai a trovare – avevo lavorato con lui, ma non lo vedevo da anni – gli raccontai di questa mia idea, dicendogli che volevo imparare i gesti di Marcel Marceau, di Lecoq.
Mentre eravamo seduti al tavolino di casa sua mi disse: “Vuoi un caffè?” e io risposi: “Sì, come no, grazie”. Tra una chiacchiera e l’altra, sua moglie ci portò il caffè e lui mi chiese se volevo un po’ di zucchero, e io gli risposi di sì. “E quanto zucchero vuoi” – mi domandò Pepe – “Due cucchiaini”, risposi. Intanto parlavamo e lui mescolava il mio caffè, ma quando me lo diede e io lo assaggiai mi accorsi che il caffè era amaro: “Vedi, io non ho fatto nessuna scuola di mimo e siamo qua e ti ho fregato”. Così avevo capito che se volevo fare il mimo allora certamente dovevo andare in Francia, ma se invece volevo imparare ad usare il corpo, potevo restare qua. Questa è stata una lezione molto divertente.
Tornando alla scuola di recitazione, con Spiro mi trovavo meglio che con Amodeo, che comunque era una persona deliziosa. Entrambi erano due bambini (sorride).
Amodeo essendo un professionista che lavorava in Rai, si concentrava molto sulla voce e meno sul corpo; mentre Spiro era più attento al movimento, che a me interessava maggiormente e poi, all’epoca, come Spiro, anch’io arrampicavo. Quando Spiro è venuto qui per il sessantennale dello Stabile, si è ricordato di quando ci siamo trovati in due cordate, sulla via dei tedeschi, in una giornata di pioggia.
Avevamo in comune questa passione, ma anche il movimento. La voce, invece, non è mai stata il mio modo di esprimermi in scena.

Lei ha fatto anche regia lirica. Che differenza c’è tra regia lirica e regia per uno spettacolo di prosa?

Per un periodo ho fatto anche alcune regie liriche; due o tre stagioni, alla Fenice di Venezia poi al Regio di Parma e a Trieste.
Nel teatro di prosa, il regista è una figura che porta avanti il lavoro in modo un po’ più dittatoriale (sorride) o in veste di costruttore di rapporti – come penso di essere io. È una figura alla quale ogni attore fa riferimento. Liti o non liti, è quella la figura.
Nella lirica, invece, il regista non esiste, come unico riferimento; i registi sono tre: il direttore musicale, il direttore d’orchestra – il primo regista – e il regista, ma insieme a lui potrebbe essere anche lo scenografo, il regista. Tant’è che nella lirica molti scenografi sono registi, diventano registi perché possono anche sorpassare i movimenti, il rapporto con il corpo.
Ricordo con piacere tutte le cose che ho fatto, ma i lavori che trovo più miei nella lirica, sono stati i due realizzati a La Fenice di Venezia. Il primo era “Una casa di morti” di Janáček e poi il trittico formato da: “Il Tabarro” di Puccini, “La vida breve” di de Falla e “Erwartung” di Schönberg. Mi sono proprio divertito.
In Erwartung c’era una cantante americana molto brava che faceva un po’ di tutto, e seguiva sempre le mie indicazioni, anche se nella lirica, l’uso del corpo è sempre legato all’emissione vocale, e quindi si è molto limitati negli spostamenti; e poi, tradizionalmente, i cantanti lirici si muovono poco. Infatti le volte che ho lavorato con i cantanti italiani è stata un po’ più dura. Ne “Il Tabarro” c’era un cantante – per l’appunto italiano – molto conosciuto nell’ambiente, tanto che venivano da tutte le parti d’Europa per sentirlo. Io cercavo di fargli fare delle cose e lui annuiva, ma poi arrivava molto tardi o non si presentava alle prove, perché doveva cantare al Covent Garden.
Un giorno arrivò e parlando un inglese con accento veneto – era di Rovigo – mi chiese come doveva fare la scena; io gliela mostrai ma poi, quando doveva fare ciò che gli avevo detto, lo trovai seduto, con un viso cupo. Mi disse che non stava bene e che doveva andare dal medico…a New York. Da lì ho capito che dovevo lasciarlo agire come voleva. Ma in questo modo non c’è divertimento.

Quindi il regista in un’opera lirica è molto vincolato?

Sì, non riesce ad esprimersi del tutto; non può usare le persone fino in fondo. C’e sempre una discussione con il direttore – a volte anche in positivo – quindi ci vorrebbero tempi diversi, almeno per me.
Ne “La casa dei morti” di Dostoevskij, che era corale, c’erano tante parti e nessuno aveva la parte centrale e questa coralità mi permetteva di usare di più gli attori.
Amo moltissimo Puccini, mi piace ascoltare la sua musica, anche se stranamente la “Bohème” che ho fatto, non è tra i miei migliori lavori (sorride).

Lei ha lavorato con Ugo Pagliai e Paola Gassman nella commedia “Spirito allegro” (1990). Com’è questa coppia?

Quando mi hanno proposto di fare questa commedia di Coward – autore che amo molto – da un lato ero felice, dall’altro mi rendevo conto che Pagliai e Gassman appartenevano al teatro borghese, quindi ad un altro mondo. Ma ho accettato lo stesso.
Mi ricordo che si provava al Teatro Bellini di Napoli – Ugo e Paola erano impegnati in un altro spettacolo – ed è capitato che dopo la prima settimana di prove io e Ugo abbiamo avuto delle incomprensioni, ma alla fine mi sono reso conto che in effetti aveva ragione lui.
Dopo vari provini è stata scelta, per la parte del fantasmino, un’attrice emergente: Benedicta Boccoli, davvero deliziosa, che poi è diventata l’attrice che conosciamo.

Una volta Paola mi disse: “Franco, c’è papà che vorrebbe venire ad una prova, può?”. Quando è venuto a vedere sua figlia recitare in questa commedia, l’ho trovato molto tenero. Vittorio Gassman era una persona molto educata; io l’ho visto più volte quando ha lavorato qui allo Stabile.
Ho un ricordo molto bello di “Spirito allegro”: primo perché ha fatto più di duecento repliche, ed è è venuto anche a Trieste nel ’95, quando era appena finita la guerra dei Balcani, e poi perché, alla fine, ho maturato una grande stima nei confronti di Ugo e di Paola.
Lei è una signora che ha le sue corde. Ugo è un attore bravissimo, un autentico primo attore, che riesce a fare il brillante con eleganza. Quando ho visto che assieme a Gianrico Tedeschi faceva “Dipartita finale”, ho detto: “È impossibile non vederli”, e così li ho inseriti in questa stagione teatrale.

Invece, com’era Walter Chiari?

Era un personaggio veramente vulcanico, con una bella cultura. La mia prima esperienza di produttore è stata con lo spettacolo “Gli amici” di Wesker (1986 n.d.r) che ho fatto proprio con Walter Chiari. Io ero in società con Renato Manzoni – l’attuale direttore dell’ente regionale teatrale FVG – e Roberto Buffagni, il traduttore. In quell’epoca si potevano fare le cose con poco e tutti venivano pagati. Abbiamo fatto in tutto settanta repliche, in un momento in cui Walter Chiari non voleva vedere nessuno.
Siamo andati a cercare Walter Chiari, per il nostro spettacolo, al Teatro Carcano di Milano, dove si stava esibendo con Roberto Brivio, uno de I Gufi. In questo enorme teatro non c’erano tantissime persone, era chiaro che per lui non era un buon periodo. In realtà Walter era uno che riusciva a raccontartela, era un affabulatore straordinario.
Nel testo di Wesker ci sono sette giovani e un adulto; i miei soci avevano pensato di chiamare Walter Chiari, io non ne ero tanto convinto, però ci serviva un nome famoso. Alla fine grazie ai miei soci e soprattutto grazie a Walter abbiamo venduto molto.
Ricordo che siamo venuti anche a Trieste a La Contrada e, dopo gli applausi, Walter disse: “Bisogna ringraziare il regista che è di Trieste, è un vostro concittadino.” Mi sentii un po’ in imbarazzo (ride).
Walter Chiari era leggendario per la famosa “non entrata in scena”, per i suoi ritardi, ma devo dire che con me è stato sempre puntualissimo; non ha mancato nemmeno una recita. Questa è stata una cosa molto bella. E non posso dire di aver diretto Walter…
Tra l’altro son contento di averlo fatto rinascere: dopo questo spettacolo Barbareschi gli ha fatto fare il film “Romance” e poi è stato chiamato da altri.

Mi sarebbe piaciuto fare “L’istrione” di Osborne (ovvero “The Entertainer”) con Walter Chiari, perché era l’unico che avrebbe potuto farlo. “L’istrione” racconta di un vecchio entertainer che è ormai fuori fase, quindi fa spettacoli nei teatri di provincia. Penso che una persona capace di interpretare questo ruolo non esista più o se esiste ha ottanta-novant’anni. Walter Chiari sarebbe stato perfetto, perché apparteneva alla generazione del varietà, della grande scuola.

Parlando del periodo universitario, cosa mi dice della sua tesi di laurea?

La mia tesi era sulla scenografia; poi n’è uscito anche un libro. Ho scavato un po’ nel Settecento e nell’Ottocento triestino. Quella volta il museo teatrale si trovava dentro il Teatro Verdi e io portavo su e giù gli scatoloni contenenti i documenti che mi interessavano per la tesi. Un giorno è saltata fuori una lettera che mi ha colpito molto; era una lettera dei signori, dei potenti della città del 1801 – anno di costruzione del Teatro Verdi – che avevano saputo del contratto tra il governo della città e il costruttore che aveva vinto la gara, un certo Tommasini, il quale proponeva una specie di Project Financing chiedendo in cambio alcuni anni di gestione del teatro, durante i quali il Comune non poteva esprimersi.
I signori si erano indignati ed avevano scritto questa lettera di fuoco al Comune sottolineando che il Tommasini, in questo modo, avrebbe sicuramente portato le scene più brutte, i cantanti più sfiatati e le compagnie più arrabecciate, perché intanto, a Trieste, la gente avrebbe comunque continuato ad andare a teatro.

Quant’è cambiato nel tempo il teatro a Trieste?

Il teatro è cambiato tantissimo, ma anche no. A Trieste si va tanto a teatro; io penso che in assoluto sia la città, che in rapporto agli abitanti, abbia il maggior numero di teatri in Italia. Ci sono teatri pubblici in lingua italiana e in lingua slovena. Il Teatro Stabile Regionale è nato a Trieste, prima c’era il Teatro Nuovo, poi Teatro Trieste e così via; qui abbiamo anche un ente lirico.
In Italia ci sono 17 teatri stabili, e due hanno sede a Trieste; mentre gli enti lirici sono 13 e noi ne abbiamo uno. C’è un teatro stabile privato, La Contrada, e poi c’è pure il Teatro Miela, che è pubblico, e con il quale collaboriamo.
In rapporto al numero di abitanti, c’è un così alto numero di teatri in questa città, che denota un grande amore dei cittadini verso il teatro.
Da quando sono diventato direttore ho cominciato a ragionare in maniera diversa. È chiaro che anche il regista si confronta sempre con costi di varia natura per l’allestimento dello spettacolo, e quindi sa come funzionano le cose; ma, ora, il mio punto di vista è cambiato.
Per cui non so ancora cosa succederà, perché è soltanto l’inizio di questo cambiamento che stiamo vivendo.

Negli ultimi anni il concetto di teatro è mutato?

Sì, in questi ultimi venti-venticinque anni il concetto di teatro è mutato, ma la gente ha comunque continuato ad andare a teatro. Quando sono andato via da Trieste, negli anni ’80, le persone che andavano a teatro si fidavano; uno spettacolo poteva piacere o non piacere, però il teatro era un posto dove lo spettatore sapeva che andava a vedere una cosa che lo avrebbe arricchito. Ora questo non è più così scontato.
E poi il teatro ha da decenni dei concorrenti come la televisione, il cinema e adesso anche internet, quindi si hanno tutte le possibilità per portare lo spettacolo a casa.
Il teatro è ancora molto frequentato nelle grandi città come Milano, Roma e Torino, ma anche in città più piccole come Genova, Trieste e Catania, che sono dei porti, come pure Napoli. Il porto è un posto di transito, un luogo di incontro come lo è il teatro; il teatro unisce culture diverse, e Trieste ne è un esempio.

Sì, Trieste è sempre stata il punto di incontro di culture diverse, di personaggi illustri…

Certo. Nel 2013 ho fatto uno spettacolo che racchiude un po’ questa realtà. Ho proposto un’idea, l’hanno accettata e mi hanno chiamato qua a Trieste. Lo spettacolo in questione è “1913, a teatro prima della notte”. Mi sono divertito a inventare una storia legata al periodo della Prima guerra mondiale; ho immaginato un giornalista che veniva qua, a Trieste, per seguire la situazione critica nei Balcani, che poi porterà al conflitto mondiale. Dopo cent’anni, un altro giornalista trova il diario di quel giovane e lo racconta al pubblico.
Sfogliando vecchi articoli di giornale si scopre una fiorente vita culturale triestina di quel periodo, ed è attorno a ciò che ruota lo spettacolo. Si fa riferimento a “La sposa venduta” di Smetana, che allora a Trieste venne sentita per la prima volta in lingua italiana; poi a “Terra desolata” di Schnitzler; a “La notte trasfigurata” (Verklärte Nacht) di Schönberg; a “Rosso di San Secondo” di Sem Benelli. Per non parlare poi della serata futurista del 1910 che è stata fatta qui a Trieste, e del repertorio di Cecchelin che prendeva in giro tutti e tutto. Venivano davvero tanti personaggi importanti in questa città, come Karl Kraus e gli stessi futuristi.

Trieste era una città profondamente teatrale. Secondo lei lo è ancora?

Sì, lo è; un esempio è la “Notte blu” che abbiamo fatto qualche mese fa. È stata una cosa che abbiamo organizzato in pochi giorni. Sia La Contrada che il Teatro Stabile Sloveno hanno subito aderito all’idea.
[L’evento “Notte Blu” è stato fatto in occasione della Barcolana, toccando i maggiori teatri cittadini proponendo al pubblico varie performance dedicate al mare fino a notte fonda. n.d.r]
Organizzare un evento del genere non sarebbe stato possibile in un’altra città, mentre qui siamo riusciti a unire strutture diverse in un unico progetto.
Per me, vedere quasi mille persone correre via dal Verdi verso un altro teatro, è stato bello. Questo enorme afflusso testimonia la volontà di andare a teatro anche da chi non ne è un frequentatore abituale.
Mi ricordo che ai tempi del Nautico andavo a vedere Ionesco fatto da Bosetti, e poi andavo al Verdi in loggione a sentire in particolar modo i concerti, non tanto le opere liriche. C’erano sempre molti giovani; ora mi sembra che tra i ragazzi questo interesse si sia un po’ perso, però, quest’anno, in realtà abbiamo avuto un 30-40% in più di abbonamenti da parte degli studenti e la cosa mi sembra molto positiva.

I ragazzi dovrebbero essere istruiti, preparati già in anticipo a ciò che andranno a vedere. Il teatro va capito…

Per forza, ma questa è un’altra cosa; quello che invece ho capito improvvisamente facendo un passo indietro di una trentina d’anni, quando facevo le prime regie, è che gli insegnanti ancora oggi, qua a Trieste, portano i ragazzi a teatro, privilegiando però i testi classici, come quelli di Pirandello, Shakespeare. Bisogna riconoscere che questi insegnanti hanno costruito – e continuano a farlo – un rapporto, una base solida con il teatro.
Per “Scandalo” c’era tanta gente, anche molti giovani, forse perché il testo era una novità e il regista è il direttore. Insomma c’era tutta una serie di cose che forse ha attirato un numeroso pubblico; mentre per “Porcile” di Pasolini non abbiamo avuto un grande riscontro. Ho spiegato che si trattava di una commedia con due protagonisti giovani, che parla di come una famiglia può distruggere una freschezza, un’innocenza, di un tema comprensibile ai ragazzi, ma evidentemente gli insegnanti hanno avuto “paura” di trovarsi di fronte a un contenuto magari un po’ duro o troppo intellettuale. Questo vale anche per lo spettacolo “Rosso Venerdì”. Mi ricordo che quando ho fatto “American Buffalo” è accaduta una cosa simile: grande successo, però alla fine gli abbonamenti li facevano per la sala grande, dove si rappresentavano prevalentemente i classici.

A novembre qui c’è stata “La Bisbetica domata” con un cast molto bravo, anche la regista lo è. La protagonista femminile è Nancy Brilli, un’attrice che fa molta televisione, cinema, forse un po’ lontana dal teatro. La regista ha fatto una scelta che è stata in parte apprezzata dal pubblico tradizionale, mentre ai giovani è piaciuta molto.
Questo va tenuto presente. Io, infatti, ho scelto anche delle cose nuove, come questo con Nancy Brilli o “Tre alberghi”; poi ci sarà un classico come “I Rusteghi”, però con attori mediamente giovani (30-40enni), che recitano in modo attuale. Ho cercato di trovare delle letture più aperte, questo non significa che siano trasgressive, ma che portino dei testi in un modo che possa avvicinare i giovani.
Il risultato delle mie scelte si potrà vedere solo alla fine della stagione, questa primavera.

Per esempio lo spettacolo “Artemisia Gentileschi” ha visto la partecipazione di tanti studenti…

Sì, chi l’avrebbe mai detto che “Artemisia Gentileschi” avrebbe attirato così tanti giovani. Proprio per questo motivo lo spettacolo è stato ripreso un’altra volta. Evidentemente, la semplicità del racconto ben realizzato, il fatto che scattasse subito il rapporto padre e figlia, e il fatto di come si possa far del male cercando invece di aiutare la propria figlia, è piaciuto.
Non è né più né meno di certi genitori che distruggono i figli, perché li spingono a fare il massimo; il padre di Artemisia ha fatto questo: sua figlia aveva un talento molto grosso, ma ha rischiato di distruggerla, e in parte l’ha anche rovinata.
Queste tematiche hanno toccato il pubblico, come anche il rapporto con la storia dell’arte. Spero, per il prossimo anno, di riuscire a trovare un’altra storia che tocchi l’arte.

Come mai lei ha scelto “Scandalo”?

Il mio progetto nasce dall’idea che bisogna fare di tutto, e poiché Trieste si trova in un’area culturale molto estesa, la famosa Mitteleuropa, ho voluto portare un autore come Schnitzler.
Vent’anni fa ho fatto “Il cavallo in fuga” di Martin Walser, tradotto da Pizzetti. Io e Pizzetti ci siamo messi a parlare, siamo entrati in confidenza, e lui mi ha tirato fuori alcuni testi inediti di Max Frisch, Mrozek, Schnitzler e altri. Schnitzler mi piace molto, pensavo di conoscere quasi tutte le sue opere, e invece il testo proposto da Pizzetti “Testamento” (Vermächtnis) non mi era noto. Dopo averlo letto, decisi di tenerlo; e quest’anno sono riuscito a metterlo in scena e a curarne la regia.
È una storia talmente ben scritta che l’ho lasciata così com’è, senza sforzarla o fare una nuova
drammaturgia.
Noi, in Italia, abbiamo avuto un po’ paura a raccontare storie; quello che è dato per scontato nei paesi anglosassoni, in Francia, in Germania, non lo è da noi. A volte, però, soprattutto in Germania, nei paesi del sud-est europeo, c’è questa mania di trasgredire, di stravolgere, che va bene, ma fino ad un certo punto. Bisogna sempre tener conto dei gusti del pubblico; il teatro è una comunque una cosa popolare. Quindi va bene il teatro di ricerca, che serve per cambiare, ma se si fa solo questo, alla fine non si va avanti.
“Scandalo” è molto attuale, basti pensare al personaggio di Ferdinand che dice alcune cose senza usare parafrasi e proseguendo poi tranquillamente il discorso. Se non fosse stata la prima rappresentazione di “Scandalo” in Italia, mi sarei divertito a spingere un po’ più su questo personaggio.

Ringrazio il direttore Franco Però per la sua disponibilità.

Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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